Guardare viene prima delle parole è una frase che può descrivere il breve saggio Perché guardiamo gli animali? di John Berger, usando l’epigrafe del suo libro più noto Questione di sguardi. Lo scritto pone l’accento sullo scambio puro e assoluto dello sguardo tra uomo e animale, al di là del linguaggio, attraverso un abisso di non-comprensione. Non appena l’uomo guarda un animale viene richiamato alla sua solitudine come specie e il segreto della loro somiglianza/diversità si rivela come tale. Il loro è un rapporto metaforico, i primi disegni, la prima metafora umana è stata animale. Berger con rammarico descrive il declino di quello sguardo che ha avuto un ruolo cruciale nello sviluppo della nostra società fino a meno di un secolo fa; l’addomesticamento dipendente dal senso di superiorità dell’umano ha cancellato il parallelismo e ha ridotto gli animali a una maggioranza silenziosa, marionette umanizzate nella banale rappresentazione alla Disney.
Lo zoo, risultato e frutto di esplorazioni e conquiste coloniali e in ultima analisi dell’imperialismo, ancor prima di essere dominio su altre terre e altri esseri, è stato quello mentale del cogito ergo sum. Nello zoo lo sguardo è unilaterale su un soggetto reso marginale e divenuto oggetto, resto di un mondo che va sparendo. Il visitatore singolo si sente isolato, se è in una folla appartiene a una specie anch’essa isolata. Gli zoo sono monumenti di questa perdita storica, con gli animali ormai lontani dal ricordarci le origini o dall’essere metafore morali; pure, nonostante la loro crescente marginalizzazione fisica, continuano a esser presenti in forme culturali, giochi, proverbi, modi di dire, sogni, superstizioni, e nei racconti: fiabe, romanzi, fantascienza e fantasy storica o pseudo tale.
«Ritengo gli Animali Piccole Persone, fratelli «diversi» dell’uomo, creature con una faccia», dice Anna Maria Ortese in Le piccole persone, saggio contenuto nella raccolta omonima pubblicata postuma; e più avanti: «Sento nella natura una tristezza di fondo … Ci sono momenti in cui un albero ci si mostra improvvisamente umano, stanco. Altri momenti che un’umile bestia ci guarda in modo tanto quieto, benevolo, profondo. Come gravasse su tutti noi, l’albero, la bestia, l’uomo, una stessa confusa memoria della separazione, e apprendimento rassegnato del lutto». Senza questo lutto, dirà in seguito, non si può scrivere. E infatti i suoi grandi romanzi sono fondati nella compassione come cognizione profonda del dolore.
La protagonista di L’Iguana, un romanzo fantastico, che si potrebbe definire fantasy d’epoca, ha al suo centro Estrellita, un’iguana: «… bestiola verdissima e alta quanto un bambino, dall’apparente aspetto di una lucertola gigante, ma vestita da donna, con una sottanina scura, un corsetto bianco, palesemente lacero e antico, e un ghembrialetto fatto di vari colori». Tra umano e animale, paradiso e inferno, è soggetta alle mutazioni dello sguardo altrui, considerata alternativamente principessa o servetta, sposa romantica o figlia adottiva, serpente malefico o fanciullina smarrita; lei non sa se «essere lei stessa, la Iguanuccia, il Male, ciò che dicesi ‘spirito delle tenebre’, perseguito da Dio», oppure il simbolo di un’alleanza tra le diverse specie, «un affiatamento e uno sforzo di superare insieme la terrestrità…». Quando crudelmente le portano uno specchio, da angelo caduto scopre di essere tutta sporca e brutta, «un vero serpente… in paradiso, in quelle condizioni, non poteva andare».
Altra creatura innocente e pura, priva delle ambiguità di Estrellita,un cucciolo di puma dell’Arizona è al centro di Alonso e i visionari (1996): «Il buon cucciolo cadde preda del sorriso di quelle fiere, imbevute della nostra cultura del primato, e rese più inesorabili dalla propria cultura; e fu oggetto, dopo ogni beffa, strazio o confinamento, di un vero linciaggio morale». In nome della libertà dai propri limiti, si varcarono tutti i limiti altrui. In Il cardillo addolorato (1993), ci sono due piccole persone, un folletto, un munaciello, vecchio di trecento anni della storia della città, e il cardillo stesso, che è oggetto dell’attrazione verso qualcosa che è al di là dell’umano, ‘il cuore della natura’. Questo essere piccolo tra i piccoli fa sentire il suo canto di dolore che «distrugge chi lo ama … perché è la nostra memoria signore … il ricordo dei giorni belli … i giorni impossibili che tutti noi abbiamo incontrato…» – una memoria distruttiva cui la città di Napoli non riesce a sfuggire.
Dalla visione cupa e triste di Ortese si passa al femminismo speculativo di oggi che cerca una strada partendo dal femminile. Un modo di vivere insieme, in una catena simbiotica tra esseri di ogni specie e natura, è lo scopo del libro recente di Donna Haraway, Staying with the Trouble. Making Kin in the Chthulucene. Il titolo complesso – ripreso da Anna Tsing – si riferisce all’arte di vivere in un tempo profondamente disturbato, di sopravvivere nel disagio, coesistere con la devastazione. Dagli organismi cellulari endosimbiotici all’origine della vita, abbiamo bisogno gli uni degli altri in una simbiosi obbligata.
Vari decenni prima l’autrice si era concentrata sul rapporto dell’umano con scienza e tecnologia nel suo «Cyborg Manifesto«, evocando nell’immagine del cyborg un organismo cibernetico, un ibrido tra macchina e umano, tra realtà sociale e romanzo, tra mito delle origini ed epoche future, tra scimmia e donna, come il titolo della raccolta Simians, cyborgs and women indicava programmaticamente – una guerra di frontiera giocata sui territori della produzione, della riproduzione e dell’immaginazione. Haraway capovolgeva il paradigma della donna, da sempre vista come sintesi tra natura e artificio, tra passato e futuro; consegnata nell’immaginario a un’alterità irrappresentabile come doppia minaccia, si trasformava in doppia utopia: il cyborg femminile era il simbolo di «confini trasgrediti, fusioni potenti, possibilità pericolose».
Nel libro recente la macchina c’è ma in secondo piano rispetto alla simbiosi organica che lei vede come urgente su un pianeta danneggiato come quello in cui ormai viviamo. Il presente è quello dell’antropocene e del capitalocene, mentre il tempo del chthulucene – nome di un altro luogo e di un tempo che era, ancora è, e ancora potrebbe essere – produce poteri e processi terreni inclusi quelli umani ma molto di più. Si può resistere producendo relazioni e collettività che travalichino la singolarità della riproduzione umana. «Creare relazioni e comunità, non bambini», titolo di uno dei capitoli, guarda al creare legami e parentele non solo genealogiche, ma veramente a favore dei bambini che nel mondo attuale non sono protetti. Il riferimento a coloro che cercano rifugio, i migranti di oggi, è un elemento importante di questo passaggio: «L’antropocene distrugge luoghi e tempi di rifugio quando, proprio ora, la terra è piena di rifugiati, umani e non».
Il libro tratta della resistenza dei ‘critters’ mortali sulla terra al tempo dell’antropos e del capitale. La parola inglese, alla lettera animali che strisciano, non va tradotta, ammonisce l’autrice, con creature che, in più di una lingua, sono riferite all’umano; in questo caso è usata promiscuamente per indicare esseri di ogni specie, microbi, piante, animali, umani e non umani («muniti di tentacoli, antenne, dita, cordoni, code di lucertola, gambe di ragno, peli scomposti») e talvolta macchine. Questi esseri sono alla base del pensiero tentacolare – il tentacolo può sentire e cercare – composto da fili che disegnano figure concatenate, come quelle del ripiglino in cui lo spago passa da una forma all’altra, tessendo ragnatele di sentieri e causalità mai deterministiche:«Nodi che si sciolgono per crearne altri, come nella fantascienza, che narra trame di mondi e tempi possibili, mondi material-semiotici, passati, qui, o ancora a venire». Come non pensare agli esseri tentacolari, nuova e futura specie al centro della trilogia di Octavia Butler, Xenogenesis?
La creazione di trame relazionali si ritrova nelle «fabulazioni filosofiche» ma anche nel rapporto tra scienza e immaginario («scientifico è il modo in cui scrivo» lei dice). Il nesso con il nuovo pensiero antropologico passa attraverso l’opera di Anna Tsing; con la biologia femminista il tramite è Lynn Margulis e con l’immaginario fantascientifico Octavia Butler e Ursula Le Guin –queste e altre sono le sue sorelle. È nella mitologia che il pensiero di Haraway trova le sue icone: «Medusa/Gorgoni/Erinni (Furie), Arpie, potenti entità alate dalla presa laterale e tentacolare, senza una genealogia o un genere definito, anche se sono sempre raccontate come femminili».
La copertina di Geraldine Javier mostra una figura composita che ha la radice in un’ossatura pelvica umana in forma di farfalla e s’innalza in una colonna vertebrale fatta da filamenti vegetali fino a finire nell’immagine di una farfalla compostadi due foglie secche. È umanoide e insettoide, fibrosa e ossea, pianta e animale, tra evocazione e metamorfosi. C’è il riferimento ai tanti temi del libro: le arti fibrose, la barriera corallina, le figure di fili o spago, le tessiture navajo, la medusa merlettata, e il richiamo alle molte metafore visuali, corporee e cerebrali, cui aggiungerei etimologiche, mitologiche e scientifiche.
Bibliografia
Octavia Butler, Ultima genesi e Ritorno alla terra, Urania Mondadori, Milano 1987 e 1988.John Berger, Perché guardiamo gli animali? Dodici inviti a riscoprire l’uomo attraverso le altre specie viventi, a cura di M. Nadotti, Il Saggiatore, Milano2016.
Annamaria Ortese, Le piccole persone, Adelphi, Milano 2016.
Annamaria Ortese, L’Iguana, Adelphi, Milano 1989.
Donna J. Haraway, Il manifesto cyborg. Donne , tecnologie e biopolitiche del corpo, Feltrinelli, Milano1995.
Donna J. Haraway, Staying with the Trouble. Making Kin in the Chthulucene, Duke U.P., Durham and London2016.
Tsing, Anna Lowenhaupt, In the Realm of the Diamond Queen. Marginality in an Out-of-the-Way Place, Princeton U.P., Princeton, NJ 1993.
[Lidia Curti 30/04/2017]