Il primo giorno
di Primavera del 2010 non si potrà dimenticare. Abito in campagna e vivo
il privilegio di questa condizione pensando a chi da giorni è confinato
nel proprio appartamento, magari in uno di quei quartieri delle
periferie degradate delle nostre città. Uscito di casa posso godere del tepore
del sole primaverile camminando lungo l’argine dell’Adige che scorre
placido e inconsapevole, in un ambiente campestre dove gli unici suoni sono quelli degli uccelli che intrecciano i loro voli in un ambiente in cui la natura in fiore dovrebbe aprire l’animo ad un’esperienza di armonia e di serenità. Ma i
pensieri corrono in un’altra direzione, lo spirito non può
sintonizzarsi con l’ambiente circostante, la mente è pressata dai dati
sempre più preoccupanti sull’emergenza causata dal diffondersi nel mondo
del coronavirus.
E da questa
prospettiva, quella della storia degli uomini, della società e della
cultura mi sembra, invece, di vivere l’esperienza del passaggio in una
nebbia imprevista e impensabile nelle sue proporzioni, che impedisce di
capire, vedere, prevedere. E tutto concorre a creare un senso di
precarietà e fragilità che non di potrà dimenticare. Si
vive in una profonda incertezza che si allarga soprattutto davanti al
nostro sguardo verso il futuro, quello più prossimo, che nessuno è in
grado di prefigurare. Anche la scienza vacilla e naviga a vista e questo
mi sembra il dato più significativo di questo evento epocale. Nel mondo
secolarizzato della modernità nel quale le religioni hanno perso quel
ruolo di creazione di orizzonti di senso , di costruzione di certezze
indiscusse, la scienza si era assunta il compito di definire nuovi,
seppure provvisori, capisaldi su cui l’umanità poteva contare per
continuare il suo cammino. Ma vediamo quanto siano fragili e quanto poco
sia sufficiente per rovesciare sicurezze, previsioni ed aspettative che
neanche erano ipotizzabili tanto sono impreviste e imprevedibili. Non
possiamo evitare di affidarci in questo momento agli esperti, agli
scienziati che i governi consultano per prendere i provvedimenti ritenuti
necessari per fronteggiare l’emergenza, ma vediamo quanto anche gli
uomini di scienza siano in difficoltà nel capire e prevedere e quanto
questa incapacità si traduca in contrasti e divergenza di opinioni. E’
stato spontaneo in questi giorni stupirci, e magari indignarci, per le
affermazioni e le decisioni di Boris Johnson, ma dietro a Johnson, come a
tutti i capi di governo, ci sono gli scienziati, con le loro analisi,
le loro previsioni, i loro modelli matematici. I picchi, di cui tutti
ormai parlano, previsti secondo questi modelli, sono sistematicamente corretti e posticipati nel tempo. Ed
è quasi paradossale che tutto questo ciclone sia causato da un virus,
cioè da un ente il cui statuto ontologico non è ancora definito. Non
intendo il coronavirus che è un virus di cui conosciamo pochissimo, ma
proprio il virus come ente generico di natura che aspetta ancora una
classificazione condivisa. Il virus è un organismo vivente o va riferito
al mondo dell’inorganico? Il problema è aperto e discusso.
Il 26 Febbraio
sul “il manifesto “ è apparso un intervento del filosofo Giorgio Agamben
che ha sollevato un putiferio, il titolo era: “Lo stato d’eccezione
provocato da un’emergenza immotivata”. Il pensiero di Agamben si può riassumere in questa frase che cito testualmente “Si
direbbe che esaurito il terrorismo come causa di provvedimenti
d’eccezione, l’invenzione di un’epidemia possa offrire il pretesto
ideale per ampliarli oltre ogni limite”. I provvedimenti d’eccezione
sono quelli che stanno limitando enormemente le libertà individuali, ma
non sono interessato qui a discutere la tesi di Agamben. Quello che
tutti i commentatori , alcuni con toni sprezzanti, hanno trascurato è la
premessa del ragionamento di Agamben. In premessa citava una nota molto
rassicurante del CNR, dal titolo “Coronavirus. Rischio basso, capire
condizioni vittime”, cioè assumeva, con atto di fede, il messaggio che
arrivava dalla fonte delle nostre sicurezze : la scienza . Quella nota
del 22 Febbraio a leggerla in questi giorni sembra di qualche anno fa.
Vi era scritto tra l’altro “l’infezione, dai dati epidemiologici oggi
disponibili su decine di migliaia di casi, causa sintomi lievi/moderati
(una specie di influenza) nell’80-90% dei casi. Nel 10-15% può
svilupparsi una polmonite, il cui decorso è però benigno in assoluta
maggioranza. Si calcola che solo il 4% dei pazienti richieda ricovero in
terapia intensiva”. E più avanti “Non c'è un'epidemia di
SARS-CoV2 in Italia. Il quadro potrebbe cambiare ovviamente nei prossimi
giorni, ma il nostro sistema sanitario è in stato di massima allerta e
capace di gestire efficacemente anche la eventuale comparsa di altri
piccoli focolai come quello attuale.”
Questo solo per
dire quanto difficile sia davanti a questa emergenza fare previsioni,
quanta nebbia debba diradarsi prima di capire quando e soprattutto come
ne usciremo. Ecco, se c’è una cosa che è possibile prevedere è che da
questa pandemia, come da tutte quelle che l’hanno preceduta, se ne
uscirà. Ma quando e come, ad oggi, nessuno può dirlo. Le
notizie che arrivano dalla Cina e dalla Corea sono confortanti, quelle
che arrivano dall’Europa, dall’America e dall’Africa , povera Africa,
molto meno. E anche su queste notizie, confrontando statistiche e numeri, si aprono problemi che è difficile al momento risolvere.
La Primavera è la
stagione del risveglio e della speranza , oggi è difficile viverla, ma
confidiamo che la prossima sarà certamente migliore.
Un saluto a tutti
Paolo