«I
quindici "divertimenti" che compongono questo libro ci invitano a
trasferirci in un futuro sempre più sospinto dalla molla frenetica del
progresso tecnologico, e quindi teatro di esperimenti inquietanti o
utopistici, in cui agiscono macchine straordinarie e imprevedibili.
Eppure non è sufficiente classificare queste pagine sotto l'etichetta
della fantascienza.
Vi si possono trovare satira e poesia, nostalgia del
passato e anticipazione dell'avvenire, epica e realtà quotidiana,
impostazione scientifica e attrazione dell'assurdo, amore dell'ordine
naturale e gusto di sovvertirlo con giochi combinatori, umanesimo ed
educata malvagità. L'autore è un chimico, e la sua professione traspare
nell'interesse per come sono fatte le cose dentro, per come si
riconoscono e si analizzano. Ma è un chimico che sa le passioni umane
non meno di quanto sappia la legge dell'azione di massa, e smonta e
rimonta i segreti meccanismi che governano le vanità umane, ammiccando
dalle ironiche allegorie, dalle sorridenti moralità che ci propone. Ci
pare tuttavia che il miglior modo di presentarle sia riportare uno
stralcio di una lettera recente dell'autore:
"Parlare dei miei racconti mi mette in un certo imbarazzo; ma forse la stessa descrizione ed analisi di questo imbarazzo potrà servire a rispondere alla sue domande.
Ho scritto una ventina di racconti e non so se ne scriverò altri. Li ho scritti per lo più di getto, cercando di dare forma narrativa ad una intuizione puntiforme, cercando di raccontare in altri termini (se sono simbolici lo sono inconsapevolmente) una intuizione oggi non rara: la percezione di una smagliatura nel modo in cui viviamo, di una falla piccola o grossa, di un 'vizio di forma' che vanifica uno od un altro aspetto della nostra civiltà o del nostro universo morale. Non so se siano belli o brutti: piacciono a molti alcuni che dispiacciono a me, molti ne rifiutano alcuni di cui io mi sento fiero. Certo, nell'atto in cui li scrivo provo un vago senso di colpevolezza, come di chi commette consapevolmente una piccola trasgressione.
Quale trasgressione? Vediamo. Forse è questa: chi ha coscienza di un 'vizio', di qualcosa che non va, dovrebbe approfondirne l'esame e lo studio, dedicarcisi, magari con sofferenza e con errori, e non liberarsene scrivendo un racconto. O forse ancora: io sono entrato (inopinatamente) nel mondo dello scrivere con due libri sui campi di concentramento; non sta a me giudicarne il valore, ma erano senza dubbio libri seri, dedicati a un pubblico serio. Proporre a questo pubblico un volume di racconti-scherzo, di trappole morali, magari divertenti ma distaccate, fredde: non è questa frode in commercio, come chi vendesse vino nelle bottiglie dell'olio? Sono domande che mi sono posto, all'atto dello scrivere e del pubblicare queste 'storie naturali'. Ebbene, non le pubblicherei se non mi fossi accorto (non subito, per verità) che fra il Lager e queste invenzioni una continuità, un ponte esiste: il Lager, per me, è stato il più grosso dei 'vizi', degli stravolgimenti di cui dicevo prima, il più minaccioso dei mostri generati dal sonno della ragione"».
[Risvolto della prima edizione Einaudi 1966, collana «Coralli», uscita con lo pseudonimo Damiano Malabaila. Il risvolto è anonimo ma attribuibile a Italo Calvino (cfr. Opere I, a cura di M. Belpoliti, 1997, p. 1434)]
"Parlare dei miei racconti mi mette in un certo imbarazzo; ma forse la stessa descrizione ed analisi di questo imbarazzo potrà servire a rispondere alla sue domande.
Ho scritto una ventina di racconti e non so se ne scriverò altri. Li ho scritti per lo più di getto, cercando di dare forma narrativa ad una intuizione puntiforme, cercando di raccontare in altri termini (se sono simbolici lo sono inconsapevolmente) una intuizione oggi non rara: la percezione di una smagliatura nel modo in cui viviamo, di una falla piccola o grossa, di un 'vizio di forma' che vanifica uno od un altro aspetto della nostra civiltà o del nostro universo morale. Non so se siano belli o brutti: piacciono a molti alcuni che dispiacciono a me, molti ne rifiutano alcuni di cui io mi sento fiero. Certo, nell'atto in cui li scrivo provo un vago senso di colpevolezza, come di chi commette consapevolmente una piccola trasgressione.
Quale trasgressione? Vediamo. Forse è questa: chi ha coscienza di un 'vizio', di qualcosa che non va, dovrebbe approfondirne l'esame e lo studio, dedicarcisi, magari con sofferenza e con errori, e non liberarsene scrivendo un racconto. O forse ancora: io sono entrato (inopinatamente) nel mondo dello scrivere con due libri sui campi di concentramento; non sta a me giudicarne il valore, ma erano senza dubbio libri seri, dedicati a un pubblico serio. Proporre a questo pubblico un volume di racconti-scherzo, di trappole morali, magari divertenti ma distaccate, fredde: non è questa frode in commercio, come chi vendesse vino nelle bottiglie dell'olio? Sono domande che mi sono posto, all'atto dello scrivere e del pubblicare queste 'storie naturali'. Ebbene, non le pubblicherei se non mi fossi accorto (non subito, per verità) che fra il Lager e queste invenzioni una continuità, un ponte esiste: il Lager, per me, è stato il più grosso dei 'vizi', degli stravolgimenti di cui dicevo prima, il più minaccioso dei mostri generati dal sonno della ragione"».
[Risvolto della prima edizione Einaudi 1966, collana «Coralli», uscita con lo pseudonimo Damiano Malabaila. Il risvolto è anonimo ma attribuibile a Italo Calvino (cfr. Opere I, a cura di M. Belpoliti, 1997, p. 1434)]
Storie naturali uscì dunque presso Einaudi, nel 1966, sotto lo pseudonimo di Damiano Malabaila, cognome che in piemontese vuol dire «cattiva balia»; e in verità, rifletteva l’autore, «mi pare che da molti dei miei racconti spiri un vago odore di latte girato a male, di nutrimento che non è più tale, insomma di sofisticazione, di contaminazione e di malefizio». Il risvolto di copertina qui riportato è anonimo, ma indizi di stile inducono ad attribuirlo a Italo Calvino, che seguì l’iter redazionale dell’opera.
Solo formalmente questo libro è la prima raccolta di racconti di Primo Levi: anche Se questo è un uomo e La tregua erano, di fatto, raccolte di testi brevi. Ora la vocazione dello scrittore alle forme modulari si fa più sfaccettata, in un periodo in cui Levi – come dichiarerà in alcune interviste – crede di non avere più nulla da dire su Auschwitz.
Scritti nell’arco di vent’anni (1946-1966), i quindici racconti di Storie naturali ci parlano, quale più quale meno, di altrettante gravidanze di una ragione dormiente che si risolvono in parti mostruosi. Ma è l’autore medesimo di questo libro a percepire se stesso come una creatura paradossale; non per niente sceglie pudicamente un nome di penna e non per niente s’identifica volentieri con il centauro Trachi: il protagonista di quella Quaestio de Centauris che è la storia più riuscita del volume. Il centauro diventerà da allora in poi l’emblema pubblico di Levi-Malabaila: centauresca è l’immagine dello «scrittore non scrittore», narratore e chimico, ex deportato e uomo della strada, ebreo e italiano, testimone di Auschwitz e scrittore d’invenzione.
In Storie naturali troviamo l’anello forte che salda la produzione «concentrazionaria» di Levi a quella liberamente inventiva; non per nulla molte delle Storie sono ambientate in una vaga Germania, suggerita dall’onomastica dei luoghi e delle persone, e da poco altro. Più che praticare la fantascienza, Levi descrive scenari che alcuni anni più tardi egli stesso definirà di «futuro anteriore»: un minaccioso avvenire del quale si possono già cogliere i segni nell’oggi, sviluppandoli a lume di ragione e portandoli alle estreme conseguenze. Le Storie naturali sono i racconti estremi di un uomo mite: la follia dell’eugenetica, la conversione del dolore in piacere, la realtà virtuale che risucchia e tritura la vita mentale e fisiologica di chiunque se ne lasci tentare… Ma sono anche i racconti nei quali, dopo La Tregua, Levi conferma la sua vocazione di grande umorista e di giocoliere della lingua. Il radiodramma Il versificatore e la “vera” storia dei conciliaboli e dei quiproquo più o meno divini legati alla creazione dell’uomo (Il sesto giorno) sono due prove di virtuosismo. Così come è un bizzarro e inquietante virtuoso l’agente di commercio della Natca, quel signor Simpson che ci propone le invenzioni della sua azienda come altrettanti pomi staccati dall’albero del bene e del male: dal versificatore al Mimete duplicatore al «calòmetro» misuratore di bellezza, fino ai nastri del Total Recorder con le loro esperienze virtuali di progressiva – e reale – perdizione.
Nel 1967 Storie naturali vinse un antico e prestigioso premio milanese, il Premio Bagutta.
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