Ripetere lo schema di un romanzo che ha incontrato un grande successo è
sempre rischioso, ma la singolarità dell’ultimo lavoro di Elizabeth
Strout,
Tutto è possibile (in uscita martedì da
Einaudi, traduzione di Susanna Basso, pp. 207, euro 19,00) – che
presenta una serie di racconti legati tra loro dalla presenza, sullo
sfondo, della protagonista di Mi chiamo Lucy Barton – sta proprio nel
ricorso a una struttura collaudata non per creare un seguito al romanzo
precedente, ma per rimetterne in discussione l’assunto, offrendo una
visione stereoscopica dei fatti.
Lucy era diventata famosa, presso i lettori di Elizabeth Strout,
raccontando a modo suo la propria storia, nella quale aveva inserito
accenni alle vite di altre persone e alle dicerie sul loro conto: sono
proprio questi personaggi, parenti o compaesani, a assumere qui il primo
piano, acquisendo una dignità e uno spessore che Lucy aveva loro negato
e, al tempo stesso, fornendo nei loro commenti un’altra versione dei
fatti che riguardano Lucy, e con ciò una diversa interpretazione del suo
personaggio.
Scambi di ruoli
Tuttavia, anche chi non aveva letto
Mi chiamo Lucy Barton
riuscirà ad apprezzare questo romanzo successivo, anzi: non avere
un’idea precostituita di Lucy, e non aver mai sentito prima i nomi di
Abel, Dottie, o delle principessine Nicely, permette di accostare questi
personaggi senza pregiudizi. Erano al tempo stesso figure sullo sfondo
dell’incontro tra Lucy e la madre – che non si vedevano da molto tempo
per poi ritrovarsi incapaci di affrontare la memoria di un passato
brutale o di mettere a nudo i loro sentimenti – e oggetti del loro vuoto
chiacchiericcio. Ora, in
Tutto è possibile, tornano a animare
una sorta di film corale (si pensi a America oggi, che Altman trasse da
alcuni racconti di Carver) e l’abilità di Elizabeth Strout sta nel
tenere insieme le fila di questo gioco narrativo dando valore a ogni
apparizione sulla scena, fosse anche per una sola battuta o uno sguardo
silenzioso.
Come in Olive Kitteridge, il libro che valse all’autrice il Pulitzer nel
2009, due sono gli elementi unificanti: lo scenario in cui si svolgono
le vicende e la presenza di un personaggio che fa da collante per le
varie narrazioni; e se la protagonista eponima, nel lavoro del 2009,
occupava il primo piano solo in un numero ridotto di storie, in Tutto è
possibile, Lucy appare in un solo racconto, mentre negli altri è citata
nei pensieri e nei discorsi di qualcun altro, o non compare affatto.
Eppure, man mano che la lettura procede, e personaggi appena accennati
nel romanzo precedente acquistano spazio e, soprattutto, umanità, Tutto è
possibile si rivela non tanto un novel in stories, come Olive
Kitteridge, quanto un piccolo, ma perfetto, romanzo corale. Di storia in
storia, infatti, comparse e comprimari diventano protagonisti assoluti,
poi si scambiano i ruoli e si scoprono tra loro impensate, ancorché
apparentemente casuali o superficiali relazioni, finché la rete tessuta
dall’intreccio delle loro vicende si fa talmente fitta da non rendere
più necessario il ricorso a quell’elemento unificatore che era
rappresentato dall’apparizione di Lucy Barton.
Così, se in Olive Kitteridge l’austera insegnante di matematica che ne
era protagonista rappresentava una middle class anonima, e la sua
cittadina, Crosby nel Maine, era la raffigurazione di quella stessa
provincia in cui vivono e languono le tante Olive che popolano
l’universo femminile (non solo americano) in Tutto è possibile il
profilo di Lucy, la ragazzina indigente che è riuscita a fuggire dalla
miseria e dai maltrattamenti per diventare scrittrice di successo, non
combacia più – nei ricordi misti di rabbia, orgoglio e invidia dei suoi
fratelli e dei compaesani – con quello della donna che, al termine di Mi
chiamo Lucy Barton esorcizzava il passato nella scrittura, rivendicando
orgogliosamente le proprie origini, attraverso la fiera
riappropriazione del nome di famiglia.
Più ancora di
Olive Kitteridge,
Tutto è possibile rimanda a un classico americano,
Winesburg, Ohio
di Sherwood Anderson, un ciclo di racconti tenuti insieme dallo sfondo
urbano, da diversi ricorrenti personaggi e dal tema della repressione
sessuale nella provincia americana. Come Winesburg, Amgash e le località
limitrofe dell’Illinois in cui si svolgono le storie di
Elizabeth Strout
sono cittadine dove gli abitanti si conoscono tutti e conoscono – o
credono di conoscere – tutti i segreti altrui. E come Anderson, anche
Strout dimostra che, invece, certe passioni restano chiuse tra le mura
delle villette unifamiliari, sfuggendo anche all’occhio del più attento
tra i vicini.
Tutti i personaggi di questo romanzo, nessuno escluso, sono vittime di
traumi da cui non riescono a liberarsi, e tutti patiscono un qualche
senso di vergogna; i loro sono traumi infantili terribili e
inconfessabili, o traumi di guerra, o ricordi che, taciuti troppo a
lungo sono divenuti, a loro volta, spaventosi. «Erano cresciuti
nutrendosi di vergogna; la vergogna era stato il concime del loro
terreno», si dice di una famiglia locale, in cui il padre mantiene in
segreto per decenni una relazione omosessuale. Ma non provano minore
vergogna la ragazza che ha scoperto la madre a letto con il proprio
insegnante e la sorella di lei, sposata a un pervertito di cui da anni
asseconda i vizi; la moglie che, dopo aver accudito in silenzio un
marito fedifrago e irascibile, ha abbandonato settantenne il tetto
coniugale, per fuggire in Italia con un coetaneo delle sue figlie; il
reduce del Vietnam che ha prosciugato il conto di famiglia per aiutare
una prostituta, e il cugino di Lucy che, divenuto un ricco imprenditore,
prova comunque la sensazione continua di dover chiedere scusa, «pur non
sapendo a chi».
L’empatia della autrice
Da questo senso di vergogna Lucy sembrava essersi sollevata alla fine
del suo memoir, nel romanzo precedente, ma il tremendo attacco di panico
che mette fine alla sua visita in famiglia svela ora una ben altra
verità. Tocca a sua cugina Dottie, che gestisce un bed and breakfast e
nota in alcuni dei suoi clienti un fastidioso atteggiamento di
superiorità, offrire un’interpretazione di questo comune senso di
vergogna attribuendolo alla classe sociale: «Era una questione di
culture diverse … E la cultura comprendeva anche la classe sociale, cosa
di cui nessuno voleva parlare nel paese perché non era educato, ma
Dottie era anche del parere che la gente tendesse a non parlare di
classi sociali perché non capiva che cosa fossero. Ad esempio, che cosa
avrebbero pensato se avessero scoperto che lei e suo fratello da piccoli
erano andati a raccogliere da mangiare nei cassonetti della
spazzatura?»
Mostrando verso i suoi personaggi un’empatia priva di sentimentalismo,
Elizabeth Strout conferma tuttavia la sua immersione nella
consapevolezza di quanto contino le classi sociali, e come chi proviene
dagli strati più umili si porti dietro le proprie origini quasi fossero
«arti fantasma».
[Silvia Albertazzi 3/09/2017]