Ricordo a tutt* che martedì sera siete impegnat* tra Asti e il Messico, a casa mia. Se c'è qualche problema, parlate adesso o tacete per sempre. Vi ricordo che il pasticcere sta organizzando il lavoro.
Ho letto
Ferrovie del Messico di
Gian Marco Griffi nell’ottobre del 2022, un po’ per caso; l’avevo
comprato mesi prima, insieme a tanti altri libri, per via del tam-tam
mediatico (ci torneremo) che lo aveva segnalato come libro
imprescindibile della solita magra stagione letteraria italiana. Mi
aveva poi incuriosito la trasformazione di Giulio Mozzi, editor della
collana
fremen di Laurana per cui è uscito il romanzo, in
instancabile ufficio stampa. Sono un consumatore banale: se una cosa è
pubblicizzata tanto mi convinco del suo valore, o perlomeno la acquisto.
Ho iniziato a leggere il libro un pomeriggio in cui non avevo molto da
fare, aspettando il momento esatto in cui iniziasse a piacermi.
Un’attesa vana. Ricevevo stimoli divergenti, un totale disinteresse per
la trama e l’atmosfera ad alto gradiente sentimentale in cui l’azione si
svolge (siamo alle battute finali della seconda guerra mondiale, nella
repubblica di Salò, ma i personaggi sembrano usciti per metà dal
Favoloso mondo di Amélie
e per metà da un qualsiasi film indipendente presentato al Sundance),
mi scoprivo infastidito dai giochetti postmoderni derivativi (la
quest,
il manoscritto che non si trova, un mondo letteralmente abitato solo da
poeti, il cosmopolitismo forzato) ma la scrittura aveva dei tratti
indubbiamente interessanti, o perlomeno insoliti, un procedere
magmatico, ipertrofico, un ritmo ben cadenzato che portava con sé
detriti e scorie provenienti da mondi distanti, dominato dall’analogia,
dall’accumulazione e da una sorta di ontologia olista. Certo, non sempre
questa scrittura era ugualmente convincente, accanto a frasi e a
riprese che blandivano il mio gusto, a specialismi o dialettalismi che
ho dovuto googlare (e per cui ringrazio sempre uno scrittore), il
torrente tipografico portava con sé luoghi comuni, movenze ed
espressioni del traduttese («le protesi mammarie in silicone sono una
cannonata», espressione – che una cosa è una cannonata – ripetuta più
volte da diversi personaggi e che non ho mai sentito in italiano
pronunciata da qualcuno in carne e ossa ma letta solo nei libri
giovanili di Wallace), ingenuità, elementi kitsch, effetti di comico
involontario, o semplicemente associazioni mal riuscite (nel libro ogni
sensazione che uno dei personaggi avverte può essere accompagnata anche
da mezza pagina da similitudini, similitudini che spesso sembrano più
che altro un esercizio di scrittura automatica, riescono a farci
dimenticare di cosa si stava parlando in partenza, non sono un supporto
euristico o visivo, ma solo un affastellarsi di
cose, un rumore
di fondo). Un po’ di esempi: «Il termine che utilizzò – stronzate –
pronunciato da lei suonò sgraziato come la ciccia attorno la vita di un
pugile, come una puzzola addomesticata a forza», in che senso? «ciccia»,
brutto; «un giorno Achille Brera risorgerà, dannandosi e imprecando e
trascinando con sé un’infinita poesia, sublime e inattesa come versi di
Saffo letti sulla corazza di un carrarmato germanico», anche no; «Le
mattine invernali che seguono una notte di neve sono come silenzio
africano dipinto da Michelangelo se il silenzio si potesse dipingere,
come un deserto di confine raccontato da un vecchio americano, oppure
come certi paesi nascosti nella campagna incolta; sono belle come
l’invenzione della poesia e taciturne come un ricordo felice», cringe;
«Lui non aveva mai creduto né nel dio minuscolo né nel Dio Maiuscolo. Se
fosse esistito uno dei due, una divinità trascurabile di mezza tacca o
un Onnipotente, la sua vita terrena non sarebbe stata che una lunga
miseria nell’attesa della resurrezione della carne, la sala d’aspetto di
un dentista, e quel pensiero gli frullava in testa inammissibile. Non
c’era un cazzo, pensava […]», cringissimo, «mezza tacca», un pensiero
che «frulla in testa», un «cazzo» buttato lì,
fuck: solo nei romanzi italiani.
Ad ogni modo, ho continuato la lettura
anche nei giorni seguenti. Mi annoiavo, sottolineavo una frase che
ritenevo bella, andavo a mangiare una merendina colma di grassi saturi,
mi divertivo per una trovata che si ramificava nella mia immaginazione
(la fabbrica di colori, la macchina per far parlare Tilde), ma poi mi
annoiavo di nuovo e mi ripetevo che ok, forse era il caso di chiudere il
libro e non riprenderlo più il giorno successivo. Tuttavia il
pomeriggio dopo tornavo a leggerlo, era diventato un gesto
tranquillizzante, mettersi sotto il piumone in orario ancora lavorativo e
aprire Ferrovie del Messico, meglio che studiare o leggere
poesia o rischiare di iniziare un romanzo che mi piacesse davvero,
movimentando così l’entropia dei giorni con un entusiasmo dovuto. I
momenti in cui un libro accende i nostri sensi possiamo permetterceli
con parsimonia noi rifiuti umani.
Le recensioni che finora ho letto di Ferrovie del Messico
hanno tutte un gran pregio: non dicono niente. Ripetono che si tratta
di un libro importante (ok, usano un’aggettivazione meno cauta), ne
riassumono in parte la trama (siamo nel 1944 ad Asti, Cesco Magetti ha
un terribile mal di denti e deve disegnare in una settimana una cartina
contenente la rete ferroviaria del Messico, perché i nazisti la
vogliono, perché forse esiste una città nascosta che serba una
pericolosa arma, o un mistero), e poi elencano quelle quattro/cinque
caratteristiche per cui il romanzo appartiene a quel genere che
solitamente chiamano opera-mondo, un corredo morfologico che appartiene a
centinaia di romanzi (a volte ne elencano qualcuno, solitamente quelli
citati da Griffi stesso o dal suo postfatore, non problematizzano la
definizione), ma che per loro è la garanzia che il libro di cui si sta
parlando contenga un qualche valore (ho il ricordo vivido di me in primo
liceo che ascolto un ragazzo di terza dire a una mia compagna di
classe: «tu hai un mondo dentro, dobbiamo uscire insieme»).
L’appartenenza a una forma simbolica come autovalidazione. Il
ragionamento è più o meno questo: Ferrovie del Messico è lungo,
c’è (apparentemente) molta confusione, quindi è un’opera mondo, le
opere mondo sono belle e solitamente sono quelle che il canone
occidentale preferisce selezionare, Ferrovie del Messico è un capolavoro, Griffi è il Bolaño italiano.
Devo ammettere che gli articoli che ho letto non hanno totalmente torto: Ferrovie del Messico ambisce
ad essere un romanzo massimalista (definizione più precisa, che
riprendo dal saggio di Stefano Ercolino e che preferisco alle varie systems novel, mega-novel e all’opera mondo morettiana),
ma lo è, in qualche modo, in salsa italiana. Prima di spiegarlo, un
altro po’ di sociologia. Qual è la prima caratteristica che Ferrovie del Messico
condivide con i romanzi a cui è stato (il più delle volte
ingiustamente) paragonato e che formano questa classe testuale? La
lunghezza. L’arcobaleno della gravità, I detective selvaggi, Infinite Jest, Europe Central, sono libri lunghissimi, stratificati, iperistruiti, difficili da leggere. Anche Ferrovie del Messico
è un libro lungo. Lungo, ma non enormemente lungo. 800 pagine ma i
caratteri sono generosi, il formato del volume è 19×12. E poi tutto
sommato è un romanzo molto scorrevole, i vari rimandi iper e
intertestuali sono sempre intuitivi (livello primo anno di università ma
saltando le lezioni, il teschio di Amleto, la pazzia di Astolfo ecc.),
al punto che se Wallace diceva che per leggere con cognizione di causa
il suo romanzo sarebbero serviti due anni, per Griffi bastano i
pomeriggi di una settimana lavorativa (il che non è una cosa negativa di
per sé). Quindi, lunghezza, o meglio, in questo caso, la mole. Il libro
è grande, pesa, è scomodo da portare nello zaino. Questa quantità si
trasforma in un correlativo oggettivo della sua qualità, secondo uno
slittamento consueto del mercato editoriale. Il lettore è convinto,
acquistando il romanzo, di accaparrarsi una grande quantitativo di
Cultura, e che questa dose massiccia lo renderà una persona migliore. Il
libro come merce. Come feticcio identitario. Il piacere della
voluminosità. Il grande successo in termini di vendite dei libri grossi, in una cultura fondata sulla sacralità delle opere gigantesche (l’Iliade, l’Odissea, la Bibbia, la Divina Commedia, il Paradiso perduto, Faust, il manuale di anatomia, l’Ulisse, Proust, Infinite Jest, il codice di giustizia civile). C’è un’altra particolarità che spiega tutto questo entusiasmo per Ferrovie del Messico,
e cioè che l’autore non è un accademico, o un intellettuale affermato,
ossia, sostanzialmente, secondo molti, un delinquente, un bandito, un
raccomandato, uno stronzo, un massone. Gian Marco Griffi gestisce un
campo da golf ad Asti, non è un affiliato del velenoso mondo delle
bellelettere. E questo ci è ricordato in continuazione nelle recensioni,
e perfino nella postfazione del libro redatta da Marco Drago, come
fosse un merito. Marketing, ancora.
I giovani studenti di Filologia moderna a
Bologna sono piacevolmente sorpresi dal fatto che anche un outsider
sappia scrivere, e scrivere bene, che un romanzo così letterario sia
opera di una persona che non ha passato i propri vent’anni sul Trattato teologico-politico di Spinoza o su Allegorie della lettura
di de Man, un individuo che al posto di guadagnare o curare il corpo
non trascorreva le proprie giornate parlando di Roland Barthes al bar
dell’università, che non è arrivato ai trenta facendosi gli agganci
giusti alle presentazioni o sulle piattaforme social, che non si è fatto
venire il reflusso gastroesofageo per tutti gli aperitivi letterari a
cui è andato. I giovani studenti impareranno presto una lezione
fondamentale del tempo in cui viviamo, la crux perenne degli
scrittori quarantenni che vedono i loro libri ingiallire
nell’indifferenza: ci sono troppe persone che sanno scrivere, anche
discretamente, non credo che in Italia ci siano mai state
simultaneamente tante persone che sapessero scrivere bene come accade
oggi, addetti al marketing, narratori promettenti che curano le
relazioni di compagnie edilizie del Veneto, che fanno i centralinisti in
Calabria, che traducono male articoli per i siti a 6 euro al pezzo ma
hanno un contatto in Mondadori. Il picco dell’alfabetizzazione. Una
generazione di intellettuali precari, troppo vecchi per Tik-Tok. Stati
Facebook composti con una tale sapienza retorica che sembrano dire cose
vere.
Uno dei tratti principali che definisce il romanzo massimalista e su cui tornano favorevolmente le recensioni a Ferrovie del Messico
è la coralità/polifonia. Viene in mente un piccolo classico della
psicologia cognitiva: il problema del cocktail party. Andiamo a una
festa con molti invitati, la prima sensazione è un rumore indistinto.
Poi riusciamo a focalizzare l’attenzione su una conversazione,
isolandola dal tappeto sonoro. Anche se delle persone si frappongono tra
noi e la persona che stiamo ascoltando parlare, riusciamo a capire cosa
questa dice. Una cosa non possiamo fare: prestare attenzione a due
conversazioni simultaneamente. Ed ecco che arriva Joyce: l’errore è
proprio il volersi soffermare su qualcosa, restringere il campo,
concentrarsi. L’uomo moderno è un saggio sulla distrazione, non ascolta
realmente niente, ma ascolta tutto. Registra passivamente. Leopold Bloom
oggi alle tre di notte guarderebbe i reel sullo smartphone
fino a quando non gli tremano le mani, Molly Bloom andrebbe in bagno per
twittare che è insoddisfatta, «yes», lovereactato.
James O. Incandenza, regista cinematografico e protagonista occulto di Infinite Jest,
suicidatosi mettendo la testa nel microonde, si pone un problema simile
nelle ultime pagine del romanzo, quando appare (come spettro) a Don
Gately. Quando nei film tradizionali due personaggi parlano al bancone
di un bar strapieno non sentiamo mai le conversazioni degli altri
avventori, ma solo quella degli attori principali. Ciò che i film
sacrificano è «il blaterio vero ed egualitario della vita reale delle
folle senza figuranti […] di una folla ogni membro della quale era il
protagonista centrale e distinto del suo intrattenimento [= del suo
film]». In questo modo non si rende un buon servizio alla mimesis. Così
J. O. Incandenza sviluppa nei propri film quello che chiama “realismo
uditivo” [aural realism]: nelle scene girate in luoghi pubblici
non è possibile per lo spettatore isolare le conversazioni narrative
centrali, o meglio, distinguerle da quelle periferiche e casuali. Viene
automatico pensare che Wallace, tramite J.O.I., stia in realtà parlando
di Infinte Jest. Tante voci, tanti personaggi, tanti stili, Wallace è un ventriloquo: He do the police in different voices (Eliot aveva scelto questo modo di dire come titolo originario di The Waste Land).
Griffi è un bravo scrittore, ma la sua polifonia regge solo
apparentemente. Innanzitutto la focalizzazione sembra interessare quasi
esclusivamente Cesco Magetti, il protagonista, e quindi la polifonia
riguarda soprattutto gli interlocutori con cui questo entra in contatto.
Ed effettivamente ogni gruppo tende ad avere il proprio gergo (come
quello, molto ben congegnato, dell’Aquila Agonizzante), e ci sono
personaggi caratterizzati da una lingua forte (il sardo della curandera, ma in una scena minuscola, il romano macchiettistico e goffo e wanna be gadda
del capo di Cesco, la lingua blasfema di Lito Zanon). Si tratta però
solo di parziali allontanamenti (e tutti limitati alla variabilità
diastratica) dalla lingua superfetata che fa da cornice e contenuto del
romanzo. È difficile trovare una differenza linguistica o stilistica tra
le lettere di Isotta o le ruminazioni di Tilde, tra i ricordi di
Bardolf Graf e i pensieri di Cesco. E questa lingua, per quanto
eclettica e variegata, si muove secondo dei moduli abbastanza fissi:
torsioni espressionistiche, una tendenza al “poetichese” nelle selezioni
aggettivo-verbo o predicato-complemento oggetto, una preferenza per
similitudini “a compasso largo”, una coazione quasi patologica verso
l’elencazione paratattica agglutinante. Questa super-lingua, come già
detto, a volte funziona a volte meno, ma soprattutto pervade tutte le
scene del romanzo, che si tratti di beghe di ufficio alla stazione
ferroviaria di Asti o di poeti sperduti nel profondo Messico. Questa
lingua è insomma una sorta di colla, ed è il vero elemento strutturante
di Ferrovie del Messico. Al suo interno si innestano elementi
dialettali e gergali, che sicuramente aggiungono colore, ma sono
fenomeni estemporanei, secondari. Non c’è quindi alcun tipo di realismo
uditivo, di polifonia, di democrazia delle voci, ma sempre una
gerarchia, un rapporto centro (lingua superfetata) – periferia
(variazioni).
Possiamo così introdurre un altro elemento
di critica al romanzo (o meglio, di critica a come il romanzo è stato
presentato), quella che Ercolino chiama l’esuberanza diegetica. I
romanzi massimalisti sono pieni di storie. Storie nelle storie, storie a
incastro, storie a specchio, metastorie, come un avvelenamento fungino.
Storie-batterio. Un’epidemia di personaggi. E questo per Ferrovie del Messico
è vero, ancora una volta, solo in parte. L’impressione che ho avuto è
che queste storie siano più che altro evocate, nominate, mai realmente
narrate, tolto nel caso (abbastanza breve ma rilevante nell’economia
narrativa) di Bardolf Graf e dei peregrinaggi in Messico dello scrittore
Gustavo Adolfo Baz in compagnia di Lito e Mec. Per il resto è difficile
perdere di vista la trama principale. Il motore che fa aumentare i giri
della narrazione è centripeto, non centrifugo. A ben vedere, il mondo a
prima vista così vasto del romanzo si riduce a una manciata di luoghi
significativi, che attraggono i pochi personaggi rilevanti (non più di
cinque) come una calamita. Un mondo grande, ma tutto sommato fatto di
pochi spazi e poche persone. Che si apre a delle infinite possibilità,
ma non le esplora. Non a caso uno degli stilemi più ricorrenti di Ferrovie del Messico
è del seguente tipo: «Lei mi parlò del suicidio e della precessione
degli equinozi»; «Lui mi parlò di scheletri che camminano tenendosi per
mano. Di astrazioni vorticose e radiazioni cosmiche. Parlò di onde
magnetiche e generali baffuti e marionette monche. Parlò di apocalissi e
diavoli. Di uomini che cadono dal nulla nel nulla. Parlò di donne blu e
di uccelli contorti e di mostri tentacolari. Parlò di aurore chimiche e
di strali lucenti magnetici». Da notare che nel primo caso la “lei” è
Tilde, nel secondo il “lui” è Ennio, un amico partigiano di Cesco che ha
disertato e si sta recando in Svizzera: sembrano la stessa persona.
Sono frasi belle, potrebbe averle scritte Breton, ma all’interno di un
romanzo denotano un dominio pressoché endemico del «tell» sullo «show». È
come se Sherazade si limitasse a fare al sultano solo una sinossi delle
storie nella realtà dovrebbe raccontare. È come se il Decameron
fosse composto soltanto dalle rubriche che aprono le dieci giornate e
non dei racconti della brigata. Ancora: «Raccontò la storia di come Mec
lo aveva ritrovato all’ufficio oggetti smarriti della stazione di Asti
accanto agli amori inutilmente assecondati, alle minestre rovesciate e
al senno dei paladini [sic], e lo aveva riassemblato, predisposto e
messo in funzione. A un certo punto scrisse “avventure di Mario Emilio
Carlo Bertone sulle ferrovie del mondo”, cominciò a descrivere le
vicende di Mec in Germania, in Angola, in Argentina, poi si interruppe
bruscamente a metà di una frase»; e poi pochissimo dopo: «mi raccontò di
fotografie e verità, dei gesti antichi impressi sulla pellicola
fotografica e della lingua garifuna parlata in Centroamerica […]» e così
avanti per un’altra pagina. Direbbe un attore romano in Boris: «‘o
dimo».
Lo straniamento che solitamente attraversa il lettore alle prese con un’opera massimalista è in Ferrovie del Messico
abbastanza contenuto. Il romanzo è tutto sommato un romanzo
tradizionale. Il mondo ideologico-verbale è compatto e omogeneo
(riduzione della polifonia entro l’intreccio, effetto strutturante della
super-lingua agglutinante, simultanea e onnipresente, quasi
un’invariante). I salti temporali o prospettici tra i diversi paragrafi
(uno dei pezzi forti di Infinite Jest, Underworld e
dello stesso Bolaño) non sono quasi mai netti, ma sempre anticipati da
una clausola didascalica, più adatta a un saggio che a un romanzo
sperimentale (un esempio che vale per tutti – le transizioni sono fatte
più o meno così: segmento lungo su Cesco Magetti, Cesco Magetti fa cose,
parla con un cartografo samoano ad Asti, fa altre cose, e proprio alla
fine del segmento il narratore ci dice che «In strada benedii
mentalmente Pietro ed Ennio, pregando che stessero bene»; ovviamente il
segmento successivo racconta la storia di Pietro ed Ennio ecc.). La
sintassi paratattica dei diversi frammenti, che con la loro autonomia e
indipendenza sono lo strato testuale dell’ideologia debole del romanzo
massimalista (bibliografia sterminata in merito: dai Prolegomena ad Homerum
di F. A. Wolf, 1795, a Jameson) tende qui piuttosto all’ipotassi, alla
subordinazione, a un’organizzazione del senso abbastanza tradizionale.
Il montaggio ejzenštejniano come giustapposizione dell’eterogeneo è qui
il più delle volte lineare e omogeneo. Il lettore non rischia mai
davvero di perdersi, non c’è un reale caos da controllare e organizzare,
Griffi non è uno scrittore da frattali (così importanti per Pynchon,
Wallace, Fernadez Mallo ecc.). Ferrovie del Messico sta ai
grandi romanzi massimalisti come un laser game alla guerra. Dopo
mezz’ora passata in una stanza polverosa illuminato dagli infrarossi,
vestito come un cretino, nascosto dietro uno scatolone di polistirolo,
inizi ad abituarti all’illusoria grandezza degli spazi, inizi a
conoscere a perfezione il perimetro in cui ti muovi, hai imparato a
prevedere le mosse degli avversari (soprattutto di quel tuo amico di
infanzia che fa il commercialista a Barcellona, che si è sposato con la
ragazza di cui eri innamorato da bambino, e che ti ha costretto a pagare
20 euro per fare questa stronzata, in nome dei vecchi tempi). Ci sono
ovunque frecce e indicatori che aiutano ad orientarti. Il fucile che hai
in mano è troppo dozzinale per essere credibile, è un giocattolo
sovrapprezzo, non diverso da quello che tuo fratello ha comprato a suo
figlio per Natale. Il patto mimetico si rompe dopo poco. Ogni cosa ti
ricorda che fortunatamente sei a Segrate, non in Siria o a combattere
gli alieni per salvare la terra. Prima di tornare a casa devi comprare
gli hamburger vegetali.
Insomma, il decentramento, la coralità,
l’abbondanza diegetica, la polifonia, elementi che caratterizzano il
romanzo massimalista a cui Griffi evidentemente si ispira, sono qui
molto contenuti. Nonostante la varietà (mai eccessiva, sempre misurata)
dei personaggi e delle storie, c’è sempre un centro narrativo ben
riconoscibile, una storia principale che procede senza grossi intoppi.
Viene da chiedersi se i recensori di Ferrovie del Messico, che
calcano la mano proprio su questi elementi (analessi, prolessi, stacchi,
montaggio, multifocalità, polifonia, plurilinguismo) che sono invece
come “normalizzati” da Griffi, abbiano mai letto un romanzo negli ultimi
70 anni, o perlomeno visto una serie che non sia La casa di carta o sfogliato un manga fatto come si deve o giocato a un videogioco di Hideo Kojima.
C’è infine un ultimo elemento di
domesticazione della narrazione massimalista: l’indeterminatezza. I
romanzi massimalisti non finiscono. Non tanto perché sono troppo lunghi e
i loro autori non hanno avuto il tempo di finirli (Bolaño e Proust sono
stati letteralmente uccisi dai loro libri; la forma definitiva dell’Ulisse
è stata stabilita dal tipografo parigino che si è rifiutato di
accettare gli innesti che Joyce gli proponeva in corso di stampa), ma
perché l’apertura è una loro caratteristica sostanziale, per ragioni
narratologiche ed estetiche. Wallace scrive in una lettera al suo editor
che, finito Infinite Jest, il lettore deve essere a conoscenza
di una porzione di trama non superiore al 20%. Narrazioni che aprono
talmente tante porte da non poterle poi richiudere. In Ferrovie del Messico invece la quest
si conclude. È vero che non sappiamo quasi niente di questa Santa
Brígida de la Ciénaga, ma alla fine ce ne dimentichiamo, perché Cesco
Magetti redige la sua mappa del Messico, cresce, matura i suoi
sentimenti partigiani, diventa uomo (= antifascista), l’arco narrativo è
sostanzialmente compiuto. E non solo, compiuto positivamente. Se
prendiamo i grandi romanzi di formazione del XIX secolo (a cui forse il
libro andrebbe ricondotto: siamo più nella zona del Wilhelm Meister che nella polifonia spinta del secondo Faust),
sono canti di soccombenti: Wilhelm Meister non fonda il teatro
nazionale tedesco, Julien Sorel non diventa il nuovo Napoleone, Lucien
de Rubempré non diventa uno scrittore, Frédéric Moreau non ecc. Alla
fine, cioè che a Griffi manca dei grandi narratori (ed è forse il vero
motivo per cui il libro mi è piaciuto così poco) è la crudeltà. Il suo
libro è consolatorio. C’è una differenza manichea tra i personaggi
positivi (i quali contengono tutti, come la mia compagna di classe, «un
mondo dentro»; Cesco Magetti è un idiota, ma è ipersensibile come un
idealista tedesco) e quelli negativi (nazisti). C’è una sorta di lieto
fine.
Opera mondo, romanzo massimalista abbiamo
detto, sì, ma impiegatizio. Filtrato da un bot della scuola Holden
programmato per una progressiva semplificazione e schematicità. Il mondo
di Ferrovie del Messico tende a una continua produzione di
senso, a una continua rivelazione, ma posticcia, come l’iscrizione
trimestrale a un corso di yoga. Rubo un’espressione a Moretti:
dilettantismo monumentale. Concludo con due punti, secondo me molto
importanti, che un critico più sistematico e preparato di me dovrebbe
analizzare. Il primo: l’influenza (nociva) di Bolaño sulla letteratura
italiana. Parto dal presupposto che a me Bolaño piace molto, fatta
esclusione per I detective selvaggi, libro tremendamente sopravvalutato (se vi piacciono libri come I detective selvaggi o Rayuela guardatevi
allo specchio: o siete al primo anno di lingue, sognando un erasmus a
Parigi, città che avete visto da piccoli coi vostri genitori prima che
divorziassero, o siete dei potenziali elettori del PD); ciò che di bello
c’è in Bolaño però non sono tanto i giochetti metanarrativi o le
trovate alla Borges (per quanto mi riguarda, il tema del manoscritto
ritrovato o del poeta di cui si sono perse le tracce si conclude con Fuoco pallido
di Nabokov), ma proprio la grana (irripetibile) della sua scrittura,
quell’odore di siero, di libri vecchi e di acqua da bagno stantia che
hanno le sue storie, come annusare una banconota da mille lire trovata
nel comodino di tua nonna il giorno prima che morisse. Quindi basta
parlare di droghe, di gruppi oscuri di scrittori, di Sudamerica ecc., se
non siete bravi come Bolaño (e non lo siete) o perlomeno mezzi
sudamericani o eroinomani. Secondo punto: la polarizzazione della
narrativa italiana contemporanea. Tranne pochi luminosi esempi (non li
farò, ma li conosciamo tutti, se però proprio li volete sapere
scrivetemi in privato, la parola d’ordine per farvi rispondere è
PROPRIOCETTIVO), il campo letterario (che brutta espressione) si divide
in libri mainstream scritti in quel famoso italiano ipermedio di cui
parlava già diversi anni fa Giuseppe Antonelli e libri che definirei giovannei,
i quali ambiscono (il più delle volte fallendo) a essere fatti solo di
scrittura, inseguendo il fantasma di Gadda, D’Arrigo, Manganelli,
insomma, dei mostri sacri del Novecento italiano. Questi libri, venendo
bollati come eccentrici rispetto al canone italiano contemporaneo (fatto
sostanzialmente di un solo personaggio e di una sola voce), finiscono
poi per diventare anch’essi mainstream. Ed è quello che è successo a
Gian Marco Griffi, che non solo non è Gadda (ci mancherebbe), ma non è
nemmeno Davide Orecchio o Giordano Meacci. E non vedo perché dovrei
ringraziarlo (o tesserne le lodi) per non essere Ammaniti.
[Fabrizio Maria Spinelli]