«La Saint-Tropez del Finistère». È questo il biglietto da visita
che dovrebbe servire a trasformare la rada di Brest, un braccio di mare
scuro e battuto costantemente dal vento, in una accogliente stazione
balneare. A smerciare il sogno di un rapido arricchimento e di un nuovo
futuro a una comunità di operai di mezza età che hanno appena perso il
lavoro nell’arsenale della città bretone, è arrivato Antoine Lazenec,
uno che parla, si veste e si muove come «quelli di Parigi».
Martial Kermeur non sembra fidarsi, ma è appena stato mollato dalla moglie, si occupa da solo di un figlio di dieci anni e ha come unico orizzonte quello di incassare la liquidazione e ridare una qualche stabilità alla propria vita. Alla fine cederà anche lui, entrerà nell’affare, e sarà improvvisamente troppo tardi per fare un passo indietro, riprendersi i soldi investiti nel progetto e tornare a nutrire una qualche speranza per il futuro. In un doloroso monologo scandito davanti a un giudice, che lo ascolta silenziosamente come uno psicoanalista, Kermeur racconta in prima persona dell’inganno che ha subìto, di come le sconfitte si sono via via accumulate su altre sconfitte nel corso della sua vita e di come, infine, abbia trovato la forza di reagire.
Con Articolo 353 del codice penale (Neri Pozza, pp. 142, euro 15), Tanguy Viel costruisce con il suo abituale linguaggio cinematografico un meccanismo oppressivo teso fino all’inverosimile, dove le scelte subìte pesano quanto quelle mai fatte e dove il bisogno di giustizia si mescola con la ricerca della verità. Un romanzo che, come è ormai costume per il 44enne scrittore francese, pluripremiato e campione di vendite in patria, trascina il noir oltre i confini del genere, senza mai abbandonare il mare torbido e incerto dell’animo umano.
Partiamo da un apparente paradosso: il titolo del suo romanzo cita il codice penale, ma sembra esprimere soprattutto il sentimento intimo, doloroso e straziante dell’ingiustizia. Come stanno le cose?
Il mio percorso come narratore è stato quello di accompagnare questo dolore, farlo emergere. Ho affidato così alla letteratura la capacità di riparare in un certo qual modo i torti subiti, di fare e rendere giustizia a chi è stato vittima di un inganno, di una violenza. Per questo si arriva a comprendere appieno il significato di quella citazione del codice penale solo al termine del libro e attraverso un percorso che dall’ingiustizia cerca di condurre verso la giustizia. Inizialmente, volevo intitolarlo «intima convinzione», perché è in questi termini che viene evocata nell’articolo 353 la scelta ultima di un giudice di fronte al caso che deve esaminare: decidere chi sia davvero il colpevole e di cosa possa essere ritenuto fino in fondo responsabile.
Questo percorso verso la giustizia sembra compiersi prima di
tutto nel segno del linguaggio. Quello intimo ma a tratti incerto di
Martial Kermeur, quello essenziale del giudice che lo ascolta
ricostruire la sua vicenda, quello formale ma decisivo dei codici.
Parole alla ricerca della libertà?
Si immagina spesso che gli scrittori inventino una nuova lingua, straniera, e non ci si accorge come in realtà la loro lingua contenga sovente una domanda profonda e radicale di ritorno alla comunità. Dovremmo poter chiedere a Kafka o a Dostoevskij cosa pensano al riguardo. Nel caso di Kermeur, il suo eloquio stentato, inframmezzato dai «non so come si possa dire tutto ciò», esprime proprio questo: la possibilità per lui che ne è escluso sia in quanto indagato che a causa della sua debolezza retorica, di entrare a far parte della lingua comune, di uno spazio condivisibile, di rientrare in qualche modo in una comunità. Del resto, credo che la parola, e il semplice atto di rivolgersi all’altro, rappresentino una promessa. Non è sempre chiaro cosa questa promessa significhi, non so se evochi la libertà, ma è questo meccanismo che chiamo letteratura e che mi spinge a scrivere.
Nella vicenda di Kermeur non si scorgone solo le tracce di una sconfitta personale, ma il tramonto di un intero mondo operaio, quello dei cantieri navali di Brest, dei governi socialisti degli anni di Mitterand, della gauche in generale. La truffa di cui è vittima evoca il tradimento della sinistra verso i lavoratori, la sua vendetta una sorta di scena della lotta di classe?
Credo proprio di sì. Ho ambientato il romanzo all’inizio degli anni Novanta perché in quel periodo ha avuto luogo una trasformazione allo stesso tempo rapida e drammatica. È iniziata la deindustrializzazione del paese, si è chiusa una stagione di potere della sinistra, è iniziata a emergere la deriva dei socialisti francesi verso il mondo degli affari e del denaro; non a caso per il personaggio del truffatore mi sono ispirato a Bernard Tapie. Ogni narrazione concreta della realtà è venuta meno, mentre le promesse collettive fatte dalle generazioni precedenti hanno assunto la forma della sconfitta, della rinuncia, del ripiegamento individuale. Kermeur stesso si sente isolato, solo, non trova più intorno a lui il calore e la solidarietà dei suoi compagni di un tempo all’arsenale: sono stati licenziali e l’unico orizzonte che ha davanti a sé è costituito dal modo in cui deciderà di spendere la sua liquidazione.
C’è chi si ostina a considerarla come un semplice autore di polar, in realtà il filo che lega i suoi romanzi alla letteratura poliziesca sembra essere rappresentato soprattutto da ciò che il denaro può fare delle persone…
Mi sono stati attribuiti un certo gusto per il gotico e, in effetti, amo molto le atmosfere delle opere di Edgard Allan Poe come di Conan Doyle, anche se credo che il mio sguardo risenta più del linguaggio cinematografico dei noir, di Hitchcock piuttosto che di De Palma. Ma in effetti non so perché ho questa sorta di ossessione per gli intrighi che hanno a che fare con i soldi. Forse perché per questa via, e attraverso la chiave del polar, si possono costruire dei romanzi familiari e psicologici senza darlo troppo a vedere. Malgrado ciò che si potrebbe pensare a prima vista, il denaro è in realtà qualcosa di profondamente astratto, un po’ come la balena di Moby Dick, e rappresenta uno straordinario motore metafisico ed esistenziale per le persone. Seguire la pista dei soldi ci conduce al cuore del mistero dell’uomo.
Nel 2013 lei ha pubblicato un romanzo «on the road» ambientato negli Stati Uniti, «La Disparition de Jim Sullivan», e alcuni critici hanno visto in «Articolo 353» una sorta di riscrittura di un film western, con la figura del truffatore, Antoine Lazenec, paragonabile a quella di un sinistro pioniere. L’estremo occidente della Bretagna come il Far West?
In realtà, mi sono reso conto solo alla fine che anche questo romanzo poteva evocare le mie letture americane. Pur se più che di «western» parlerei di «southern», nel senso che credo vi si possa scorgere l’ombra degli Snopes di William Faulkner o di Tutti gli uomini del re di Robert Penn Warren, libro ispirato alla carriera del corrotto governatore della Louisiana Huey Long. In questo caso, l’immaginario letterario si è però mescolato anche con quello cinematografico, visto che ho pensato alla rada di Brest un po’ come alle campagne sulle rive dell’Ohio di La morte corre sul fiume di Charles Laughton. Un orizzonte naturale stagnante e malinconico, un presagio di guai.
[Guido Caldiron 9/03/2018]
Martial Kermeur non sembra fidarsi, ma è appena stato mollato dalla moglie, si occupa da solo di un figlio di dieci anni e ha come unico orizzonte quello di incassare la liquidazione e ridare una qualche stabilità alla propria vita. Alla fine cederà anche lui, entrerà nell’affare, e sarà improvvisamente troppo tardi per fare un passo indietro, riprendersi i soldi investiti nel progetto e tornare a nutrire una qualche speranza per il futuro. In un doloroso monologo scandito davanti a un giudice, che lo ascolta silenziosamente come uno psicoanalista, Kermeur racconta in prima persona dell’inganno che ha subìto, di come le sconfitte si sono via via accumulate su altre sconfitte nel corso della sua vita e di come, infine, abbia trovato la forza di reagire.
Con Articolo 353 del codice penale (Neri Pozza, pp. 142, euro 15), Tanguy Viel costruisce con il suo abituale linguaggio cinematografico un meccanismo oppressivo teso fino all’inverosimile, dove le scelte subìte pesano quanto quelle mai fatte e dove il bisogno di giustizia si mescola con la ricerca della verità. Un romanzo che, come è ormai costume per il 44enne scrittore francese, pluripremiato e campione di vendite in patria, trascina il noir oltre i confini del genere, senza mai abbandonare il mare torbido e incerto dell’animo umano.
Partiamo da un apparente paradosso: il titolo del suo romanzo cita il codice penale, ma sembra esprimere soprattutto il sentimento intimo, doloroso e straziante dell’ingiustizia. Come stanno le cose?
Il mio percorso come narratore è stato quello di accompagnare questo dolore, farlo emergere. Ho affidato così alla letteratura la capacità di riparare in un certo qual modo i torti subiti, di fare e rendere giustizia a chi è stato vittima di un inganno, di una violenza. Per questo si arriva a comprendere appieno il significato di quella citazione del codice penale solo al termine del libro e attraverso un percorso che dall’ingiustizia cerca di condurre verso la giustizia. Inizialmente, volevo intitolarlo «intima convinzione», perché è in questi termini che viene evocata nell’articolo 353 la scelta ultima di un giudice di fronte al caso che deve esaminare: decidere chi sia davvero il colpevole e di cosa possa essere ritenuto fino in fondo responsabile.
Si immagina spesso che gli scrittori inventino una nuova lingua, straniera, e non ci si accorge come in realtà la loro lingua contenga sovente una domanda profonda e radicale di ritorno alla comunità. Dovremmo poter chiedere a Kafka o a Dostoevskij cosa pensano al riguardo. Nel caso di Kermeur, il suo eloquio stentato, inframmezzato dai «non so come si possa dire tutto ciò», esprime proprio questo: la possibilità per lui che ne è escluso sia in quanto indagato che a causa della sua debolezza retorica, di entrare a far parte della lingua comune, di uno spazio condivisibile, di rientrare in qualche modo in una comunità. Del resto, credo che la parola, e il semplice atto di rivolgersi all’altro, rappresentino una promessa. Non è sempre chiaro cosa questa promessa significhi, non so se evochi la libertà, ma è questo meccanismo che chiamo letteratura e che mi spinge a scrivere.
Nella vicenda di Kermeur non si scorgone solo le tracce di una sconfitta personale, ma il tramonto di un intero mondo operaio, quello dei cantieri navali di Brest, dei governi socialisti degli anni di Mitterand, della gauche in generale. La truffa di cui è vittima evoca il tradimento della sinistra verso i lavoratori, la sua vendetta una sorta di scena della lotta di classe?
Credo proprio di sì. Ho ambientato il romanzo all’inizio degli anni Novanta perché in quel periodo ha avuto luogo una trasformazione allo stesso tempo rapida e drammatica. È iniziata la deindustrializzazione del paese, si è chiusa una stagione di potere della sinistra, è iniziata a emergere la deriva dei socialisti francesi verso il mondo degli affari e del denaro; non a caso per il personaggio del truffatore mi sono ispirato a Bernard Tapie. Ogni narrazione concreta della realtà è venuta meno, mentre le promesse collettive fatte dalle generazioni precedenti hanno assunto la forma della sconfitta, della rinuncia, del ripiegamento individuale. Kermeur stesso si sente isolato, solo, non trova più intorno a lui il calore e la solidarietà dei suoi compagni di un tempo all’arsenale: sono stati licenziali e l’unico orizzonte che ha davanti a sé è costituito dal modo in cui deciderà di spendere la sua liquidazione.
C’è chi si ostina a considerarla come un semplice autore di polar, in realtà il filo che lega i suoi romanzi alla letteratura poliziesca sembra essere rappresentato soprattutto da ciò che il denaro può fare delle persone…
Mi sono stati attribuiti un certo gusto per il gotico e, in effetti, amo molto le atmosfere delle opere di Edgard Allan Poe come di Conan Doyle, anche se credo che il mio sguardo risenta più del linguaggio cinematografico dei noir, di Hitchcock piuttosto che di De Palma. Ma in effetti non so perché ho questa sorta di ossessione per gli intrighi che hanno a che fare con i soldi. Forse perché per questa via, e attraverso la chiave del polar, si possono costruire dei romanzi familiari e psicologici senza darlo troppo a vedere. Malgrado ciò che si potrebbe pensare a prima vista, il denaro è in realtà qualcosa di profondamente astratto, un po’ come la balena di Moby Dick, e rappresenta uno straordinario motore metafisico ed esistenziale per le persone. Seguire la pista dei soldi ci conduce al cuore del mistero dell’uomo.
Nel 2013 lei ha pubblicato un romanzo «on the road» ambientato negli Stati Uniti, «La Disparition de Jim Sullivan», e alcuni critici hanno visto in «Articolo 353» una sorta di riscrittura di un film western, con la figura del truffatore, Antoine Lazenec, paragonabile a quella di un sinistro pioniere. L’estremo occidente della Bretagna come il Far West?
In realtà, mi sono reso conto solo alla fine che anche questo romanzo poteva evocare le mie letture americane. Pur se più che di «western» parlerei di «southern», nel senso che credo vi si possa scorgere l’ombra degli Snopes di William Faulkner o di Tutti gli uomini del re di Robert Penn Warren, libro ispirato alla carriera del corrotto governatore della Louisiana Huey Long. In questo caso, l’immaginario letterario si è però mescolato anche con quello cinematografico, visto che ho pensato alla rada di Brest un po’ come alle campagne sulle rive dell’Ohio di La morte corre sul fiume di Charles Laughton. Un orizzonte naturale stagnante e malinconico, un presagio di guai.
[Guido Caldiron 9/03/2018]
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