Si riuniscono,
condividono un libro per giorni, poi lo discutono insieme Da vicino.
Parallelamente ai social, crescono sempre più i circoli letterari. In Italia solo
quelli “ufficiali” sono più di 400. E non hanno nulla di virtuale
Il
lettore collettivo
Chi sceglie i titoli da
affrontare? Una somma di nomination o i consigli di un leader riconosciuto
MICHELE SMARGIASSI
Lo schema è semplice
semplice. «Biscottini. Poi ci scanniamo. Poi, altri biscottini». È successo
ormai un centinaio di volte, in sei anni, sempre qui, nella sala da tè di un
bel bed&breakfast nel centro di Bologna, nido del gruppo di lettura
Bookies&Cookies. Un libro al mese, una serata al mese di discussione
bollente come un tè, «a volte fino alle lacrime». Più è calda e agitata, meglio
è. «Sulla Ferrante è stata moscia, eravamo tutte d’accordo. Su Anna Karenina a momenti si arrivava alle mani».
L’avvocata, la farmacista, l’impiegata, la mamma. Uomini zero, esclusi per
statuto: «I lettori maschi», spiega Ilaria Zucchini, fondatrice, «cercano il
palcoscenico ». Mentre è un’altra cosa, né raduno di critici letterari, né
vanitoso social network. Ma cosa sono, allora, i gruppi di lettura? Oggetti
culturali non identificati. Eppure tutt’altro che inediti, forse
addirittura secolari, tutt’altro che invisibili, anzi studiatissimi, coccolati
dalle biblioteche, lusingati dagli editori, analizzati dai sociologi. Oggetti
che sembrerebbero impossibili, anacronistici nell’era del libro immateriale e
della condivisione online. Però esistono, e non sono mai stati così tanti. Il
portale Biblioclick promosso dal sistema bibliotecario Milano Nord-Est ne
cataloga 408 in Italia, ma è una mappa a iscrizione libera e basta qualche
verifica a campione città per città per realizzare che in realtà sono almeno
quattro o cinque volte tanti. Con una media di una trentina di lettori a
gruppo, fanno circa sessantamila italiani (italiane: la preponderanza femminile
è schiacciante), lettori accaniti, che quando arrivano alla quarta di copertina
non sono ancora soddisfatti. Vogliono di più. Lo cercano, e lo trovano, negli
altri lettori. «Finora il gruppo ha letto oltre duecento romanzi», proclama con orgoglio quello che si ritrova alla biblioteca di Segrate.
Ma come, «il gruppo ha
letto»? Sembra un paradosso. Nulla di più individuale della lettura, no?
Almeno, da quando anche nei conventi non si legge più ad alta voce in
refettorio. «Ma il precetto della lettura solitaria è rispettato », spiega Luca
Ferrieri, bibliotecario di Cologno Monzese, pioniere e luminare riconosciuto
del fenomeno, «solo in rari casi si fa lettura comunitaria ad alta voce. I
gruppi sono uno spazio sociale intermedio, sospeso fra l’intimità
sacra del rapporto fra autore e lettore e la collettività».
Ciascuno se lo arreda
come crede, quello spazio. Non c’è una tipologia stabile. Costante è solo la
prevalenza assoluta della narrativa. Ad ampio spettro però, classici e novità
volentieri alternati. Rare le monomanie: una setta di solo-Jane-Austen a
Bologna, una lobby rigorosamente proustiana a Milano. Più diffusi i gruppi di
genere: gialli, libri di viaggio. Certi ammettono nuovi soci solo a invito,
altri sono come autobus dove si sale e si scende a piacere. Il mondo web li
corteggia, ma con suo probabile disappunto non riesce ad inglobarli: Anobii,
ora sotto l’ala di Mondadori, con 300 mila utenti solo in Italia, è rimasto un
sito di mutui consigli di lettura. Facebook ha lanciato un anno fa il suo
gruppo “A Year of Books” (un libro proposto ogni due settimane), ha 617 mila
followers, in fondo pochini. Del resto, alcuni gruppi ignorano del tutto il
web, altri fanno uso intensivo ma complementare dei social network, mentre i
gruppi solo online sono pochi e rischiano di essere bacheche di vanitosi
aspiranti critici.
La lettura condivisa
resta tutto sommato ben radicata nel mondo fisico. Molti gruppi si appoggiano
alle biblioteche pubbliche. Ci sono grandi strutture come il Circolo dei
lettori di Torino, autentica business class della lettura, sale eleganti,
budget da 2 milioni di euro sostenuto da una fondazione, tutor professionali,
duemilacinquecento soci, centottanta eventi al mese. Ed esperienze
micro-garibaldine come “Viola legge” (dal nome della più piccola
frequentatrice), qualche centinaio di lettori catalizzati dalla libreria
editrice Kindustria in un paese di diecimila abitanti, Matelica, entroterra
marchigiano. In mezzo, l’Italia carbonara dei “lettori forti” (bastano dieci
libri l’anno, in Italia, per far parte dell’élite) che cercano altri lettori
forti e fondano microsocietà di uomini-libro, dai nomi un po’ pedanti, “Gruppo
di lettura di…” o viceversa romantici, “Club dei gatti libidinosi”, “Club dei
lettori ispirati”. Non più clandestini, a Bologna il Festival dei lettori li ha
per la prima volta portati su un palcoscenico lo scorso settembre. A Fahrenheit, la trasmissione bibliomane di RadioTre,
Loredana Lipperini li sta convocando al microfono uno ad uno, ogni lunedì,
scoprendo «un mondo di lettori resistenti a molte sirene, che difendono la
lettura come puro piacere».
Tecnicamente, l’unico
impegno del “lettore sociale” è di leggere lo stesso libro che leggono i
consoci entro la data della discussione. Chi sceglie i titoli? Una somma di
nomination, o viceversa il consiglio di un “leader” più o meno riconosciuto.
A Cervia, la biblioteca
comunale ha formalizzato la figura del “maestro di gioco”, un po’ stimolatore,
un po’ arbitro, che svela la natura dei gruppi come strani ibridi fra seduta di
autocoscienza e role game. Talvolta, le discussioni
si concludono con un voto. Tra le Bookies bolognesi, il medagliere vede in cima
la Trilogia del- la città di K della Kristof e in fondo Sottomissione di Houllebecq, «buona intuizione, cattiva scrittura ».
Il mondo ufficiale del
libro guarda con curiosità, ma anche con perplessità. I gruppi non hanno un
progetto razionale di lettura, è il presunto difetto che qualche biblioteca
cerca di correggere con percorsi guidati, a volte rovinando tutto. Lo spontaneismo
è sacro. I gruppi sono un po’ presuntuosi, si sussurra nei convegni, pensano di
poter fare a meno dei mediatori professionali, i recensori.
Sono un «fai-da-te della
competenza », ha scritto Valerio Magrelli, poeta e saggista, che pure li
apprezza come «profughi dalla desertificazione dei diserbanti televisivi ».
Tutto vero. Ma sono proprio questi i loro punti di forza. «Non dobbiamo
diventare dei critici per amare un libro», concordano le Bookies bolognesi. È
l’orgoglio del lettore che rivendica la propria necessità, la propria
specularità creativa rispetto all’autore, quasi su un piano di parità, sulla
base del principio: un libro senza lettore non è compiuto. Se è la
“cooperazione interpretativa”, per dirla con Umberto Eco, che realizza il senso
di un testo, i gruppi di lettura ne sono la versione socialmente organizzata.
Questo invadente lector in fabula incuriosisce e sconcerta gli autori stessi.
«Ho condotto un gruppo di lettura su Dürrenmatt ma mi imbarazzerebbe
partecipare a una discussione su un mio libro », ammette Ugo Cornia, scrittore.
Piccole minoranze forti,
cultori orgogliosi della parola inquieta. Solo questo? Nella sala da tè
bolognese, altro giro di biscottini. «Alla fine», medita Cristina, «il libro fa
quel che ha sempre fatto, fa incontrare persone distanti, l’autore e il
lettore, e i lettori fra loro. Il vero scopo in fondo è quello. Vede molti
altre occasioni di incontri umani, in giro?».
Da
“Pickwick” a Gadda il fascino discreto del club
MICHELE MARI
La Macchina del Tempo di Wells si apre con una lunga discussione fra l’inventore e una serie di
personaggi tanto incuriositi quanto scettici: un editore, un giornalista, uno
psicologo, un medico, un politico e diversi altri. Autorevoli rappresentanti
dell’opinione pubblica vittoriana, essi compongono quel pubblico scelto che
decreta il successo o l’insuccesso di qualsiasi “novità”: da questo punto di
vista l’inventore wellsiano non è diverso da Bel-Ami o Dorian Gray, poiché come
loro deve uscire vincitore da un confronto ravvicinato con i propri giudici,
che egli dovrà sedurre prima ancora che convincere.
Il corrispettivo
istituzionale di questa situazione, in cui si aggiornano le antiche accademie,
è il “circolo”, declinato dai romanzieri nei modi più diversi: se per Wells è
una riunione settimanale in un salotto privato, per Dickens è fondamentalmente
una società itinerante (il circolo Picwick è ovunque tranne che nella propria
sede), mentre per Conan Doyle o Conrad è piuttosto un club di fumatori; per i
russi, quando non sia un covo di cospiratori, è spesso una società letteraria,
dove i sentimenti patriottici e le tentazioni occidentali possono confliggere
liberamente: diventerà poi, soprattutto in Italia e in Francia, il caffè
letterario, luogo di affratellamento esistenziale e di accanite discussioni. Ma
se al “caffè” associamo quasi automaticamente l’idea di avanguardia, il circolo
è prevalentemente una roccaforte dei valori tradizionali: «Le prospere
condizioni commerciali della città nostra», si legge nello statuto fondativo
del Circolo Filologico Milanese (1872), «esigono un’istituzione di tal natura.
Vogliamo avere un luogo dove ci riuniremo per studiare le lingue con la scorta
di valentimaestri, ove troveremo giornali e libri italiani ed esteri; vogliamo
che il Circolo diventi ritrovo della gente colta, garbata e studiosa. Letture e
conferenze: feste no».
Feste no: fra chi trasse giovamento dalla frequentazione di un luogo così serio ci fu
Carlo Emilio Gadda, al quale la riconoscenza non impedì tuttavia di
satireggiarlo, per la sua pompa “trombonesca”, insieme ad altre due illustri
istituzioni di quella Milano, il Conservatorio Giuseppe Verdi e il “noster
Politèknic”.
Con tutto ciò, nella
nostra immaginazione, il circolo rimane qualcosa di essenzialmente
anglosassone. Ircocervo di ristorante, caffè, sala da biliardo, sala di lettura
e
fumoir, il club è quella zona limbica in cui non si è né al lavoro né a casa, né
totalmente in pubblico né in privato; è per eccellenza il luogo dell’abitudine
(il proprio tavolo, la propria poltrona, il proprio sigaro, “il solito” da
bere) e di quelle pubbliche relazioni che vogliano essere anche un po’ private;
dunque, di necessità, anche dell’understatement. Ci sono scrittori che qui
hanno saggiato le proprie trovate narrative, al punto da tematizzare il circolo
stesso come cornice di un romanzo, di un racconto o di una serie di racconti:
Kipling, Conrad, James, Conan Doyle, Wilkie Collins ci fanno ascoltare
personaggi che chiacchierano di altri personaggi, a volte trasmettendoci un
senso di frivola dispersione, a volte (come per il Marlow conradiano) di
morbosa fissazione. E tuttavia il caso più esplicito di interiorizzazione
narrativa di un circolo va cercato in Francia, in quelle Serate di Médan (1880) che raccolgono le novelle di sei
scrittori ospitati e coordinati da Zola: e forse fu proprio per rinnegare un
così impegnativo battesimo consociativo che qualche anno dopo uno di loro,
Huysmans, scrisse il libro più solipsistico e asociale dell’Ottocento, À rebours.
Michele Mari è uno
scrittore, tra i suoi romanzi Di bestia in bestia e Roderick Duddle pubblicati da Einaudi