Diego Enrique Osorno è nato e cresciuto nella metropoli di
Monterrey, la città del nordovest del Messico che per la sua vicinanza
con il confine con gli Stati Uniti è diventata da tempo uno dei centri
nevralgici di ogni sorta di traffico tra i due paesi. Da queste parti,
una fabbrica della Ford, che sfrutta i bassi salari e la scarsa
sindacalizzazione della manodopera locale, costruisce veicoli come i
Fusion o i Lincoln MKZ con cui altri messicani, si calcola che siano
oltre 100mila ogni anno lungo una linea di confine con il Texas che qui
si estende per oltre 600 chilometri, tentano il viaggio alla conquista
della loro fetta del «sogno americano».
Allo stesso modo, da quando le autorità di Washington e Città del Messico hanno dichiarato formalmente, ma non senza evidenti contraddizioni e complicità, la loro guerra ai narcos, la regione si è trasformata in una sorta di tragico campo di battaglia dove le prime vittime sono spesso proprio i migranti.
Intorno al tema della frontiera, che è risultato centrale nella vittoriosa campagna elettorale condotta da Donald Trump, ruota perciò da tempo anche il lavoro di Osorno, tra i più noti giornalisti investigativi messicani che ha raccontato, tra libri, reportage e documentari, i conflitti sociali e lo sviluppo del narcotraffico e delle culture criminali nel suo paese. Protagonista del nuevo periodismo infrarrealisa, che ispirandosi all’opera di Roberto Bolaño cerca di far convivere denuncia e ispirazione narrativa, questo giovane autore, che è stato fra gli ospiti della kermesse milanese Tempo di libri, ha pubblicato nel nostro paese Z. La guerra dei narcos e Un cowboy attraversa la frontiera in silenzio, entrambi per la casa editrice La Nuova Frontiera.
In un intervento pubblicato all’indomani dell’elezione di Trump, lei si è chiesto cosa avrebbe significato per il Messico condividere il confine «con un paese crudele e inumano chiamato ’trumpland’». Oggi che risposta dà a quel quesito?
All’inizio Trump sembrava un proiettile vagante sparato dalla stupidità che non aveva alcuna possibilità di farci del male. Poi abbiamo capito che invece poteva andare a segno. Sappiamo che rappresenta una tragedia per la democrazia e un prodotto folkloristico del capitalismo magico, anche se dobbiamo ancora capire che tipo di ecatombe sociale e economica potrà produrre il suo piano di dar vita a un paese ancor più razzista e autoritario. Nel frattempo, l’arrivo di Trump ha ridestato un forte sentimento anti-americano in tutto il Messico. Anche se, in linea di massima, si sta assistendo a due tipi di reazioni rispetto al suo arrivo alla Casa Bianca. Da un lato, c’è quella di pressoché totale smarrimento che emerge dai nostri governanti, che in tutti questi anni hanno fatto ogni tipo di sforzo per ingraziarsi l’establishment statunitense e che ora non sanno bene cosa fare di fronte ai continui attacchi e insulti che ricevono da costoro. Dall’altro, in particolare nella zona del confine, ci sono molte comunità e persone che difendono l’integrazione sempre più forte che si è costruita nel corso degli ultimi anni tra il lato messicano e quello statunitense della frontiera. Un’integrazione che è tutt’altro che soltanto economica. Sono reduce da un viaggio attraverso gli stati messicani di Tamaulipas e Nuevo León, e quello statunitense del Texas, nel corso del quale mi sono accorto che gran parte delle conversazioni che ho intavolato con i miei interlocutori vertevano proprio sulle somiglianze umane e culturali tra queste zone, indipendentemente dalla linea della frontiera che le divide.
Oltre 35mila immigrati messicani «irregolari» sono stati espulsi dagli Usa dopo l’insediamento di Trump. In prospettiva, cosa può significare tutto ciò per una zona in cui, come descrive nel suo «Un cowboy attraversa la frontiera in silenzio», il confine più che un limite rappresenta il sogno, la speranza e una sorta di «terra del possibile»?
In realtà, purtroppo, queste «deportazioni» non costituiscono una novità. Anche durante l’amministrazione Obama le cifre erano più o meno le stesse. Piuttosto, penso che ciò a cui punta davvero Trump sia di inibire la migrazione, di dissuadere chi vuole partire, più che arrestare il fenomeno.
In ogni caso, chi abbia letto attentamente quel mio libro, può comprendere quanto questo territorio sia interconnesso e come per chi vive da queste parti le leggi che vengono votate a Washington come a Città del Messico ci mettano del tempo ad arrivare e spesso continuino a essere smentite dai fatti. Da questo punto di vista, spero proprio che il muro di cui parla tanto Trump, possa restare soltanto un’altra trovata stupida e assurda della vecchia élite americana, e che non possa riuscire a fermare il flusso di persone che traversa il confine e la vita quotidiana in comune che si svolge in quel paese terzo che esiste già di fatto tra il Messico e gli Stati Uniti.
Il «muro» di Trump, che in realtà è già stato parzialmente costruito prima di lui da Clinton e Bush, punta a fermare le persone. Perciò che effetto potrebbe avere sul narcotraffico che affligge la zona del confine?
Sono decenni che la droga arriva negli Stati Uniti non solo via terra, ma anche per mare o con gli aerei. Ciò detto, in Messico sanno tutti che una quota considerevole della «merce» che il cartello di Sinaloa fa entrare in territorio americano passa attraverso tunnel sotterranei. In questo senso, controlli seri e barriere potrebbero ostacolare il lavoro dei trafficanti. Tuttavia, anche così la droga continuerebbe a passare… Il problema è, infatti, un altro. Se Trump e le autorità americane volessero bloccare il narcotraffico, è contro i cartelli criminali responsabili del trasporto e della diffusione della droga negli Usa che dovrebbero concentrare i loro sforzi. Oggi come oggi in città come Los Angeles o New York è più facile trovare la cocaina che il jamón serrano, il prosciutto di montagna che arriva dalle nostre parti.
L’ultima a cadere è stata Miroslava Breach, inviata di La Jornada uccisa il 25 marzo a Chihuahua, mentre in questo decennio è stato ucciso almeno un giornalista al mese, per lo più senza che i responsabili fossero identificati. Nel volume collettivo La Ira de México (Debate, 2016), che riunisce alcuni dei maggiori cronisti locali, lei spiega che questa «impunità appare come un progetto elaborato dal regime politico e che sembra impenetrabile». Qual è lo spazio per il lavoro dei cronisti?
Purtroppo, Miroslava non rappresenta il caso più recente. Proprio alla vigilia di questa intervista, un altro collega, Max Rodríguez, è stato ucciso in Baja California Sur. Tutto ciò è terribile, soprattutto perché il governo non fa nulla per impedirlo. Anche se la cosa peggiore è forse la mancata reazione dell’opinione pubblica, legata al fatto che sull’intera categoria pesa un certo discredito, visto che alcuni media hanno più volte mentito alla popolazione o manipolato le informazioni in combutta con le autorità.Paradossalmente però, nonostante questa strage continua, in Messico la libertà di espressione non è ancora perduta. Al contrario, oggi ci sono più giornalisti che investigano e denunciano ciò che non va rispetto a dieci anni fa. La mafia non ha scoraggiato il giornalismo messicano. Non riescono a farci stare zitti.
Lei ha realizzato due documentari, «Tierra de impunidad», prodotto da Al Jazeera e La libertad del Diablo, presentato al Festival di Berlino. In entrambi è descritta la spirale di violenza legata al narcotraffico e ai metodi, spesso analoghi a quelli dei mafiosi, degli apparati repressivi dello stato: un modo per far prendere coscienza all’opinione pubblica internazionale del meccanismo di morte che imprigiona il Messico?
Nel corso di un solo decennio, tra il 2006 e il 2016, nel mio paese sono scomparse qualcosa come 30mila persone. Questa cifra è superiore a quelle relative al bilancio, già terrificante, dei regimi autoritari del Cile e dell’Argentina degli anni Settanta del secolo scorso. Perché una democrazia come il Messico produce più desaparecidos e barbarie delle dittature dell’America Latina? Per me questa è la domanda più urgente a cui dobbiamo rispondere tutti. Come giornalista, documentarista e scrittore, sto lavorando con ogni mezzo e senza fermarmi mai per cercare una risposta a tutto ciò.
[Guido Caldiron 26/0.4/2017]
Allo stesso modo, da quando le autorità di Washington e Città del Messico hanno dichiarato formalmente, ma non senza evidenti contraddizioni e complicità, la loro guerra ai narcos, la regione si è trasformata in una sorta di tragico campo di battaglia dove le prime vittime sono spesso proprio i migranti.
Intorno al tema della frontiera, che è risultato centrale nella vittoriosa campagna elettorale condotta da Donald Trump, ruota perciò da tempo anche il lavoro di Osorno, tra i più noti giornalisti investigativi messicani che ha raccontato, tra libri, reportage e documentari, i conflitti sociali e lo sviluppo del narcotraffico e delle culture criminali nel suo paese. Protagonista del nuevo periodismo infrarrealisa, che ispirandosi all’opera di Roberto Bolaño cerca di far convivere denuncia e ispirazione narrativa, questo giovane autore, che è stato fra gli ospiti della kermesse milanese Tempo di libri, ha pubblicato nel nostro paese Z. La guerra dei narcos e Un cowboy attraversa la frontiera in silenzio, entrambi per la casa editrice La Nuova Frontiera.
In un intervento pubblicato all’indomani dell’elezione di Trump, lei si è chiesto cosa avrebbe significato per il Messico condividere il confine «con un paese crudele e inumano chiamato ’trumpland’». Oggi che risposta dà a quel quesito?
All’inizio Trump sembrava un proiettile vagante sparato dalla stupidità che non aveva alcuna possibilità di farci del male. Poi abbiamo capito che invece poteva andare a segno. Sappiamo che rappresenta una tragedia per la democrazia e un prodotto folkloristico del capitalismo magico, anche se dobbiamo ancora capire che tipo di ecatombe sociale e economica potrà produrre il suo piano di dar vita a un paese ancor più razzista e autoritario. Nel frattempo, l’arrivo di Trump ha ridestato un forte sentimento anti-americano in tutto il Messico. Anche se, in linea di massima, si sta assistendo a due tipi di reazioni rispetto al suo arrivo alla Casa Bianca. Da un lato, c’è quella di pressoché totale smarrimento che emerge dai nostri governanti, che in tutti questi anni hanno fatto ogni tipo di sforzo per ingraziarsi l’establishment statunitense e che ora non sanno bene cosa fare di fronte ai continui attacchi e insulti che ricevono da costoro. Dall’altro, in particolare nella zona del confine, ci sono molte comunità e persone che difendono l’integrazione sempre più forte che si è costruita nel corso degli ultimi anni tra il lato messicano e quello statunitense della frontiera. Un’integrazione che è tutt’altro che soltanto economica. Sono reduce da un viaggio attraverso gli stati messicani di Tamaulipas e Nuevo León, e quello statunitense del Texas, nel corso del quale mi sono accorto che gran parte delle conversazioni che ho intavolato con i miei interlocutori vertevano proprio sulle somiglianze umane e culturali tra queste zone, indipendentemente dalla linea della frontiera che le divide.
Oltre 35mila immigrati messicani «irregolari» sono stati espulsi dagli Usa dopo l’insediamento di Trump. In prospettiva, cosa può significare tutto ciò per una zona in cui, come descrive nel suo «Un cowboy attraversa la frontiera in silenzio», il confine più che un limite rappresenta il sogno, la speranza e una sorta di «terra del possibile»?
In realtà, purtroppo, queste «deportazioni» non costituiscono una novità. Anche durante l’amministrazione Obama le cifre erano più o meno le stesse. Piuttosto, penso che ciò a cui punta davvero Trump sia di inibire la migrazione, di dissuadere chi vuole partire, più che arrestare il fenomeno.
In ogni caso, chi abbia letto attentamente quel mio libro, può comprendere quanto questo territorio sia interconnesso e come per chi vive da queste parti le leggi che vengono votate a Washington come a Città del Messico ci mettano del tempo ad arrivare e spesso continuino a essere smentite dai fatti. Da questo punto di vista, spero proprio che il muro di cui parla tanto Trump, possa restare soltanto un’altra trovata stupida e assurda della vecchia élite americana, e che non possa riuscire a fermare il flusso di persone che traversa il confine e la vita quotidiana in comune che si svolge in quel paese terzo che esiste già di fatto tra il Messico e gli Stati Uniti.
Il «muro» di Trump, che in realtà è già stato parzialmente costruito prima di lui da Clinton e Bush, punta a fermare le persone. Perciò che effetto potrebbe avere sul narcotraffico che affligge la zona del confine?
Sono decenni che la droga arriva negli Stati Uniti non solo via terra, ma anche per mare o con gli aerei. Ciò detto, in Messico sanno tutti che una quota considerevole della «merce» che il cartello di Sinaloa fa entrare in territorio americano passa attraverso tunnel sotterranei. In questo senso, controlli seri e barriere potrebbero ostacolare il lavoro dei trafficanti. Tuttavia, anche così la droga continuerebbe a passare… Il problema è, infatti, un altro. Se Trump e le autorità americane volessero bloccare il narcotraffico, è contro i cartelli criminali responsabili del trasporto e della diffusione della droga negli Usa che dovrebbero concentrare i loro sforzi. Oggi come oggi in città come Los Angeles o New York è più facile trovare la cocaina che il jamón serrano, il prosciutto di montagna che arriva dalle nostre parti.
L’ultima a cadere è stata Miroslava Breach, inviata di La Jornada uccisa il 25 marzo a Chihuahua, mentre in questo decennio è stato ucciso almeno un giornalista al mese, per lo più senza che i responsabili fossero identificati. Nel volume collettivo La Ira de México (Debate, 2016), che riunisce alcuni dei maggiori cronisti locali, lei spiega che questa «impunità appare come un progetto elaborato dal regime politico e che sembra impenetrabile». Qual è lo spazio per il lavoro dei cronisti?
Purtroppo, Miroslava non rappresenta il caso più recente. Proprio alla vigilia di questa intervista, un altro collega, Max Rodríguez, è stato ucciso in Baja California Sur. Tutto ciò è terribile, soprattutto perché il governo non fa nulla per impedirlo. Anche se la cosa peggiore è forse la mancata reazione dell’opinione pubblica, legata al fatto che sull’intera categoria pesa un certo discredito, visto che alcuni media hanno più volte mentito alla popolazione o manipolato le informazioni in combutta con le autorità.Paradossalmente però, nonostante questa strage continua, in Messico la libertà di espressione non è ancora perduta. Al contrario, oggi ci sono più giornalisti che investigano e denunciano ciò che non va rispetto a dieci anni fa. La mafia non ha scoraggiato il giornalismo messicano. Non riescono a farci stare zitti.
Lei ha realizzato due documentari, «Tierra de impunidad», prodotto da Al Jazeera e La libertad del Diablo, presentato al Festival di Berlino. In entrambi è descritta la spirale di violenza legata al narcotraffico e ai metodi, spesso analoghi a quelli dei mafiosi, degli apparati repressivi dello stato: un modo per far prendere coscienza all’opinione pubblica internazionale del meccanismo di morte che imprigiona il Messico?
Nel corso di un solo decennio, tra il 2006 e il 2016, nel mio paese sono scomparse qualcosa come 30mila persone. Questa cifra è superiore a quelle relative al bilancio, già terrificante, dei regimi autoritari del Cile e dell’Argentina degli anni Settanta del secolo scorso. Perché una democrazia come il Messico produce più desaparecidos e barbarie delle dittature dell’America Latina? Per me questa è la domanda più urgente a cui dobbiamo rispondere tutti. Come giornalista, documentarista e scrittore, sto lavorando con ogni mezzo e senza fermarmi mai per cercare una risposta a tutto ciò.
[Guido Caldiron 26/0.4/2017]
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