La domanda posta dai romanzi e dai racconti di Murakami Haruki coincide
con la soluzione narrativa più ricorrente: la linea di separazione tra
ciò che è reale e ciò che non lo è. Il limite sottile, mai fisso,
piuttosto sinuoso e sfuggente, tra due dimensioni all’apparenza
inconciliabili. La protagonista di
1Q84 (traduzione di Giorgio
Amitrano, Einaudi, 2011) avvertiva di trovarsi in un mondo «deviato su
un altro binario», e scopriva che la seconda luna comparsa in cielo, un
po’ più piccola e verdastra, era il segno non di una realtà parallela,
ma di «una ramificazione» dell’anno 1984. E la vicenda, lì, trovava il
suo svolgimento in questa straordinaria realtà slittante, duplice e vera
in entrambi i casi, a volte speculare, sempre enigmatica.
L’interrogativo sui margini della realtà, inoltre, ha senz’altro il
merito di moltiplicare le possibili interpretazioni del testo, di
mantenerlo aperto. A circa otto anni dall’imponente trittico
1Q84, Murakami torna a proporre un romanzo esteso che ha tra i motivi dominanti il rapporto tra reale e irreale,
L’assassinio del Commendatore Libro primo. Idee che affiorano
(traduzione di Antonietta Pastore, Einaudi «Supercoralli», pp. 418, €
20,00). Qui, alla scoperta di fenomeni singolari e inquietanti si arriva
per gradi, in uno svolgimento che per buon tratto, salvo un sinistro
Prologo presagio di evanescenze, è saldamente ancorato a ciò che è
concreto e ordinario: un matrimonio che d’improvviso finisce, la
difficoltà di elaborare il dolore, il bisogno di trovare una nuova
abitazione, la riflessione sull’arte, l’attenzione ai dettagli visivi e
alle tecniche pittoriche, il piacere erotico, il paesaggio boschivo con i
suoi abitanti e le sue imprevedibili variazioni climatiche. Eppure
anche in questo romanzo, appena oltre la sua metà, al manifestarsi di
fenomeni inspiegabili, la domanda arriva diretta: «Ma non possiamo
affermare che soltanto le cose visibili siano reali. Non crede?». Ed è
presto seguita, in risposta, da una riflessione che torna al punto:
«Spesso non capiamo bene dove passa il confine tra ciò che è reale e ciò
che non lo è. Pensiamo che la linea di demarcazione tra ciò che esiste e
ciò che non esiste sia mobile, come una frontiera che si sposta di sua
volontà. A questi spostamenti dobbiamo prestare la massima attenzione.
Altrimenti non capiamo più da quale parte ci troviamo». Forse, di questa
linea, è figura emblematica già la posizione della casa teatro della
vicenda: all’imbocco di una stretta valle, su un crinale che spezzava le
condizioni meteorologiche, perché «succedeva spesso che nel giardino
davanti splendesse il sole, mentre sul retro pioveva a dirotto».
Nell’
Assassinio del Commendatore la riflessione e
l’introspezione giocano un ruolo determinante: il romanzo, o almeno il
libro che inaugura l’opera, è scritto tutto in prima persona
(diversamente, ad esempio da Kafka sulla spiaggia, ove si alternavano
capitoli in prima e in terza); il protagonista ricorda, a molti anni di
distanza, i nove mesi in cui era caduto «in uno stato di confusione
inspiegabile», e mentre racconta lascia intendere, che i fatti sono
destinati a complicarsi, a farsi incerti e torbidi, che alcuni incontri,
pur interessanti, non saranno fausti. Di lui non conosciamo il nome, ma
solo la sua età d’allora, trentasei anni, il suo mestiere di
ritrattista e la sua condizione di marito che la moglie ha deciso di
lasciare. La crisi matrimoniale, di cui non aveva percepito avvisaglie,
coincide con il proposito di non fare più ritratti su commissione e di
tornare a dipingere solo ciò che desidera. Un ex compagno di studi in
Accademia gli presta la casa del padre, Amada Tomohiko, anziano pittore,
famoso e quotatissimo, ormai ridotto dalla demenza a vivere in una casa
di riposo. Per una casualità scopre un quadro che Amada aveva lasciato
nascosto,
L’assassinio del Commendatore, una scena drammatica
in cui il sangue spicca copioso sulla tonaca bianca dell’ucciso, un
dipinto magnifico eppure a lungo impenetrabile agli sforzi
interpretativi del protagonista che lo contempla per ore, tra turbamento
e fascinazione, colpito, in primo luogo, dalla violenza del tutto
estranea alla mitezza propria di tutti gli altri dipinti noti di Amada.
Anche la parabola artistica dell’anziano pittore, peraltro, ha plaghe
d’ombra su cui il protagonista s’interroga: un promettente inizio come
pittore in stile occidentale, un soggiorno di perfezionamento in Austria
in gioventù, negli anni dell’
Anschluss, un rientro frettoloso
in Giappone all’inizio del 1939, e l’abbandono della pittura occidentale
moderna per una conversione irrevocabile allo stile della corrente
nihonga, che durante la Restaurazione Meiji aveva recuperato la pittura
tradizionale giapponese, le fogge di secoli precedenti, l’importanza dei
vuoti intorno alle figure e la compostezza formale.
Se questo quadro è l’innesco di eventi oscuri – una vecchia campanella
che tintinna dal fondo di una stanza sepolta dietro un tempietto nel
bosco, l’affiorare di un’«idea» che prende le sembianze del Commendatore
in scala ridotta –, diventa però anche, per noi, un invito a riflettere
sulle responsabilità storiche degli individui e delle nazioni. Sulla
compromissione di ciascuno, e sulla funzione – e di nuovo responsabilità
– dell’arte, tanto quel quadro enigmatico si rivela, via via, dolorosa
trasfigurazione di un tentativo fallito di contrastare il nazismo.
In questo romanzo i fatti non sono numerosi, almeno nei primi capitoli,
che muovono con lentezza maggiore rispetto ad altre narrazioni, pur
ampie, di Murakami; l’ingresso del fantastico è progressivo e come
sempre non solo perfettamente incluso nella trama ma sostanziale al suo
vero intreccio; lo spessore psicologico del protagonista, che sa
cogliere l’anima di chi ritrae, ben messo in luce e sfaccettato grazie
ai frequenti passaggi dal tempo di cui narra a eventi che ne hanno
segnato la giovinezza.
I presagi si manifestano in forme diverse: un gufo che forse è «un
portafortuna sotto mentite spoglie» e invece è tutt’altro che uno
scacciaguai; un facoltoso vicino dai capelli perfettamente candidi,
Menshiki, il cui nome si scrive con gli ideogrammi di «sfuggire» e
«colore», «come in un dipinto a china», proprietario della villa di
fronte, al di là della valle, una casa bianca ed enorme che «vista da
lontano sembrava una splendente nave da crociera che navigasse la notte
su un mare tranquillo»; qualche frammento del passato che rivela
tardivamente la sua potenza.
Nell’Assassinio del Commendatore i legami tra pittura, letteratura e
musica classica, in particolare opera lirica, sono particolarmente
stringenti: è da queste connessioni che il protagonista, solo o con
l’aiuto di Menshiki, trae indizi. È dunque un romanzo che ha una
coesione fortissima, in cui cercano senso, in risonanza tra loro,
elementi diversissimi: dal racconto
Un legame che dura due vite di Ueda Akinari al mozartiano
Convitato di pietra, alle dissolvenze graduali già appartenute allo Stregatto in
Alice,
al quartetto, sospettiamo, composto da Schubert per Rosamunde. Ma
l’inchiesta, di questo davvero si tratta, riguarda sia la storia sia il
passato personale. Tra i passi più convincenti, infatti, sono quelli in
cui si esplorano o aprono cavità sotterranee: il ricordo della sorellina
appena adolescente che in fondo a un cunicolo trova tenebre così spesse
«che hai l’impressione di poterle toccare con la mano» e lo scavo che
porta alla luce la stanza da cui tintinna la campanella, uno strappo,
pietra dopo pietra, segreto dopo segreto, che il protagonista sente
avvenire dentro di sé, a scoprire quanto aveva «a lungo sepolto lontano
da sguardi indiscreti».
[Cecilia Bello Minciacchi 11/11/2018]