L’invincibile estate di Liliana, Cristina Rivera Garza
Nel 2003 a Siviglia si riunirono, insieme a Roberto Bolaño, undici giovani promesse della letteratura latinoamericana, per parlare di un futuro che si annunciava promettente per tutti loro. Nella foto di gruppo che li ritrae c’è una sola donna, a testimonianza del fatto che all’inizio del nuovo millennio le lettere del continente non si erano ancora liberate di quella preponderanza maschile, che la portoricana Rosario Ferré aveva descritto in modo magistrale nel suo saggio El coloquio de las perras (1990).
A distanza di vent’anni da quell’incontro, il percorso intellettuale più coerente e solido appartiene, di fatto, all’unica donna presente, la messicana Cristina Rivera Garza: nel 2003 aveva al suo attivo un’interessante raccolta di racconti e un primo folgorante romanzo d’esordio, Nessuno mi vedrà piangere (Voland, 2008); ma da allora si sono aggiunti altri sette romanzi, tra i quali risaltano gli ultimi due – Autobiografía del algodón, 2020 e L’invincibile estate di Liliana (Sur, 2023) – dedicati a una indagine sul passato della propria famiglia.
Di anno in anno e di titolo in titolo, Cristina Rivera Garza ha saputo rinnovare più volte la propria scrittura, con un notevole lavoro sulla lingua, confermato anche dai suoi versi, appena riuniti in un volume unico.
Nelle sue pagine ha convocato personaggi letterari e non, fra i quali la sorella Liliana, vittima di un omicidio, nel 1990, quando aveva solo vent’anni, e la scrittrice argentina Alejandra Pizarnik. Dopo avere studiato in Messico e negli Stati Uniti, ha insegnato letteratura e scrittura creativa per molti anni in diverse università statunitensi, costruendo un’attività critica tra le più lucide del nuovo secolo, attenta sia alle relazioni tra la letteratura e la società messicana contemporanea che all’analisi di importanti scrittori del ventesimo secolo, fra i quali Juan Rulfo.
Al Festivaletteratura di Mantova parlerà oggi del suo ultimo romanzo, L’invincibile estate di Liliana (Sur, 2023) e del rapporto tra letteratura e memoria.
Nella sua traiettoria letteraria è sempre stato presente un rapporto speciale con gli archivi: quali contributi portano questi depositi di memorie al suo lavoro di scrittrice e di critica letteraria?
Il mio rapporto con gli archivi è un regalo che mi viene dalla mia formazione come storica. Ho fatto ricerca negli archivi istituzionali, attraverso i quali il potere si afferma e conserva memoria di sé, e ho imparato come sia possibile trovarvi anche pratiche linguistiche che hanno criticato quello stesso potere. Quando ho studiato gli archivi del manicomio della Castañeda, il primo ospedale psichiatrico messicano, accanto alla prospettiva dei medici che tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento si avviavano a diventare psichiatri, trovai le voci di coloro che non erano nemmeno considerati pazienti bensì «internati». Scoprii così una visione alternativa della medicina, del corpo, e in generale di Città del Messico. Col passare del tempo, mi sono dedicata a quelli che ho chiamato «archivi degli affetti», situati in luoghi estranei agli ambiti ufficiali, il cui sistema organizzativo rispetta le esigenze di famiglie o comunità specifiche.
In generale l’archivio rimanda a una idea di istituzione fredda, retta da regole rigide; ma da essi emergono nei suoi libri storie di dolore, che sembra aspettassero solo di essere riportate in vita. Come ha calibrato la sua scrittura in questi casi?
È opinione diffusa che gli archivi esprimano la prospettiva dei vincitori; ma chiunque li abbia consultati sa che giacciono nei loro molteplici strati voci alternative, esperienze cancellate, messe a tacere, nascoste, che sono ancora lì, perché è l’archivio stesso ad averne bisogno. E’ un circolo perverso: perché il potere si enunci come tale ha bisogno di includere coloro che ha sconfitto. Attraverso queste esperienze di dolore, di sofferenza del corpo, sono riuscita a accedere a un linguaggio malleabile, potente e condiviso da tante discipline: dalla religione al diritto, alla medicina. La sfida risiede nella capacità di riattivare queste voci tacitate e portarle nel presente, non come una forma di nostalgia per ciò che avrebbe potuto essere e non è stato, ma come segnali di qualcosa che è ancora latente, e può sempre saltare fuori. La studiosa statunitense Saidya Hartman, mentre cercava di indagare sulla propria genealogia tra gli schiavi portati a forza dall’Africa, in assenza di un archivio e di fronte alla perdita di tante esperienze coniò un termine, «fabulazione critica», che indica la possibilità di colmare le lacune tra i documenti, di superare la porosità dell’archivio per attivare relazioni dinamiche con il passato: tutto questo è per me molto utile, e ha a che fare anche con la tensione tra ciò che è finzione e ciò che non lo è. Mi piace pensare a questo fenomeno come a un «genere ospite», che nei miei libri più recenti accoglie altri campi letterari per realizzare quella affabulazione critica di cui parla Hartman. Non solo questa pratica serve a riempire i vuoti degli archivi storici, ma permette anche di far incrociare i diversi generi per rendere possibile la riattivazione di una energia politica nel presente.
In questa ricerca ha un ruolo fondamentale il suo progetto di scrittura corale, che incrocia le molte voci venute dal passato: come riesce a dialogare con tutte le voci evocate nei suoi libri, e negli ultimi anni con quelle dei suoi antenati e di sua sorella, vittima di un omicidio?
Un’idea convenzionale di letteratura, ripetuta in molte scuole di scrittura, vuole che il testo non mostri le sue cuciture, bensì sembri emergere da se stesso, già completo. È un’idea che non condivido: la scrittura è fin dall’inizio una pratica plurale. Usiamo una lingua che non ci appartiene, che ci mette in relazione con altre comunità di parlanti: i nostri testi dovrebbero allora mostrare i loro punti di giuntura, le fonti plurali a cui attingono, in modo che chi scrive arrivi a un processo di disappropriazione, proprio il contrario di quanto avviene quando facciamo nostre quelle voci e le sfruttiamo, usando il concetto di autore. In Nessuno mi vedrà piangere ho inserito le cartelle delle malate che avevo consultato, e nel libro dedicato a mia sorella Liliana ho incluso l’archivio degli affetti che lei stessa ha costruito, in modo che ne venisse fuori un testo non su di lei ma insieme a lei. Non un libro sulla sua morte, ma soprattutto sulla sua vita. Ho incorporato nel testo le lettere di Liliana, le interviste ai suoi amici, le voci dei nostri genitori, facendone un libro corale che introietta linguaggi letterari e non.
La materialità del dolore si fa molto evidente nei suoi ultimi libri, legati strettamente alla storia del Messico: c’è un nesso evidente fra ciò che succede ai migranti in «Autobiografía del algodón», o ciò che accade a Liliana, e la società in cui vivono. Sono due libri che propongono un’idea di memoria radicata in qualcosa di molto concreto. Cosa significa per lei, oggi, ricordare quel passato?
Nella realtà storica si attivano forze, progetti, visioni che entrano in conflitto con il potere, e che continuano a esistere in modo sotterraneo, come il fossile di cui parla Walter Benjamin. Il processo che porta alla costruzione della memoria è profondamente personale, ma a me non interessano le testimonianze individuali quando si pretendono già complete. Mi attrae di più la serie di connessioni che si stabilisce quando qualcuno «dà conto di sé» implicando un «tu», come fa Judith Butler in Critica della violenza etica. In realtà mi appassiona ancora di più «dare conto del noi», in quella relazione, sempre dinamica e conflittuale, tra la nostra intimità personale e le comunità all’interno delle quali viviamo. In questo senso condivido l’idea di memoria come pratica collettiva: non tanto uno sguardo verso il passato, quanto il processo comunitario che porta a evocare una presenza per riviverla nel presente. Lo scrittore messicano José Revueltas, in un suo breve saggio scrive della domanda a cui tutti gli esseri umani dovrebbero rispondere, dal momento che occupano uno spazio sulla superficie della terra: perché siamo qui, cosa c’era prima di noi e che fine ha fatto quello che non c’è più. Qui la domanda diventa politica: ciò che non c’è più è stato raso al suolo, è stato espulso, ha deciso di andarsene? Revueltas non parla solo degli esseri umani, ma anche delle piante, del territorio, e dice che tutto lascia un’impronta, e che alla fin fine noi mettiamo sempre i piedi su quelle impronte, che sono l’equivalente della memoria corporea, attiva, dinamica, capace di rivivificare le altre presenze intorno a noi, rendendole visibili e coinvolgenti.
Il suo ultimo libro di critica si intitola non a caso «Scritture geologiche»: cosa intende con questa espressione?
La geologia ci offre l’idea di un tempo profondo, di un passato e un presente che si stratificano nella terra, e possono essere paragonati a livelli diversi dell’esperienza, che vanno però de-sedimentati, fatti riemergere da stratificazioni anche molto profonde. In questo libro, il concetto di disappropriazione, che era legato alla scrittura, ai libri, ai modi in cui condividiamo l’esperienza, si è radicalizzato, per includere il territorio e lo spazio che abitiamo. Vorrei pensare alla terra come al nostro grande archivio comune, in cui il processo di sedimentazione provoca fra l’altro domande relative all’accumulazione dei beni della terra e alla giustizia nella loro suddivisione: in questo senso mi ritengo una materialista classica.
Il viaggio in Europa appartiene a una tradizione latinoamericana di lunga data. Lei da un anno circa vive a Barcellona: cosa significa per una scrittrice messicana del XXI secolo viaggiare e vivere in Europa in questo momento storico?
Avevo sempre preferito il viaggio verticale, dal Messico agli Stati Uniti, dove ho trascorso più della metà della mia vita, scrivendo in spagnolo e in inglese. Ho resistito a lungo al viaggio orizzontale verso l’Europa, perché in passato era la norma: la migrazione letteraria si dirigeva fondamentalmente verso Barcellona e Madrid; in anni più recenti è invece arrivato negli Stati Uniti un gran numero di scrittori e scrittrici giovani che si sono affermati e integrati in diversi centri accademici. Nel mio caso, la scelta di emigrare è dovuta alla asfissia e all’ostilità abbastanza evidente che si avverte nella vita quotidiana degli Stati Uniti, al razzismo esacerbato, al nazionalismo brutale. A Barcellona ho scoperto una comunità latinoamericana molto numerosa, attiva, accogliente, con progetti generosi e visionari, e la stessa cosa mi è successa a Berlino. Trovare queste molteplici esperienze in tutte le varietà linguistiche dello spagnolo, è stato molto incoraggiante. Mi sembra dia la possibilità di creare comunità «sporadiche», che si spostano da un luogo all’altro, collegandosi in modo strategico con il contesto che le accoglie.
Qualche settimana fa lei è entrata nel Colegio Nacional de México, prima scrittrice a venire ammessa, cosa abbastanza sorprendente dal momento che in Messico ci sono state tante autrici eccellenti e alle origini della sua letteratura c’è una grandissima poetessa, Sor Juana Inés de la Cruz, cui è dedicato un premio letterario che lei ha vinto due volte. A distanza di quattro secoli, è una autrice che rivela ancora, secondo lei, energie nascoste e in grado di dialogare con giovani lettori attuali?
Nella storia della letteratura ci sono autori e autrici che invecchiano male perché i temi che affrontano e il loro linguaggio ci diventano estranei; ma Sor Juana non è certo fra questi. Chiunque si interessi alle questioni di genere, troverà in lei una buona interlocutrice: il suo romance sul rapporto tra donne e uomini può essere letto oggi con la stessa passione e lo stesso interesse del tempo in cui venne scritto. Ma Sor Juana, secondo la quale Aristotele avrebbe avuto pensieri molto diversi se fosse entrato in una cucina, puntava non solo alle verità astratte, che comunque aveva studiato in profondità, ma anche all’espressione dei saperi quotidiani, a ciò che Perec chiamava l’infra-ordinario. È un’autrice dotata di un pensiero critico che continua a comunicare in modo del tutto pertinente al nostro presente.
[Stefano Tedeschi 10/09/2023]
Sofonisba Anguissola
Questo bellissimo ritratto di un giovane di ventisette anni, elegante
nonché sicuro di sé e di grande naturalezza, con una espressione non
particolarmente accattivante, come di chi è in qualche modo aduso
all’esercizio del potere, è stato dipinto da Sofonisba Anguissola nel
1558 quando aveva ventisei anni, mostrando già una alta qualità
stilistica con padronanza assoluta della stesura pittorica e con effetti
cromatici notevoli. La pittrice cremonese, di nobile famiglia, di
bell’aspetto e tratti eleganti, prima di sette figli tra cui altre tre
pittrici, fu mandata tredicenne per l’apprendistato presso Bernardino
Campi, pittore lombardo (non collegato alla celebre famiglia dei Campi).
Considerata fanciulla prodigio, destinata a grandi successi, già a 18
anni, nel 1550, era descritta come «inter egregios pictores nostri
temporis», e si rivelerà eccellente interprete del tardo Rinascimento,
quello ancora «felice» e sfrontato, prima dei turbamenti post Concilio
di Trento.
Trattandosi di una pittrice che raggiunge subito fama europea, al
contrario di Lavinia Fontana e della celeberrima Artemisia Gentileschi,
bisogna fermarsi un attimo a riflettere sulle particolarità di tutte
queste donne – talentuosissime. Si tratta di donne che avevano scelto la
carriera dell’arte non per intrattenimento, o come parte
dell’educazione delle fanciulle di mondo, secondo l’uso dell’epoca nella
maggioranza dei casi, bensì come professione: cosa che era considerata
a dir poco trasgressiva.
Sarebbero poi tutte entrate nella mitologia dell’arte.
Mi sono documentato subito dopo aver acquistato il quadro e vorrei
quindi condividere con il lettore informazioni che mi sembrano
rimarchevoli. Sofonisba fu notata da Michelangelo Buonarroti, che dopo
aver visto un suo disegno con un fanciullo morso da un gambero
(probabilmente il ritratto del fratello), disegno che precede il
notissimo Ragazzo morso da un ramarro di Caravaggio, ebbe parole di apprezzamento.
Sofonisba fu anche citata e trattata con rispetto dal Vasari nelle sue Vite.
Seppur giovanissima, entrò in contatto con i Gonzaga, i Farnese, gli
Este, casate per le quali eseguì numerosi ritratti apprezzati da subito,
sino ad arrivare come ospite in Spagna alla corte di Filippo II
d’Asburgo. Là veniva remunerata per i suoi ritratti con pietre preziose,
diamanti e stoffe pregiate senza essere mai assunta come pittrice di
corte. Era stata invitata «graziosamente», oltre che per il suo talento
di artista, come dama di compagnia della regina.
È stata sposata due volte; il primo marito, Fabrizio Moncada, fu ucciso
dopo pochi anni in un combattimento su una nave attaccata dai pirati. Il
secondo, un nobile genovese (con cui soggiornò dal 1579 e per
trentacinque anni a Genova), aveva affari in Sicilia e la invitò poi a
trasferirsi a Palermo, dove morì a 92 anni, per l’epoca un record da
Guinnes. Il ventiquattrenne Van Dyck, pure indaffarato dai suoi impegni
di pittore, affrontò i perigli di un viaggio sin là, per renderle
omaggio e farle un ritratto che spiega come Sofonisba fosse ormai
considerata una celebrità di reputazione internazionale (essendo anche
lui, ormai, una celebrity).
Sono così felice di possedere il quadro che ritrae il giovane gentiluomo
(peccato che gli storici non abbiano ancora individuato il nome) da
permettermi qualche digressione che spero mi verrà perdonata. Noi
collezionisti, infatti, al contrario dei bambini che avendola magari
rubata non vogliono condividere la loro marmellata con alcuno, non
aspettiamo altro che raccontare le nostre storie, che sono poi la nostra
marmellata.
Non escludo nemmeno di cedere un giorno a un museo parte di questa mia
marmellata, e sapete perché? Un po’ per patriottismo, come succede a chi
ha passato trent’anni della sua vita all’estero, e poi perché lo Stato,
attraverso le sue istituzioni, fa un grosso sforzo di conservazione.
Tra l’altro mi ha indirettamente favorito, spesso «notificando»
parecchie opere che io desideravo avere, ma il cui prezzo eccessivo (per
me) si è poi dimezzato proprio in seguito a questo istituto. Esprimo
paradossalmente gratitudine: io i quadri antichi non li devo mica
vendere!
Li compro per diletto e per consolazione ma le risorse sono sempre
limitate. Mi rendo conto di andare così dicendo in zona di eresia,
perché il circuito dell’arte tutto mal tollera, per non dire detesta,
questa specie di tagliola della notifica che rende molto difficile il
rapporto con il resto del mondo: conosco numerose vertenze che vedono
brillanti antiquari combattere personalmente contro i mulini a vento
dello Stato. E forse mi costerà dei fischi.
Del resto, i pochi paesi in Europa che condividono con l’Italia la
stessa consuetudine della «notifica», la esercitano tuttavia parcamente e
raramente, fatta eccezione per opere di importanza storica eccezionale.
Da noi la si attua con esagerazione e talvolta in modo obliquo.
Ciò detto, e tornando a questa «marmellata» che è per me il quadro di
Sofonisba, vorrei aggiungere una coincidenza divertente. Quando la
pittrice ancora giovanissima si recò al Castello di Soncino, vicino
Cremona, per ritrarre il terzo marchese (all’epoca marchesino) di
Soncino, non poteva sapere o quanto meno immaginare che proprio lì, in
un palazzo di Soncino, sarebbe nato, circa quattrocento anni dopo, un
suo collega: il più trasgressivo artista italiano del nostro tempo, e
cioè Piero Manzoni. Anche lui di nobile famiglia, ha fatto dei ritratti
eseguendo semplicemente dei piedestalli in legno su cui chiunque salisse
diventava immediatamente un’opera d’arte.
Tra l’altro la sorella di Piero, la contessa Manzoni, mi ha detto molti
anni fa che la loro famiglia aveva radici molto più antiche di quella
del genio letterario, anche lui lombardo, conte Alessandro Manzoni.
Scherzava naturalmente, ma quella era la verità.
Il suo amatissimo e sfortunato fratello Piero aveva dovuto subire, prima
di morire a 30 anni nel 1963, sberleffi e disapprovazione a causa della
sua intelligenza provocatoria e ribelle. Fu poi celebre nel mondo delle
trasgressioni artistiche per le scatolette con la «merda d’artista» e
per i suoi quadri interamente bianchi.
[Fian Enzo Sperone 20/08/2023]
Il dolore di Dora Maar
Questo quadro di Picasso, Buste de femme, della serie dei ritratti dedicati a Dora Maar, venne dipinto pochi anni dopo il «grido di dolore» di Guernica;
presenta i caratteri della fissità e dello stupore senza tempo di un
viso con gli occhi sbarrati di chi ha visto cose che non doveva o
sperava di non dover vedere mai.
Ufficiali nazisti della Gestapo, a Parigi sino all’agosto 1944, non
erano inclini a tormentare l’artista più di tanto (Picasso era già una
figura mitica) e spesso visitavano il suo studio: all’orrore dello
sguardo si può unire l’orrore di pensare che questo quadro l’avessero
visto loro. In quegli occhi, c’è il dramma di un testimone obbligato a
continuare a vedere.
Non è un quadro cubista classico, e soprattutto il linguaggio non
sovrasta il sentimento; semmai pesca nell’universo sumero oppure egizio.
Queste contaminazioni in realtà lo umanizzano e lo collocano di fatto
nell’arte classica, quella senza tempo.
È la conclusione di un ciclo di ritratti iniziato nel 1937 e dedicato
alla fotografa Dora Maar, per la quale Picasso aveva avuto una passione
travolgente: in realtà nello stesso periodo un’altra donna cominciava a
travolgere il suo cuore, assai incline ai patimenti d’amore, che
infliggeva a getto continuo anche ad anime innocenti ignare di ciò che
questo significava.
Buste de femme l’ho comprato a Zurigo quasi una cinquantina di
anni fa (scambiandolo con l’opera di un artista degli anni sessanta),
quando apparteneva a un giovane mercante/collezionista svizzero,
scomparso poi a 43 anni (numero specchio della data del quadro), che
all’epoca era considerato un enfant prodige nell’ambiente internazionale dell’arte: Thomas Ammann. Era l’ideatore del catalogue raisonné
di Andy Warhol, di cui fece in tempo a pubblicare solo i primi tre
volumi. Da lui avevo visto, e toccato, un quadro di Gauguin, e molti
altri Picasso che avrei potuto esporre nella mia galleria di New York.
Ma era questa un’ipotesi di terzo grado perché mi richiedeva di comprare
almeno due quadri che, ancorché sottovalutati all’epoca, erano una
somma importante.
Ammann era anche un dandy, vestito sempre in modo irreprensibile, che ha
passato più di un terzo della sua giovane vita sul «Concorde», molto
più, quindi, che nella sua galleria privata a Zollikon. Quando arrivavo
in visita da lui , spesso trafelato come un pendolare Italia-New York,
mi accoglieva sempre con una bottiglia di Chateau Petrus d’annata,
essendo lui completamente astemio.
Nella mia prima visita nel 1963 a Parigi, dove mi recavo spesso per
cercare di convincere la celebre mercante Ileana Sonnabend, prima moglie
di Leo Castelli, a prestarmi opere di Lichtenstein, Warhol, Jasper
Johns e Rauschenberg, da esporre nella mia galleria torinese, capitavo
dunque in Quai des Grands Augustins, non sapendo ancora che quel luogo
aveva un legame con il quadro di Picasso che avrei posseduto in seguito.
Una parte della mia giovinezza me la sono giocata così, facendo
anticamera presso mercanti affermati, qualche volta scostanti, ma spesso
fonte di ispirazione e di incontri casuali decisivi.
Tutta questa tiritera per arrivare a dire che la Sonnabend aveva la
galleria non lontano da quella Rue des Grands Augustins dove Picasso
aveva dipinto Guernica, e forse il mio quadro.
Un’opera del genere, alla fine degli anni settanta costava ancora poco,
ma tant’è, i prezzi dell’arte sono sempre simbolici, non necessariamente
conseguenti al valore intrinseco dell’opera: ma quale sarà mai? Senza
rompersi il capo su questioni di lana caprina, salta tuttavia agli occhi
che nella seconda metà degli anni settanta Picasso costava ancora meno
di un astro nascente dell’avanguardia contemporanea.
La follia dei prezzi spropositati dell’arte del nostro tempo è una
conseguenza della crescente disinibizione, sfacciataggine ed
esibizionismo, corollari inscindibili della fretta della modernità di
emergere e giocare le proprie carte: a me sembra a oggi piuttosto un
disvalore, in tutti i sensi.
Una corretta dose di inibizione in realtà affratella i popoli, evitando atteggiamenti troppo aggressivi.
Anche nell’antico, l’«avidità» di Tiziano, che scriveva sempre a Carlo V
e Filippo II di Spagna per battere cassa, come un povero vecchio
bisognoso, strideva con la prudenza di Tintoretto, che viveva
modestamente e spesso dipingeva senza compenso. Quindi anche nell’antico
le cose non erano poi così diverse.
E questo sia di conforto per gente che come me continua a tormentarsi
sul tema: stiamo ancora credendo di «vivere nel migliore dei mondi
possibili»? (Candide, 1759).
[Gian Enzo Sperone 20/08/2023]
Uminza e Mea la fea, due ragazze del Novecento
Scrittrice e traduttrice, Daniela Piu ha pubblicato due romanzi interessanti e a distanza ravvicinata l’uno dall’altro. Scorrevoli nello stile come anche nell’intreccio degli avvenimenti, si intitolano rispettivamente Uminza (L’Erudita edizioni, pp. 86, euro 16) e Mea la fea (ExCogita editore, pp. 95, euro 13). Due storie diverse ma entrambe ambientate perlopiù in Sardegna, terra che ha dato i natali anche a Piu e che le dà l’agio di descrivere nel dettaglio dei luoghi peculiari e così carichi di storie. Sia Uminza che Mea la fea hanno il Novecento come sfondo e due protagoniste femminili che danno il titolo ai testi.
Brevi entrambi, anche se densi di riferimenti, ciò che li lega è il taglio scelto dall’autrice che ricorda il romanzo di formazione, se non fosse che basterebbe leggere le novelle di Grazia Deledda, alcune atmosfere di Sergio Atzeni o anche le agili narrazioni di Milena Agus per avere dei riferimenti, meno e più recenti, su quanto la letteratura prodotta in Sardegna abbia una tradizione notevole. Uminza, come Mea la fea, sono nomi e, nel primo caso, è lo strano appellativo che le viene dato alla nascita perché di capelli rossa scura come il pelo di un tipo di capra che si chiama appunto così: uminza.
Ciò indica anche alcuni tratti del carattere, perché questa bambina nata in Sardegna sarà anfibia tra Nuoro e Roma e poi una disobbediente, a Parigi e infine nel mondo. Mea la fea è battezzata tale non tanto perché «brutta» ma perché fastidiosa e non si concede alle dinamiche stereotipate. Anche a quelle sociali è refrattaria ed è sodale letteraria di Uminza. Entrambe, per strade diverse, percorrono contraddizioni storiche e la difficoltà per le ragazze di affermarsi senza cedere al giogo maschile. Daniela Piu dipinge due ritratti di grande respiro e sorprendente modernità.
[Pietro Rebusi 19/08/2023]
TRE CIOTOLE
Qual è la misura del nutrimento? Lo spazio del pegno d’amore concesso alle creature che distinguono ciò che è essenziale dalla ingordigia quotidiana. Le risposte potrebbero essere tante altre; decisive però, su ciò che è fondante, sono le domande suscitate e contenute in Tre ciotole. Rituali per un anno di crisi, l’ultimo libro di Michela Murgia (Mondadori, pp. 144, euro 18). Una raccolta letteraria di brevi episodi che si leggono come un romanzo impunturato dai temi che da sempre la scrittrice e femminista ha inteso prediligere: quelli che attengono l’umano nella sua complessa qualità di apertura, materiale, quindi situata, e ontologica. Pubblicato di recente e atteso da chi, con dedizione, ha seguito in questi anni il percorso di Murgia, morta il 10 di agosto e anche in queste pagine ricordata nel bellissimo articolo di Daria Fortino e in quello di Costantino Cossu che ne hanno tratteggiato la caratura intellettuale, tre sono le ciotole in cui, ogni giorno, una delle protagoniste sceglie di riporre il cibo da consumare. In una un pugno di riso, nell’altra carne o pesce, nella terza della verdura. Poco, nella quantità, eppure lo stretto necessario preparato con cura per rifondare sé stesse.
COME UNA PREGHIERA di protezione che si ripete
uguale ogni giorno, una donna ci sollecita sul cortocircuito generato da
una separazione, dettagliando il vuoto disamorato la cui allerta è
spasmo corporeo. Arriva alla sera e si mischia alla rabbia che, nella
radicalità di Michela Murgia, diventa erotica quando caccia fuori il
rifiuto di ciò che è scadente, inautentico, mentre escogita piccoli
stratagemmi per non essere più espropriata.
Maestra di intrecci e libertà femminile, «partigiana della differenza» –
come ha scritto Laura Fortini – Murgia fa il ritratto dello smarrimento
contemporaneo di una generazione che passa per una identità franta, «a
pezzi» – per riprendere il titolo di un intervento lucidissimo del 2007 –
in cui vi sono i semi di ciò che ha tenuto caro negli anni successivi.
Si legge per esempio di una gonna senza orlo che è la Sardegna, di una
interruzione che è la stessa frattura della terra, e del dono di
saperlo. Di non essere nati interi. Questo sapere è pietra angolare di
una coscienza che parte dalla enunciazione di sé; vi è in ogni pagina
scritta da Murgia l’eco lonziano dell’«Io dico io», fin dal racconto
splendente che è stato Altre madri passando per Accabadora, Ave Mary e God Save the Queer. Ecco perché in Tre ciotole
non stupisce ritrovare l’ordine di una scrittrice che ha assunto, fin
dagli esordi, la temperie esatta di un presente che cola a picco che
pure deve restare relazionale, foriero di alleanze. Lo aveva spiegato bene anche in Futuro interiore, là dove «futuro» era già qualcosa in fieri
e di cui fornire il vivente. Se il futuro rimane la scommessa giocata
nel «noi», anche di questo soggetto collettivo Tre ciotole tiene conto, a
cominciare da una diagnosi definitiva. Apre il libro infatti il
racconto di una donna che, come ha reso pubblico di sé stessa l’autrice
in una intervista di tre mesi fa, viene informata da un medico di un
carcinoma renale al quarto stadio.
ALLA PERENTORIETÀ definitoria, la sua rivelazione pubblica ha spalancato un amore tanto grande da cambiare di segno non il dolore ma la narrazione retorica intorno alla malattia. Le metafore astraggono e allontanano, Michela Murgia invece ha scelto la strada della prossimità, di sé e di chi ha desiderato il suo bene. Alla guerra contro un nemico infatti, ha preferito fare offerta di sé, frontale, ancora una volta. Non per trovare approvazione bensì per ribadire che la violenza attecchisce dove le cose non vengono nominate per ciò che sono; sembra questione semplice eppure ancora ampiamente disattesa. L’esercizio di nominazione è svelamento della realtà anche per un’altra delle protagoniste di Tre ciotole che lavora a casa di un colonnello trasferitosi con la famiglia a Roma ma, da giovane, in stanza per un addestramento in Sardegna. La contraddizione della «guerra» al Covid fa da contrappunto alla incidenza tumorale, in particolare quella da uranio impoverito. Così come il «servire», nella differenza di classe e di potere, è dipanato da un’affilata memoria subalterna: se per un verso c’è chi crede di essere onnipotente custode delle vite come della salute degli altri, dall’altro c’è chi porta nella propria storia i segni di una lenta ingiustizia coloniale.
I rituali per un anno di crisi sono tuttavia molti, e ogni capitolo ha la potenza di un’umanità sparpagliata e alla deriva, nei suoi lati di ferocia sistemica, come nella scena in cui un gruppo di ragazzi si accanisce sul corpo già esanime di un animale. E ancora della libertà di una ragazza che dispone del proprio piacere, dunque di una parte consistente del bene che deve a sé stessa. La testimonianza spirituale di Tre ciotole è risonante alla sua autrice che alla seduzione di una parola senza responsabilità né conseguenze ha privilegiato la narrazione di una sacralità intima, dalle ombre di Accabadora che si allungavano in silenzi al passo di Maria e Bonaria in una strada notturna fino a quelle di una bambina che, nello stesso romanzo, studiava le forme rossastre di braci quasi esauste nel soffitto della sua camera.
PRESAGIO O SOGNO, è luogo simbolico di profonda e dolente grazia che Michela Murgia ha consegnato alla letteratura, dunque al mondo. Lo ha infine restituito attraverso le anime descritte in Tre ciotole, qualcuna con braccia adolescenti fragilissime, altre nel baluginio di insonnia e cartonati per sostituire la partenza di un figlio, c’è poi chi si illude di avere tutto sotto controllo fino ad accorgersi che gli esseri umani non sono piccole riproduzioni in scala. Le brevi cerimonie sono infine abiti che ci si scambia, e vanno reinventate per chi continuerà a leggere Michela Murgia. Perché, contro l’ingordo sciacallaggio quotidiano che ci vorrebbe pasto nudo e disumanizzato, la misura di quello stretto necessario rimanga di nutrimento. Indispensabile tenerlo a mente, per tutti e tutte. Sia dunque promessa avverata di un amore che circonda. Un giorno dopo l’altro. E continua a proteggere. Ovunque.
*
SCHEDA. BREVI RIFERIMENTI
L’intervento «A pezzi», di Michela Murgia fa parte del volume a più voci «Cartas de logu» (Cuec 2007). Il racconto «Altre madri» è del 2009 e si trova integralmente online, sia scritto che letto da Murgia. Nello stesso anno esce il romanzo «Accabadora» (Einaudi). Sempre per Einaudi sono editi «Ave Mary» (2011), «Futuro interiore» (2016) e «God Save the Queer» (2022).
[Alessandra Pigliaru 17 agosto 2023]
E' morta Michela Murgia
È morta all’età di 51 anni la scrittrice Michela Murgia. A maggio aveva rivelato di soffrire di un cancro ai reni al quarto stadio.
Dopo aver reso pubblica la sua malattia la scrittrice, drammaturga, opinionista, ha raccontato tramite i suoi profili social gli ultimi mesi di vita, celebrando la sua famiglia "queer" ma anche continuando le sue battaglie da attivista per i diritti.
Il suo ultimo post su Instagram, di tre giorni fa,è u attacco al sindaco di Ventimiglia colpevole di aver negato l’accesso all’acqua ai migranti sul suo territorio: “È normale che ci faccia schifo chi nega agli esseri viventi il diritto ai bisogni più elementari. Che poi una amministrazione possa pensare di risolvere il problema del degrado urbano lasciando le persone ad agosto senza acqua – cioè più esposte alle infezioni – è un’idiozia tale che ci arriva anche chi non ha il pollice opponibile, cosa che credo serva persino per diventare sindaci con la Lega”.
Nata a Cabras nel 1972, Michela Murgia ha esordito con Il mondo deve sapere (2006), romanzo tragicomico sul mondo dei call center, che ha ispirato l’opera teatrale omonima e il film Tutta la vita davanti (2008).
Molto legata alla sua terra, nel 2008 ha firmato Viaggio in Sardegna. Due anni dopo è uscito Accabadora, premio Super Mondello e premio Campiello. Lo scorso 11 giugno Murgia aveva annunciato il ritiro dall’attività pubblica. A metà luglio aveva sposato l’attore e regista Lorenzo Terenzi.
Michelina Di Cesare, briganta, Monica Mazzitelli, ed. Lorusso
«Quel milligrammo di libertà in più che ho rispetto alle altre donne è troppo prezioso per mandarlo sprecato», dice Michela Di Cesare mentre fuma uno dei suoi cigarillo. Con il romanzo Michelina Di Cesare, briganta (Lorusso, pp.268, euro 15) Monica Mazzitelli, regista e scrittrice da anni ormai trapiantata in Svezia, ricostruisce letterariamente la vita di una delle figure più leggendarie del brigantaggio post-unitario.
NELLA BANDA GUERRA non comandava solo Francesco. Ma
anche sua moglie Michelina Di Cesare. Come attestano le testimonianze
dell’epoca, del gruppo facevano parte, oltre a ventuno uomini, anche due
donne. Di queste, solo una, Michelina, era armata con un fucile a due
colpi e una pistola. Nella banda era entrata, dopo essere rimasta
vedova, nel 1862 insieme al fratello Domenico, abbandonando per questo
anche due figli ancora piccoli. Erano anni orribili in Terra di Lavoro
all’indomani dell’unificazione d’Italia. Per quei territori, messi a
ferro e fuoco dai bersaglieri, era stata un’invasione violenta. Lei era
nata a Caspoli, nell’alto Casertano. Scelse di farsi briganta per
sfuggire alla fame. Poi, conobbe l’ebrezza della libertà. In una chiesa
di Galluccio nel 1865 sposa Francesco Guerra. Non diventa la donna del
capo. Lo affianca, lei stessa comandante della banda. Francesco era un
ex soldato borbonico. E il suo gruppo lo aveva ereditato da un altro
brigante rinomato, Rafaniello, alla sua morte nel 1861.
La banda dette filo da torcere ai piemontesi, compiendo assalti, rapine e
sequestri nelle zone intorno a Mignano, anche quando il fenomeno del
brigantaggio era stato ormai ridimensionato. A sgominare le ultime
resistenze al potere sabaudo, tuttavia, furono più le spie che la forza
militare del generale Emilio Pallavicini di Priola, inviato al Sud con
questo preciso scopo. Infatti, fu una soffiata, proprio del fratello
Domenico, a consentire di attaccare di sorpresa l’accampamento della
banda il 30 agosto del 1868. I soldati infierirono sul cadavere di
Michelina, che insieme al corpo di Francesco, fu esposto nella piazza di
Mignano come sanguinoso avvertimento. D’altra parte, riconoscendone,
seppure in modo macabro, il rango militare.
Con l’avvento della fotografia, la propaganda sabauda fece uso dei nuovi
mezzi per orientare l’opinione pubblica. Ecco che tristemente
emblematica è la foto che ritrae Michelina nuda e con i segni evidenti
delle violenze subite. Sono circolate anche immagini guerresche, con lei
che indossa il costume tradizionale, lo sguardo minaccioso e il fucile a
fianco. La foto sarebbe stata scattata a Roma in un atelier nel 1865.
Come ha svelato l’autrice, si tratta, in realtà, di falsi postumi
realizzati con modelle negli studi Alinari.
LE IMPRESE della banda Guerra e di Michelina si
inseriscono nella seconda fase, che gli storici definiscono del «Grande
brigantaggio», quando tutto il mondo contadino è ormai in rivolta e la
lotta acquista un embrionale profilo di riscatto sociale. All’indomani
dell’unificazione, invece, aveva avuto un carattere dichiaratamente
legittimista e filo-borbonico. Questo dato storico consente all’autrice
di restituirci la memoria di una figura di donna in rivolta, staccata
dalla discussione specialistica.
Come si legge nella prefazione conosciamo un’Antigone contadina che
rifiuta l’ordine costituito per obbedire unicamente alle leggi del
bisogno e dei sentimenti. Se, in superficie, di quella esperienza
storica non ci resta molto – l’anarchia intima col tempo lasciò spazio
al familismo – più a fondo, l’irrompere in misura massiccia delle donne
nella rivolta contadina post-unitaria contribuì silenziosamente a
orientare il processo di modernizzazione lungo in cammino che oggi sta
arrivando a compimento.
[Pasquale Vitagliano 4/08/2023]
Torrey Peters Detransition, baby
Detransition, Baby, edito da Oscar Mondadori Vault nella traduzione di Chiara Reali (pp. 420, euro 20), è il primo romanzo di Torrey Peters, autrice già di diversi racconti lunghi mai pubblicati in Italia, ed è la storia di tre persone che cercano di formare una famiglia. Reese è una donna trans con un passato da baby sitter e un presente da promoter nella moda. Ames per un periodo della propria vita ha vissuto da donna trans ma dopo una serie di eventi ha deciso di sospendere la transizione e tornare a vestire panni maschili. Katrina, una donna cisgender, è la superiore di Ames e intraprende una relazione con lui, ignorando alcuni aspetti del suo passato. In una complessa trama emotiva, a cui fa da sfondo una New York caotica ed effervescente, questi tre personaggi tentano di instaurare un equilibrio relazionale che possa contenere anche il desiderio di avere figli.
Il racconto delle vite delle persone trans ruota ancora molto intorno a cliché e semplificazioni. Detransition, Baby racconta una vicenda sentimentale intricata e per questo ricca di contraddizioni e sfumature. Problematizzare la realtà, rifuggire gli stereotipi, è importante per la crescita della comunità lgbtq e anche per la sua capacità di auto-narrarsi.
La letteratura è diversa dall’attivismo, sono mezzi diversi con ruoli diversi e complementari. Come artista esigo di avere il diritto di sbagliare. Se voglio scrivere personaggi complessi, anche loro devono avere la possibilità di sbagliare, senza avere la responsabilità di rappresentare tutte le persone trans. Mi interessa raccontare come ci si sente a essere una persona trans, non dettare regole su come si debba vivere, cosa che invece fanno tutti gli altri mezzi che non sono letteratura.
Se ho la possibilità di dedicarmi a narrazioni complesse e personaggi fallibili è grazie allo spazio creato da chi fa attivismo, ma la letteratura è una cosa diversa. Non voglio preoccuparmi che se scrivo di un personaggio che pratica sex work, o che si droga, o che va a letto con un uomo sposato, la gente penserà che tutte le donne trans sono così. Voglio che i miei personaggi possano essere se stessi, nel bene e nel male. Paradossalmente è il modo migliore perché chi legge possa immedesimarsi in loro. Per esempio: il libro è dedicato alle donne che hanno divorziato, perché il divorzio ti costringe a rimettere in discussione la tua vita, dopo avere pensato magari per anni che sarebbe andata in un certo modo. Un’esperienza molto simile a quella delle persone trans.
La scelta della parola “detransizione” nel titolo è coraggiosa, soprattutto perché alcune frange del femminismo storico, le cosidette Terf (acronimo che sta per Trans Exclusionary Radical Feminist) usano i casi di detransizione come argomenti per invocare un’ulteriore restrizione dei diritti delle persone trans. La detransizione è un percorso possibile e non dovrebbe essere demonizzato.
L’ho fatto proprio per rimarcare che la detransizione non è un concetto che appartiene alle Terf. Per detransizionare prima devi avere fatto una transizione di genere, devi averla presa in considerazione come possibilità. Chi detransiziona non lo fa perché “ha fatto un errore”. Lo fa perché vivere come persona trans è piuttosto difficile. C’è chi perde la famiglia, il lavoro. E si ritrova a dover compiere una scelta razionale, a dover decidere se tenersi il lavoro o vivere nel genere che ha scelto.
Le Terf strumentalizzano l’idea del rimpianto. Secondo loro non si dovrebbe cambiare genere perché poi ci si potrebbe pentire della scelta fatta. E allora? È così grave? Siamo persone adulte. Capita di fare delle scelte, capita di avere dei rimpianti. C’è chi si trasferisce per lavoro, e poi le cose non funzionano e cinque anni dopo si ritrova punto e a capo. Significa avere perso cinque anni della propria vita? Perché è quello che dicono a chi ci ripensa: hai perso cinque anni della tua vita. Se ci sta bene che la gente si trasferisca per lavoro, perché non dovremmo lasciare a chiunque la libertà di giocare col proprio genere? Lasciare che si strumentalizzi la detransizione lacera la nostra comunità perché ci impedisce di parlarne liberamente, di raccontare anche questa sfumatura della nostra esperienza.
A mio parere, l’unica reazione possibile è non nascondere niente. Per questo ho scelto di mettere la detransizione in copertina. Non mi piace essere infantilizzata.
Le persone che hanno detransizionato possono essere sexy, possono vivere una vita nella quale sono oggetto di desiderio, in cui sono felici. Perché dovremmo trasformare le persone in parabole negative? Adulte e adulti possono commettere sbagli e pentirsene. L’idea che non si possa dubitare del proprio genere, che si debba prevedere il futuro, è un peso ingiusto che viene addossato alle persone trans. Le persone cis cambiano continuamente il loro genere. Oggi sono più femminile, domani un po’ meno. Penso che chiunque debba avere questa libertà, e se per farlo bisogna rompere delle convenzioni di genere va bene così.
In Italia c’è una scarsa diffusione di storie che hanno come protagoniste persone trans. Le poche che ci sono ci concentrano spesso sulla fase dell’adolescenza. Detransition, baby offre invece una prospettiva adulta sulle vicende di persone trans.
In genere il pubblico è molto interessato alla transizione, nel
momento in cui avviene. Nella letteratura “Young Adult” (ndr, che
racconta storie di adolescenti) le questioni affrontate sono sempre: I
miei genitori mi accetteranno? Avrò mai un ragazzo? Chi sono? La
letteratura YA fa un buon lavoro nel raccontare l’esperienza degli anni
di transizione. Ma cosa succede quando sei più grande? Cosa succede
quando vivi già come una donna da molto tempo? All’improvviso ti ritrovi
con dei problemi da adulta.
Ti chiedi cose come, devo telefonare alla mia famiglia? Dove trovo il
senso della vita a trent’anni? Cosa succede se non ho modelli che mi
facciano stare bene?
La redazione consiglia:
Alle selezioni di Miss Italia insieme ai ragazzi transNon abbiamo molta letteratura trans adulta perché non ci sono molte persone trans adulte che non siano state discriminate, che non abbiano pensato a o tentato il suicidio, che non si sono dovute nascondere, che non hanno avuto a che fare con le conseguenze dell’Hiv. Per cui è difficile che abbiano avuto il tempo per leggere e, parallelamente, non sono viste come un pubblico in cerca di un’identificazione nei personaggi dei libri.
Ho provato a scrivere un libro che parli alle persone trans adulte, che riconosca che essere persone trans adulte vuol dire avere a che fare con questioni come il divorzio, i figli, l’impegno per costruire una famiglia. C’è un parallelismo tra i grandi cambiamenti della vita e l’esperienza trans, per cui spero che ci possa essere più spazio perché altri libri trans vengano letti dalle persone trans ma anche dalle persone cis, che non leggono per imparare qualcosa, ma perché la letteratura parla direttamente a loro.
In Detransition, Baby, si tende a usare la parola “transessuale” al posto della parola “transgender”, che è quella attualmente consigliata da chi si occupa di linguaggio corretto.
Ho scritto questo libro mentre vivevo a Brooklyn, pensavo che l’avrebbero letto solo i miei amici e le mie amiche, per cui inizialmente ho usato lo stesso linguaggio che usavo con loro. Molte cose non sono politicamente corrette nel testo. Uso “transessuale” invece di “transgender” perché lo uso con la mia cerchia, e perché mi diverta che contenga la parola “sesso” . Portando in giro il libro e le sue traduzioni mi è capitato di sentirmi chiedere quale sia il modo corretto per parlare delle persone trans. La risposta è che non lo so – il mio è un romanzo, non un trattato sul linguaggio corretto..
Molto spesso, in italiano, le parole che la comunità trans usa per raccontarsi sono mutuate dall’inglese. Per quella che è stata la sua esperienza, con il romanzo che è stato tradotto in 12 lingue, è così anche negli altri paesi?
È vero, gli Stati Uniti esportano molto linguaggio trans, e in questo modo si crea una descrizione egemonica dell’esperienza vissuta. Per esempio molte delle lotte trans riguardano i pronomi, il modo in cui si usano per rivolgersi a qualcuno in maniera corretta. È una cosa molto specifica dell’inglese. Il contesto statunitense può essere piuttosto miope, soprattutto quando le lotte per i diritti delle persone trans vengono collegate solamente a questioni di linguaggio.
In Europa ho scoperto che in vari contesti linguistici, meno intaccati dall’egemonia dell’inglese, la comunità trans locale ha inventato parole e concetti che funzionano benissimo. Per esempio, in Polonia, per tradurre l’espressione “baby trans” (si usa anche in Italia per indicare persone molto giovani, all’inizio della transizione) hanno usato una parola che si potrebbe tradurre come “fagotto trans” (trans bundle), dove fagotto, bundle, è la stessa parola che si usa per parlare di un bambino in fasce. Ma ha anche una connotazione religiosa, perché richiama Gesù Bambino, e quindi la rinascita. Funziona piuttosto bene.
Ci sono altre situazioni più interessanti degli Stati Uniti. Per esempio Le cattive, dell’argentina Camilla Sosa Villada, scritto in stile realismo magico. È un libro che è in conversazione diretta con Detransition, Baby. Parlano entrambi di maternità, di come si vive da adulte. Il mio libro si arricchisce se letto insieme a Le cattive.
Ha iniziato a scrivere Detransition, Baby pensando di rivolgerti alla tua cerchia di amiche e amici. Come ha influito questa scelta sui contenuti del romanzo?
Mentre scrivevo per me è stato importante immaginare un pubblico trans, non solo per una ragione politica ma anche artistica. Ho mututato quest’idea da scrittrici e scrittori neri. Per esempio Toni Morrison scriveva esplicitamente per le donne nere e quindi non aveva bisogno di spiegare ogni cosa, e questo le ha permesso di incanalare tutte le sue energie nella scrittura. Io e la mia cerchia, scrivendo tra noi, abbiamo tentato di fare una cosa simile. Quando scrivo per un’altra donna trans non devo fermarmi a dare spiegazioni, e posso così dedicarmi completamente alla narrazione. Sarebbe noioso se scrivessi cose tipo, prendo gli ormoni tutte le settimane: le altre donne trans lo sanno già. Scrivendo in questo modo è possibile alzare il livello di ciò che si può scrivere, si scrive molto meglio e lettrici e lettori lo apprezzano.
Nel romanzo si parla di maternità declinandola in diversi modi che hanno a che fare con la creazione di una famiglia ma anche col tema della cura in senso più ampio. Per lei cosa significa?
Soprattutto a New York le donne trans più grandi aiutano quelle più giovani, assumendo per loro letteralmente il ruolo di madri trans. Lo sono anche io, ho delle “figlie” trans. È molto appagante. Le donne trans più anziane non hanno avuto la possibilità di scrivere libri, potevano solo cercare di sopravvivere giorno per giorno. Non si ponevano neanche il problema della maternità. Adesso è diverso. Per cui ho dovuto prendere le donne cis come riferimento, donne che trovano il senso della loro vita nel matrimonio, nelle relazioni, nel lavoro, ma anche nel crescere figli e figlie. Le prime tre opzioni mi sembravano possibili, per me, ma non quella di avere figli.
Ho scritto questo libro per rispondere a questa domanda: voglio avere figli? Come? Scrivendone ho potuto giocare con l’idea e immaginare possibilità. La cosa buffa è che chi ha letto il libro ha pensato che volessi disperatamente avere un figlio, ma io stavo davvero semplicemente cercando di capirlo, e quello che ho capito alla fine della scrittura del romanzo è che di figli non ne volevo. Appena l’ho capito mi sono innamorata e ho poi sposato una donna che ha un figlio di nove anni, e così mi sono ritrovata a essere madre.
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