Un poliziotto trasferito in una città di montagna come Aosta
perché sospettato di varcare spesso il confine tra legalità e illegalità
ma troppo bravo per essere cacciato con infamia dalla polizia di stato.
UN SOLITARIO, ruvido nei rapporti, che non disdegna
di fumare marijuana per rilassarsi e che dialoga con il fantasma della
moglie ammazzata da un criminale, e che ricorda alcune figure intermedie
della banda della Magliana o del recente affaire criminale di «mafia
capitale». Il commissario promosso vicequestore Schiavone è però il
personaggio di una serie di Antonio Manzini che la casa editrice
Sellerio ha scoperto nella sua meritoria opera di promozione di
scrittori italiani di hard boiled e gialli (oltre a Manzini ha mandato
alle stampe anche la trilogia del Barlume di Marco Malvaldi).
Nell’ultimo libro – Pulvis et umbra, pp. 403, euro15 –,
Schiavone deve sciogliere il mistero attorno all’omicidio di un trans,
trovandosi tra le mani i nodi di un criminale pentito, di servizi
segreti che ignorano la legge in nome della ragion di stato e del legame
tra economia criminale e quella «normale», mentre si profila
all’orizzonte la possibilità di mettere fine alla vita di un delinquente
romano – la capitale è la città del protagonista – fratello
dell’assassino della moglie nonché killer omicida della compagna di un
suo amico di infanzia.
COME IN TUTTI ROMANZI finali di una serie compaiono
nelle sue pagine le figure che in qualche misura hanno accompagnato i
precedenti romanzi. I poliziotti e il magistrato di Aosta dove è stato
«esiliato», gli amici di infanzia, piccolo criminali di una malavita di
altri tempi, i funzionari dei servizi segreti che lo tengono d’occhio
perché sospettato di sapere troppe cose sul loro operato in alcune
vicende torbide, ma fin troppo note nell’Italia dei piccoli e grandi
misteri; infine, le donne conosciute biblicamente per addolcire la
malinconica solitudine nella quale è piombato dopo che i colpi di
pistola destinati a lui hanno invece ucciso la moglie.
Il commissario Schiavone sa che rischia molto nello sbrogliare la doppia matassa che ha tra le mani.
È CAUTO, ATTENTO ad evitare trappole, ma non cede a
un senso dell’onore verso una visione della giustizia che coincide con
la fedeltà ad alcuni articoli del codice penale e a un’antica visione
del bene da contrapporre al male del mondo.
I romanzi di Manzini si fanno leggere. Fanno inoltre parte dell’«ala
riformista e socialdemocratica» del giallo italiano. Questo non
significa che non siano scritti bene, presentano storie sempre
sviluppate con intelligenza e gusto della suspence. Inoltre, l’autore sa
che il mondo di Schiavone appartiene al passato. Ha ben poco a spartire
con l’Italia contemporanea, quella dove la corruzione è l’alfa e
l’omega di chi frequenta – poco importa se guardiano, impiegato o
burocrate di alto livello – le stanze del potere.
SCHIAVONE è, infatti, un sopravvissuto di un mondo
che non c’è più, quello che stabiliva con chiarezza i confini tra il
bene e il male, il giusto e l’ingiusto. Rischia di soccombere. E dovrà
cambiare, senza però rinnegare la sua etica.
Già perché Pulvis e umbra è un giallo dove il mistero
impossibile da svelare è quello del rapporto tra l’etica pubblica e la
morale privata. E adatto a essere trasformato in un episodio della serie
televisiva ad alta percentuale di share dove il volto di Schiavone ha i tratti scanzonati, duri, segnati dalla vita e tuttavia solari di Marco Giallini.
[Benedetto Vecchi 24/11/2017]