Questo blog accoglie la nuova avventura di quelli di Sguardi d’Altrove, e il Reverendo Dogdson, con i suoi dubbi sulla realtà, si aggiunge al nostro olimpo di numi tutelari. Non dimentichiamo gli autori che più spesso ci hanno accompagnati nel viaggio di Sguardi d’Altrove, anzi, da loro ripartiamo. Quindi, un pensiero affettuoso e ammirato, in particolare, ad Alan Bennet a alla sua Sovrana Lettrice, mantenendo ben fermo il principio che ragguagliare non è leggere.
venerdì 27 maggio 2016
giovedì 26 maggio 2016
Mi chiamo Lucy Barton, Elisabeth Strout
Narrativa americana.
Relazioni familiari povere di parole, una vita di provincia con
corollario di pettegolezzi, timore di comunicare e solitudine: questi i
temi ricorrenti nell'ultimo romanzo di Elisabeth Strout per Einaudi
Non per caso, Adrienne Rich ha parlato di una «grande storia non
scritta», quando si è trovata a trattare del rapporto tra una madre e
una figlia, fondamentale e fondante nella vita di ogni donna, che dunque
si impone come una sfida speciale e insieme uno scoglio a ogni artista
di sesso femminile che voglia cimentarsi senza retorica sull’argomento.
Trattare questo tema significa, per una scrittrice, non solo scontrarsi con problemi come l’individuazione e l’autodeterminazione, ma anche sottoporsi a un corpo a corpo che attraversa due vite e ne supera i confini. Forse è per questo che poesia e short story, con la loro capacità di elevare il dettaglio a momento epifanico, riescono meglio a esprimere il paradosso della maternità: venire da un corpo speculare, continuare a portarselo dentro, riprodurlo, in quella che la poetessa statunitense Maxine Kumin ha chiamato una sorta di «catena di Sant’Antonio buona per i prossimi / venticinquemila giorni delle loro vite».
Non a caso, dunque, l’ultimo romanzo di Elizabeth Strout, Mi chiamo Lucy Barton (traduzione di Susanna Basso, Einaudi, pp. 162, euro 17,50), in cui una madre e una figlia si ritrovano in un ospedale e, parlando ininterrottamente di futilità riscoprono un affetto remoto, è contratto nei tempi e negli accenti di una short story. Quel che ne dilata l’ampiezza viene affidato a riferimenti alla cronaca, per esempio l’epidemia di Aids negli anni ottanta e l’11 settembre, o a divagazioni sulla città di New York, che dovrebbero conferire spessore romanzesco al nucleo del libro, ma finiscono invece per risultare accessori.
«La madre è la figlia e la figlia è la madre», affermava Jung, e le sue parole tornano alla mente di fronte a queste due donne diversissime: una madre anziana e ruvida, che ha trascorso la sua vita in miseria, circondata dallo squallore di uno sperduto villaggio dell’Illinois, e una figlia colta, madre a sua volta di due bambine, che da quel villaggio e da quell’indigenza della sua infanzia è riuscita a emanciparsi per approdare a New York, dove coltiva ambizioni letterarie e accetta di essere presentata in società come la ragazza che «arriva dal nulla». Tuttavia, ciò che ora rende diverse le due donne è solo apparente: se fin dalla sua prima comparsa il lettore non stenterà a individuare nella ruvidezza della madre i tratti di Olive Kitteridge, la protagonista del libro che rese famosa Elisabeth Strout, verso la fine del romanzo, ovvero molti anni dopo i cinque giorni trascorsi in ospedale, troverà anche in Lucy, la figlia, la stessa determinazione a andare avanti a scapito della sofferenza che la sua emancipazione causerà ai propri familiari, facendo ben poco per evitarla.
Nessun sentimentalismo percorre questa storia, sebbene la stessa autrice la descriva – in un intermezzo metanarrativo – come «una storia d’amore», della quale fornisce lei stessa una succinta sinossi: «È la storia di un uomo che si è tormentato ogni giorno della vita per cose che aveva fatto in guerra. È la storia di una moglie che è rimasta con lui, perché lo facevano quasi tutte le mogli di quella generazione, e che si presenta nella stanza d’ospedale della figlia e sproloquia nevroticamente dei matrimoni falliti di tutti gli altri, e nemmeno lo sa, nemmeno sa che cosa sta facendo. È la storia di una madre che ama sua figlia. In modo imperfetto. Perché amiamo tutti in modo imperfetto».
Un espediente piuttosto scontato fa sì che Lucy venga rappresentata come allieva di un corso di scrittura, e dunque apprendiamo, a un punto inoltrato del romanzo, che quelle che stiamo leggendo sono in effetti pagine a cui Lucy lavorava al tempo delle lezioni di creative writing. Non solo, ma ci viene anche svelato il modo in cui dobbiamo intendere il comportamento di questa madre che, pur restando la figlia ricoverata nove settimane si ferma solo cinque giorni, poi improvvisamente se ne va, proprio quando è prospettata la possibilità di un nuovo intervento. E come dobbiamo interpretare la psicologia di Lucy Barton, le cui sofferenze infantili non sembrano impedirle di amare la madre che l’aveva trascurata, né la inducono a risparmiare alle proprie figlie scelte di vita che saranno, per loro, fonte di distacchi e sofferenza.
Per raccontare una storia come questa, tutta giocata su sentimenti impalpabili, emozioni sopite, dettagli penosi rimossi nel fondo dell’inconscio, Elizabeth Strout oscilla tra passaggi quasi lirici e toni colloquiali, spesso a rischio di banalità, per esempio quando indulge negli stucchevoli vezzeggiativi con cui mamma e marito si rivolgono a Lucy o quando mette in bocca perle di saggezza alla protagonista («La vita continua, fino a quando non continua più», «certe donne hanno la sensazione che gli si strappi il cuore, altre invece trovano molto liberatorio che i figli se ne vadano») tanto da insinuare un dubbio sul successo al quale andrà incontro Lucy Barton, in quanto aspirante scrittrice.
Ma è ancora l’intermezzo metanarrativo a soccorrerci, offrendo una chiave per interpretare non solo questo romanzo, ma tutta l’opera di Strout. «Ciascuno di voi ha soltanto una storia … Scriverete la vostra unica storia in molti modi diversi. Non state a preoccuparvi, per la storia. Tanto ne avete una sola», afferma l’insegnante, una scrittrice con evidenti problemi didattici (durante le lezioni si incide progressivamente sul suo volto «la devastazione della fatica»).
Non è difficile capire quale sia l’«unica storia» di Elizabeth Strout: un’indagine sugli «amori imperfetti» di piccole persone che cercano di affermare la propria identità in un mondo in cui tenderebbero a passare inosservate; donne come Olive Kitteridge che, all’interno di una anonima comunità del Maine, sceglie di contraddistinguersi per la rigidità e la sgradevolezza dei suoi comportamenti, o come Lucy Barton che, pur conoscendo «anche troppo bene il dolore che noi figli ci stringiamo al petto» e sapendo che «dura per sempre», non può evitare di infliggerlo alle proprie bambine.
Le relazioni familiari dense di gesti e di sguardi piuttosto che di parole, la vita di provincia con il suo imprescindibile corollario di pettegolezzi, la solitudine del quotidiano, il bisogno e il timore di comunicare, sono tutte temi che attraversano, in modi diversi, l’«unica storia» di Elizabeth Strout e tornano, nell’ultimo lavoro, a sostanziare il percorso di individuazione di una donna che rivendica il proprio diritto a essere se stessa fin dal programmatico titolo, in cui si presenta con il proprio cognome da ragazza, al contrario della consuetudine americana secondo cui la donna sposata assume il nome di famiglia del marito.
A questa piena accettazione di sé e della proprie radici, Lucy arriva soltanto a due pagine dalla fine, dopo aver dolorosamente ripercorso nel ricordo i tetri anni della sua infanzia e aver rimesso in discussione, per usare una terminologia psicoanalitica, il proprio romanzo familiare. Solo quando riesce a ravvisare e accettare nel mito universale della maternità l’unicità della propria vicenda, Lucy può gridare forte al mondo il proprio nome. E consegnare al lettore, finalmente, un’immagine positiva del suo passato: i colori del tramonto autunnale sui campi intorno alla piccola casa nell’Illinois.
[Silvia Albertazzi 22/05/20156]
Trattare questo tema significa, per una scrittrice, non solo scontrarsi con problemi come l’individuazione e l’autodeterminazione, ma anche sottoporsi a un corpo a corpo che attraversa due vite e ne supera i confini. Forse è per questo che poesia e short story, con la loro capacità di elevare il dettaglio a momento epifanico, riescono meglio a esprimere il paradosso della maternità: venire da un corpo speculare, continuare a portarselo dentro, riprodurlo, in quella che la poetessa statunitense Maxine Kumin ha chiamato una sorta di «catena di Sant’Antonio buona per i prossimi / venticinquemila giorni delle loro vite».
Non a caso, dunque, l’ultimo romanzo di Elizabeth Strout, Mi chiamo Lucy Barton (traduzione di Susanna Basso, Einaudi, pp. 162, euro 17,50), in cui una madre e una figlia si ritrovano in un ospedale e, parlando ininterrottamente di futilità riscoprono un affetto remoto, è contratto nei tempi e negli accenti di una short story. Quel che ne dilata l’ampiezza viene affidato a riferimenti alla cronaca, per esempio l’epidemia di Aids negli anni ottanta e l’11 settembre, o a divagazioni sulla città di New York, che dovrebbero conferire spessore romanzesco al nucleo del libro, ma finiscono invece per risultare accessori.
«La madre è la figlia e la figlia è la madre», affermava Jung, e le sue parole tornano alla mente di fronte a queste due donne diversissime: una madre anziana e ruvida, che ha trascorso la sua vita in miseria, circondata dallo squallore di uno sperduto villaggio dell’Illinois, e una figlia colta, madre a sua volta di due bambine, che da quel villaggio e da quell’indigenza della sua infanzia è riuscita a emanciparsi per approdare a New York, dove coltiva ambizioni letterarie e accetta di essere presentata in società come la ragazza che «arriva dal nulla». Tuttavia, ciò che ora rende diverse le due donne è solo apparente: se fin dalla sua prima comparsa il lettore non stenterà a individuare nella ruvidezza della madre i tratti di Olive Kitteridge, la protagonista del libro che rese famosa Elisabeth Strout, verso la fine del romanzo, ovvero molti anni dopo i cinque giorni trascorsi in ospedale, troverà anche in Lucy, la figlia, la stessa determinazione a andare avanti a scapito della sofferenza che la sua emancipazione causerà ai propri familiari, facendo ben poco per evitarla.
Nessun sentimentalismo percorre questa storia, sebbene la stessa autrice la descriva – in un intermezzo metanarrativo – come «una storia d’amore», della quale fornisce lei stessa una succinta sinossi: «È la storia di un uomo che si è tormentato ogni giorno della vita per cose che aveva fatto in guerra. È la storia di una moglie che è rimasta con lui, perché lo facevano quasi tutte le mogli di quella generazione, e che si presenta nella stanza d’ospedale della figlia e sproloquia nevroticamente dei matrimoni falliti di tutti gli altri, e nemmeno lo sa, nemmeno sa che cosa sta facendo. È la storia di una madre che ama sua figlia. In modo imperfetto. Perché amiamo tutti in modo imperfetto».
Un espediente piuttosto scontato fa sì che Lucy venga rappresentata come allieva di un corso di scrittura, e dunque apprendiamo, a un punto inoltrato del romanzo, che quelle che stiamo leggendo sono in effetti pagine a cui Lucy lavorava al tempo delle lezioni di creative writing. Non solo, ma ci viene anche svelato il modo in cui dobbiamo intendere il comportamento di questa madre che, pur restando la figlia ricoverata nove settimane si ferma solo cinque giorni, poi improvvisamente se ne va, proprio quando è prospettata la possibilità di un nuovo intervento. E come dobbiamo interpretare la psicologia di Lucy Barton, le cui sofferenze infantili non sembrano impedirle di amare la madre che l’aveva trascurata, né la inducono a risparmiare alle proprie figlie scelte di vita che saranno, per loro, fonte di distacchi e sofferenza.
Per raccontare una storia come questa, tutta giocata su sentimenti impalpabili, emozioni sopite, dettagli penosi rimossi nel fondo dell’inconscio, Elizabeth Strout oscilla tra passaggi quasi lirici e toni colloquiali, spesso a rischio di banalità, per esempio quando indulge negli stucchevoli vezzeggiativi con cui mamma e marito si rivolgono a Lucy o quando mette in bocca perle di saggezza alla protagonista («La vita continua, fino a quando non continua più», «certe donne hanno la sensazione che gli si strappi il cuore, altre invece trovano molto liberatorio che i figli se ne vadano») tanto da insinuare un dubbio sul successo al quale andrà incontro Lucy Barton, in quanto aspirante scrittrice.
Ma è ancora l’intermezzo metanarrativo a soccorrerci, offrendo una chiave per interpretare non solo questo romanzo, ma tutta l’opera di Strout. «Ciascuno di voi ha soltanto una storia … Scriverete la vostra unica storia in molti modi diversi. Non state a preoccuparvi, per la storia. Tanto ne avete una sola», afferma l’insegnante, una scrittrice con evidenti problemi didattici (durante le lezioni si incide progressivamente sul suo volto «la devastazione della fatica»).
Non è difficile capire quale sia l’«unica storia» di Elizabeth Strout: un’indagine sugli «amori imperfetti» di piccole persone che cercano di affermare la propria identità in un mondo in cui tenderebbero a passare inosservate; donne come Olive Kitteridge che, all’interno di una anonima comunità del Maine, sceglie di contraddistinguersi per la rigidità e la sgradevolezza dei suoi comportamenti, o come Lucy Barton che, pur conoscendo «anche troppo bene il dolore che noi figli ci stringiamo al petto» e sapendo che «dura per sempre», non può evitare di infliggerlo alle proprie bambine.
Le relazioni familiari dense di gesti e di sguardi piuttosto che di parole, la vita di provincia con il suo imprescindibile corollario di pettegolezzi, la solitudine del quotidiano, il bisogno e il timore di comunicare, sono tutte temi che attraversano, in modi diversi, l’«unica storia» di Elizabeth Strout e tornano, nell’ultimo lavoro, a sostanziare il percorso di individuazione di una donna che rivendica il proprio diritto a essere se stessa fin dal programmatico titolo, in cui si presenta con il proprio cognome da ragazza, al contrario della consuetudine americana secondo cui la donna sposata assume il nome di famiglia del marito.
A questa piena accettazione di sé e della proprie radici, Lucy arriva soltanto a due pagine dalla fine, dopo aver dolorosamente ripercorso nel ricordo i tetri anni della sua infanzia e aver rimesso in discussione, per usare una terminologia psicoanalitica, il proprio romanzo familiare. Solo quando riesce a ravvisare e accettare nel mito universale della maternità l’unicità della propria vicenda, Lucy può gridare forte al mondo il proprio nome. E consegnare al lettore, finalmente, un’immagine positiva del suo passato: i colori del tramonto autunnale sui campi intorno alla piccola casa nell’Illinois.
[Silvia Albertazzi 22/05/20156]
Non lasciarmi, Kazuo Ishiguro
"L'idea fondante che stava dietro la teoria dei possibili era semplice, e non sollevava molte controversie. Funzionava così. Dal momento che ognuno di noi, a un certo punto, era stato copiato da una persona comune, per ciascuno di noi doveva esserci, da qualche parte là fuori, un modello che continiava a condurre la sua vita. Questo significava, in teoria almeno, che esisteva la possibilità di imbattersi nella persona su cui di era stati modellati. Ecco perchè, quando ci trovavamo nel mondo fuori - in città, nei centri commerciali, negli autogril -, si era sempre alla ricerca di "possibili" - persone che erano servite come modelli per noi e i nostri amici.
Al di là di questi concetti base, tuttavia, la discussione era aperta. Tanto per cominciare, nessuno era d'accordo su cosa cercare quando si andava alla scoperta dei possibili. Alcuni studenti sostenevano che bisognava rintracciare una persona che avesse tra i venti e i trent'anni più di noi - all'incirca l'età che avrebbero potuto avere i nostri genitori. Altri al contrario ritenevano che fosse un atteggiamento troppo sentimentale. Perchè avrebbe dovuto esserci un salto di generazione "naturale" tra noi e i nostri modelli? Potevano aver usato bambini, vecchi, che differenza poteva fare? Altri ancora ribattevano che venivano impiegati modelli al meglio delle loro condizioni fisiche, ed ecco spiegato perchè era probabile che avessero l'età di un "genitore normale". Arrivati a questa conclusione, però, tutti noi avevamo la percezione di giungere su un terreno dove non volevamo addentrarci, così la discussione terminava in nulla.
Poi c'erano quelle domande sul perchè volessimo rintracciare i nostri prototipi. Una delle idee più brillanti al riguardo era che quando trovavi il tuo modello, potevi avere una visione del futuro."
....................................................................................................................
Non volevo dirvelo la prima volta che me ne avete parlato. Statemi bene a sentire, questa cosa non aveva nesun fondamento. Non usano mai, e dico mai, persone come quella donna. Pensateci. Perchè una come lei dovrebbe farlo? Lo sappiamo tutti, perchè allora non dirci la verità. Non siamo modellati su quel genere di.....
- Ruth - intervenni con fermezza. - Ruth, no.
Ma lei proseguì: - Lo sappiamo tutti. I nostri modelli sono i rifiuti del genere umano. Reietti, prostitute, alcolizzati, vagabondi. Lo sanno tutti, allora perchè non dircelo? Una donna come quella? Andiamo, su.
Al di là di questi concetti base, tuttavia, la discussione era aperta. Tanto per cominciare, nessuno era d'accordo su cosa cercare quando si andava alla scoperta dei possibili. Alcuni studenti sostenevano che bisognava rintracciare una persona che avesse tra i venti e i trent'anni più di noi - all'incirca l'età che avrebbero potuto avere i nostri genitori. Altri al contrario ritenevano che fosse un atteggiamento troppo sentimentale. Perchè avrebbe dovuto esserci un salto di generazione "naturale" tra noi e i nostri modelli? Potevano aver usato bambini, vecchi, che differenza poteva fare? Altri ancora ribattevano che venivano impiegati modelli al meglio delle loro condizioni fisiche, ed ecco spiegato perchè era probabile che avessero l'età di un "genitore normale". Arrivati a questa conclusione, però, tutti noi avevamo la percezione di giungere su un terreno dove non volevamo addentrarci, così la discussione terminava in nulla.
Poi c'erano quelle domande sul perchè volessimo rintracciare i nostri prototipi. Una delle idee più brillanti al riguardo era che quando trovavi il tuo modello, potevi avere una visione del futuro."
....................................................................................................................
Non volevo dirvelo la prima volta che me ne avete parlato. Statemi bene a sentire, questa cosa non aveva nesun fondamento. Non usano mai, e dico mai, persone come quella donna. Pensateci. Perchè una come lei dovrebbe farlo? Lo sappiamo tutti, perchè allora non dirci la verità. Non siamo modellati su quel genere di.....
- Ruth - intervenni con fermezza. - Ruth, no.
Ma lei proseguì: - Lo sappiamo tutti. I nostri modelli sono i rifiuti del genere umano. Reietti, prostitute, alcolizzati, vagabondi. Lo sanno tutti, allora perchè non dircelo? Una donna come quella? Andiamo, su.
mercoledì 25 maggio 2016
La guerriera dagli occchi verdi, Marco Rovelli
Avesta, figura epica di soldatessa kurda
Marco Rovelli ha scelto la forma narrativa del romanzo per
raccontare la vita di Avesta, nome di battaglia di una giovane donna e
combattente kurda ne La guerriera dagli occhi verdi (Giunti, pp.160, euro 16,50).
Il passo romanzesco permette di mescolare in modo riuscito il «prima»
e il «dopo» nella vita della ragazza: la sua infanzia, la famiglia e la
vita nel villaggio kurdo, un mondo traballante per i colpi della
Storia, ma pur sempre sicuro nelle sue misere e poche certezze, fino ad
arrivare alla scelta di combattere come estrema soluzione dopo
l’ennesimo sopruso delle autorità (in quel caso specifico turche) contro
un membro della propria famiglia. Un percorso simile a migliaia di
altri kurdi. Un percorso che – interiormente – può essere a sua volta
simile a quello di migliaia di altre persone. E quindi per Avesta si è
aperta la strada, la via, che conduce a liberare un popolo, a liberare
la parte femminile, ancora prima, di quel popolo. Un processo difficile,
complicato e sparpagliato perché i kurdi sono stati disseminati dalla
Storia tra Turchia, Siria e Iraq.
Tre zone al centro di cambiamenti epocali repentini, continui, contrassegnati da agguati, repressioni e campi di concentramento contemporanei, fino all’arrivo dei banditi fascisti del Daesh a complicare ancora di più un quadro già di per sé pericolante e insidioso.
L’arrivo sulla scena territoriale e storica di Daesh ha prodotto conseguenze di natura diverse: se da un lato ha rimesso tutto in discussione aumentando la pressione sui kurdi, dall’altro ha dato modo a questa straordinaria popolazione di tornare a mostrarsi al mondo nella sua originale e orgogliosa dignità: ha permesso alla cultura e al «romanticismo» kurdo di portare a conoscenza di tutti il modello politico democratico e confederale voluto da Ocalan e che ha trovato la sua estrema realizzazione vera, reale, fisica, plastica nel Rojava.
Marco Rovelli, scrittore, musicista, intellettuale a tutto tondo, ha scelto la forma narrativa per scavare nell’esperienza umana dei kurdi, tentando di sottrarla a una lettura storica – o peggio ancora solo geopolitica – ed elevandola dunque a qualcosa di umanamente percepibile come «universale», una lotta di tutti, non solo contro Daesh, ma anche contro il maschilismo, contro la guerra, contro le «autorità» (perfino quelle riconosciute da Europa e Nato, vedi la Turchia) ottuse e fascistoidi.
Rovelli sintetizza alcuni sentimenti più generali di Avesta e dei kurdi, in occasione dell’attacco di Daesh al campo di Mexmur: «Mexmur è il popolo in cammino verso la sua liberazione, è l’esodo in un deserto da dove, prima o poi, si giungerà alla terra non promessa, ma voluta e conquistata. Mexmur, infine, è la testimonianza suprema della volontà di vita degli umani».
Il passo, la «cifra» del romanzo è condivisibile ed empatico, unisce i sentimenti e le scricchiolanti certezze, sotto il peso degli occhi di Avesta, delle sue sofferenze da ragazzina, per finire in una morbida ma importante disciplina. Avesta la soldatessa, «dura senza perdere la tenerezza» come voleva il Che, una contemporanea paladina dei diritti del suo popolo, che schiacciati e martoriati, diventano quelli di tutti. E Avesta ben si presta all’epica di Rovelli, perché non è proprio una qualunque tra i kurdi: è una combattente e una comandante. Tanto che Foreign Policy, quando uno dei suoi giornalisti l’ha incontrata e intervistata, l’ha definita – già nel titolo – «badass»: una tipa tosta, dura, preparata e rigorosa. E proprio l’empatia che la forma narrativa crea, disturba forse l’epica di Avesta.
In alcuni tratti, le sue parole rischiano di apparire retoriche e vanno valutate, dal punto di vista del linguaggio, nella situazione in cui vengono dette. È il limite di un romanzo che scorre bene ma che forse abortisce qualcosa, come ad esempio il contraltare ad Avesta, ovvero la storia del combattente di Daesh. Ma forse è «il» limite del romanzo, che su fatti come quelli raccontati – bene – da Rovelli emerge in tutta la sua forza. Forse, per narrare storie così complesse, seppure così apparentemente note e comprensibili, le forme tradizionali di scrittura non bastano più.
[Simone Pieranni 25/05/2016]
Tre zone al centro di cambiamenti epocali repentini, continui, contrassegnati da agguati, repressioni e campi di concentramento contemporanei, fino all’arrivo dei banditi fascisti del Daesh a complicare ancora di più un quadro già di per sé pericolante e insidioso.
L’arrivo sulla scena territoriale e storica di Daesh ha prodotto conseguenze di natura diverse: se da un lato ha rimesso tutto in discussione aumentando la pressione sui kurdi, dall’altro ha dato modo a questa straordinaria popolazione di tornare a mostrarsi al mondo nella sua originale e orgogliosa dignità: ha permesso alla cultura e al «romanticismo» kurdo di portare a conoscenza di tutti il modello politico democratico e confederale voluto da Ocalan e che ha trovato la sua estrema realizzazione vera, reale, fisica, plastica nel Rojava.
Marco Rovelli, scrittore, musicista, intellettuale a tutto tondo, ha scelto la forma narrativa per scavare nell’esperienza umana dei kurdi, tentando di sottrarla a una lettura storica – o peggio ancora solo geopolitica – ed elevandola dunque a qualcosa di umanamente percepibile come «universale», una lotta di tutti, non solo contro Daesh, ma anche contro il maschilismo, contro la guerra, contro le «autorità» (perfino quelle riconosciute da Europa e Nato, vedi la Turchia) ottuse e fascistoidi.
Rovelli sintetizza alcuni sentimenti più generali di Avesta e dei kurdi, in occasione dell’attacco di Daesh al campo di Mexmur: «Mexmur è il popolo in cammino verso la sua liberazione, è l’esodo in un deserto da dove, prima o poi, si giungerà alla terra non promessa, ma voluta e conquistata. Mexmur, infine, è la testimonianza suprema della volontà di vita degli umani».
Il passo, la «cifra» del romanzo è condivisibile ed empatico, unisce i sentimenti e le scricchiolanti certezze, sotto il peso degli occhi di Avesta, delle sue sofferenze da ragazzina, per finire in una morbida ma importante disciplina. Avesta la soldatessa, «dura senza perdere la tenerezza» come voleva il Che, una contemporanea paladina dei diritti del suo popolo, che schiacciati e martoriati, diventano quelli di tutti. E Avesta ben si presta all’epica di Rovelli, perché non è proprio una qualunque tra i kurdi: è una combattente e una comandante. Tanto che Foreign Policy, quando uno dei suoi giornalisti l’ha incontrata e intervistata, l’ha definita – già nel titolo – «badass»: una tipa tosta, dura, preparata e rigorosa. E proprio l’empatia che la forma narrativa crea, disturba forse l’epica di Avesta.
In alcuni tratti, le sue parole rischiano di apparire retoriche e vanno valutate, dal punto di vista del linguaggio, nella situazione in cui vengono dette. È il limite di un romanzo che scorre bene ma che forse abortisce qualcosa, come ad esempio il contraltare ad Avesta, ovvero la storia del combattente di Daesh. Ma forse è «il» limite del romanzo, che su fatti come quelli raccontati – bene – da Rovelli emerge in tutta la sua forza. Forse, per narrare storie così complesse, seppure così apparentemente note e comprensibili, le forme tradizionali di scrittura non bastano più.
[Simone Pieranni 25/05/2016]
lunedì 23 maggio 2016
Introduzione alla staffetta di SILVIA
Adoro Will Shakespeare perché può dare origine a cose
come quella che potete vedere qui sul blog: un pezzo rap ispirato alla Dodicesima Notte. Con questo video
abbiamo aperto e chiuso la nostra staffetta di lettura a Lui dedicata.
Shakespeare funziona sempre e per tutti, nelle situazioni più impensabili.
Shakespeare è il poeta più letto, rappresentato,
sfruttato, citato e amato al mondo. E non sto parlando solo del Canone
Occidentale. Shakespeare vende nei teatri e nelle librerie di tutto il mondo,
sempre e ovunque.
Il cinema non ha mai smesso di pescare nel repertorio
shakesperiano, e mai smetterà. Scrittori contemporanei lo riscrivono, tutte le
arti lo rileggono: pittura, opera, musica, balletto.
Ma Shakespeare non ci cattura solo con l’ovvio della
poesia: c’è anche tutto quello che potremmo definire l’indotto.
Ci sono
libri di storia che ruotano attorno al suo lavoro (es James Shapiro: 1599
e 1606);
di recente è stato pubblicato un libro che si intitola Shakespeare’s Binding Language
(John Kerrigan) e che descrive i voti, i giuramenti, le
promesse, in amore, in politica, nella vendetta e quindi i legami della legge
nelle opere di Shakespeare.
Ma non solo: c’è in giro un bellissimo libro
illustrato con tavole botaniche dell’epoca che si intitola A Shakespearean Botanical (di
Margaret Willes, storica del giardinaggio), costruito su citazioni dalle opere
del Bardo che parlano di piante.
E c’è la scienza: Shakespeare è vissuto durante quella
che oggi viene riconosciuta come la prima fase della Rivoluzione Scientifica,
in un momento di grandi cambiamenti culturali. Secondo Dan Falk, l’autore di The
Science of Shakespeare, il Bardo conosceva il lavoro degli astronomi
suoi contemporanei, Galileo incluso. E applicava il metodo scientifico alle proprie
opere, osservando la natura umana attentamente proprio come facevano gli
astronomi con il cielo.
E si potrebbe andare avanti all’infinito, chiedendosi il
perché dell’influenza e della modernità di Shakespeare.
Con intuizione fulminante, un suo geniale contemporaneo,
Ben Johnson, lo definiva un autore for
all time, per qualsiasi tempo.
Per definirlo, io vorrei citare lo stesso Shakespeare, i
versi di Antonio e Cleopatra con i
quali Enobarbo descrive Cleopatra:
Age cannot wither her, nor custom stale / Her infinite variety
Mettete la poesia di Shakespeare al posto di Cleopatra:
l’età non può appassirle, / né l’abitudine render stantie /le sue grazie, di varietà infinita
Harold Bloom dice che S. ha inventato l’umanità, cioè:
solo con lui i personaggi sono diventati esseri umani completi, realistici e
moderni, citando Amleto per tutti.
Una compagnia del Globe Theatre di Londra ha viaggiato in
tourneé per due anni (dal 23 aprile 2014 al 23 aprile 2016) e ha recitato
l’Amleto in 197 paesi, in teatri tradizionali, in spazi aperti, all’assemblea
dell’ONU, in 5 campi profughi, nella giungla di Calais, tra le rovine Maya in
Honduras, sono stati i primi a mettere uomini e donne insieme su di un
palcoscenico in Arabia Saudita e sempre con grande successo di critica e di
pubblico. Perché Amleto è tutti noi, con i nostri dubbi e i nostri tormenti,
con i nostri rapporti difficili con gli altri, con la nostra paura di
sbagliare.
E se Amleto è il prototipo dell’uomo moderno, va
ricordato che Shakespeare è anche l’autore di un’intera galleria di donne
nuove, moderne e indipendenti. Non solo nelle opere teatrali, ma anche nei
sonetti: a questo proposito non posso lasciar fuori uno dei miei sonetti
preferiti, il 130, certo uno dei più divertenti. Qui Shakespeare fa una vera e
propria rivoluzione anti petrarchesca e riporta il rapporto uomo-donna su di un
piano di realtà. Per me è una bellissima dichiarazione d’amore.
Sono stati letti brani da:
· Amleto
· Macbeth
· Molto Rumore per Nulla
· Troilo e Cressida
· Misura per Misura
· Antonio e Cleopatra
· Otello
· Giulio Cesare
· Thomas More
· Shakespeare di
Anthony Burgess
· I
Sonetti: 18, 29, 33, 44, 71, 130
· Sono
stati proiettati video del Globe Theatre di Londra e del Sonnet Project New
York City.
· Abbiamo
parlato dei più recenti testi su Shakespeare
Sono intervenuti studenti del Liceo Classico Celio e del
Liceo Scientifico Paleocapa, ragazzi della Cooperativa Porto Alegre, Claudio
Ronda della Compagnia di balletto Fabula Saltica, i lettori del Gruppo di
Lettura Avvisi al Navigante e
semplici amanti di Shakespeare.
sabato 21 maggio 2016
La trappola della verginità
Si intitola Dio odia le donne (pp. 2014, euro 18) ed è il
nuovo libro di Giuliana Sgrena pubblicato di recente da Il Saggiatore.
Fin dall’introduzione si apprende che non si tratta di un pamphlet, né è
un lavoro che desideri offrire una nuova esegesi delle fonti o una
disquisizione teologica. La disposizione attraverso cui leggere questo
volumetto, agile e al contempo solido, equipaggiato di dati ma godibile
nella scrittura tagliente e svelta, si adegua allora a ciò che la stessa
Sgrena dichiara di aver effettuato: una narrazione di carattere
esperienziale, frutto di una ricerca personale che l’ha portata ad
analizzare l’immaginario e le ricadute sociali che emergono nel
confronto tra le tre religioni monoteiste e il sesso femminile.
La ricognizione è ampia e si innerva nella stessa biografia dell’autrice. A essere messe a nudo non sono solo le contraddizioni interne alle singole religioni che, secondo Sgrena, hanno sostenuto il patriarcato; ciò che appare è la manipolazione costante della laicità e dei suoi simboli da parte di chi perpetra e piega a proprio uso e consumo testi, scritture e fonti spesso lette malamente con l’unico scopo di controllare e mondare la sessualità e i corpi. In questo senso, il libro colpisce fin dall’immagine del fotografo russo Oleg Dou scelta per la copertina. Un primo piano di una figura non ben identificabile e liscia nei lineamenti che allude al nome dell’opera, «nun» ovvero suora, intercettabile solo dal copricapo.
La figura ambivalente della suora apre e chiude il volume, dapprima legata all’infanzia di Sgrena che si è misurata con delle scuole cattoliche e che, in considerazione del padre comunista, veniva costantemente avvisata delle preghiere per lei. Così alla fine, quando racconta che una suora incontrata per caso le rammenta che in molte e molti hanno pregato durante la sua prigionia. Ma lei no, certo grata per la solidarietà, tuttavia non ha mai pregato neppure in quelle ore di dolore: «anche quando sentivo la morte vicina, ogni volta che i miei guardiani giravano la chiave nella toppa della porta e pensavo potesse essere arrivata la mia fine, quando avevo paura all’idea che mi potessero sgozzare». Il punto è è complesso, perché a restituire un approccio «neutrale» e da atea sulle religioni è una donna che ha contezza del suo sesso. E che osserva i meccanismi e gli attraversamenti storico-politici di oppressione senza per questo tacere i guadagni delle forme di autodeterminazione e libertà femminili, con quel rovesciamento dello sguardo quando negli anni ’70 racconta dei primi gruppi di self-help dopo la dirompenza del ’68.
Il libro si dipana per temi, ciascuno dei quali è sgranato al dritto e al rovescio. Ciò che rappresenta oggi la verginità non è più quella restituitaci da Margaret Mead; risente invece, secondo i vari e distinti contesti, di ulteriori e ben più terrestri storture nella sua appropriazione. Lo racconta la giornalista che ha intervistato alcune giovani musulmane e che hanno accusato il disagio di non poter vivere con agio la propria sessualità. Esistono in questa configurazione, ad altre latitudini, vere e proprie «fabbriche della verginità», che propongono per esempio l’imenoplastica; a Parigi nella clinica di Marc Abecassis, per 2000 dollari, o dalla società Gigimo, con sede a Shangai, che confeziona per 15 dollari un imene artificiale con accluse gocce rosse, simili al sangue.
Al di là di queste annotazioni, il tema della verginità richiama quello più vasto del controllo proprietario della sessualità femminile; i dati sconcertanti sono pubblicati nel 2013 dall’università di Cambridge dalla rivista di criminologia Aggressive Behaviour, secondo uno studio condotto in Giordania in cui un terzo degli studenti ascoltati si sono dichiarati d’accordo con il delitto d’onore. Retaggi culturali duri a morire, come quello legato alla piaga ancora devastante delle mutilazioni genitali. Sgrena riferisce i dati di ciò che accade ancora in Somalia, nonostante la strenua battaglia intrapresa da Edna Adan Ismail che da parecchi anni riesce a sottrarre molte bambine a questo efferato rito di iniziazione, insieme ad altre attiviste in tutto il mondo; basti pensare alle testimonianze della scrittrice egiziana Nawal El Saadawi.
L’appropriazione della sessualità si attaglia, drammaticamente, a quella dell’aborto, con la presenza degli obiettori di coscienza che hanno contribuito allo svuotamento qui in Italia della 194. Se allora è in nome della fede che si sdoganano pratiche simili, sarà il caso di soffermarsi ancora e di discutere nel profondo altri nodi, ancora irrisolti. Perché all’odio, tutto umano, si possa rispondere con l’agire politico.
[Alessandra Pigliaru 21/05/2016]
La ricognizione è ampia e si innerva nella stessa biografia dell’autrice. A essere messe a nudo non sono solo le contraddizioni interne alle singole religioni che, secondo Sgrena, hanno sostenuto il patriarcato; ciò che appare è la manipolazione costante della laicità e dei suoi simboli da parte di chi perpetra e piega a proprio uso e consumo testi, scritture e fonti spesso lette malamente con l’unico scopo di controllare e mondare la sessualità e i corpi. In questo senso, il libro colpisce fin dall’immagine del fotografo russo Oleg Dou scelta per la copertina. Un primo piano di una figura non ben identificabile e liscia nei lineamenti che allude al nome dell’opera, «nun» ovvero suora, intercettabile solo dal copricapo.
La figura ambivalente della suora apre e chiude il volume, dapprima legata all’infanzia di Sgrena che si è misurata con delle scuole cattoliche e che, in considerazione del padre comunista, veniva costantemente avvisata delle preghiere per lei. Così alla fine, quando racconta che una suora incontrata per caso le rammenta che in molte e molti hanno pregato durante la sua prigionia. Ma lei no, certo grata per la solidarietà, tuttavia non ha mai pregato neppure in quelle ore di dolore: «anche quando sentivo la morte vicina, ogni volta che i miei guardiani giravano la chiave nella toppa della porta e pensavo potesse essere arrivata la mia fine, quando avevo paura all’idea che mi potessero sgozzare». Il punto è è complesso, perché a restituire un approccio «neutrale» e da atea sulle religioni è una donna che ha contezza del suo sesso. E che osserva i meccanismi e gli attraversamenti storico-politici di oppressione senza per questo tacere i guadagni delle forme di autodeterminazione e libertà femminili, con quel rovesciamento dello sguardo quando negli anni ’70 racconta dei primi gruppi di self-help dopo la dirompenza del ’68.
Il libro si dipana per temi, ciascuno dei quali è sgranato al dritto e al rovescio. Ciò che rappresenta oggi la verginità non è più quella restituitaci da Margaret Mead; risente invece, secondo i vari e distinti contesti, di ulteriori e ben più terrestri storture nella sua appropriazione. Lo racconta la giornalista che ha intervistato alcune giovani musulmane e che hanno accusato il disagio di non poter vivere con agio la propria sessualità. Esistono in questa configurazione, ad altre latitudini, vere e proprie «fabbriche della verginità», che propongono per esempio l’imenoplastica; a Parigi nella clinica di Marc Abecassis, per 2000 dollari, o dalla società Gigimo, con sede a Shangai, che confeziona per 15 dollari un imene artificiale con accluse gocce rosse, simili al sangue.
Al di là di queste annotazioni, il tema della verginità richiama quello più vasto del controllo proprietario della sessualità femminile; i dati sconcertanti sono pubblicati nel 2013 dall’università di Cambridge dalla rivista di criminologia Aggressive Behaviour, secondo uno studio condotto in Giordania in cui un terzo degli studenti ascoltati si sono dichiarati d’accordo con il delitto d’onore. Retaggi culturali duri a morire, come quello legato alla piaga ancora devastante delle mutilazioni genitali. Sgrena riferisce i dati di ciò che accade ancora in Somalia, nonostante la strenua battaglia intrapresa da Edna Adan Ismail che da parecchi anni riesce a sottrarre molte bambine a questo efferato rito di iniziazione, insieme ad altre attiviste in tutto il mondo; basti pensare alle testimonianze della scrittrice egiziana Nawal El Saadawi.
L’appropriazione della sessualità si attaglia, drammaticamente, a quella dell’aborto, con la presenza degli obiettori di coscienza che hanno contribuito allo svuotamento qui in Italia della 194. Se allora è in nome della fede che si sdoganano pratiche simili, sarà il caso di soffermarsi ancora e di discutere nel profondo altri nodi, ancora irrisolti. Perché all’odio, tutto umano, si possa rispondere con l’agire politico.
[Alessandra Pigliaru 21/05/2016]
mercoledì 18 maggio 2016
lunedì 16 maggio 2016
domenica 15 maggio 2016
sabato 14 maggio 2016
venerdì 13 maggio 2016
Romeo e Giulietta
ROMEO - (A Giulietta, prendendole la mano) Se con indegna mano profano questa tua santa reliquia (è il peccato di tutti i cuori pii), queste mie labbra, piene di rossore, al pari di contriti pellegrini, son pronte a render morbido quel tocco con un tenero bacio.
GIULIETTA - Pellegrino, alla tua mano tu fai troppo torto, ché nel gesto gentile essa ha mostrato la buona devozione che si deve. Anche i santi hanno mani, e i pellegrini le possono toccare, e palma a palma è il modo di baciar dei pii palmieri.
ROMEO - Santi e palmieri non han dunque labbra?
GIULIETTA - Sì, pellegrino, ma quelle son labbra ch’essi debbono usar per la preghiera.
ROMEO - E allora, cara santa, che le labbra facciano anch’esse quel che fan le mani: esse sono in preghiera innanzi a te, ascoltale, se non vuoi che la fede volga in disperazione.
GIULIETTA - I santi, pur se accolgono i voti di chi prega, non si muovono.
ROMEO - E allora non ti muovere fin ch’io raccolga dalle labbra tue l’accoglimento della mia preghiera.
(La bacia)
Ecco, dalle tue labbra ora le mie purgate son così del lor peccato.
GIULIETTA - Ma allora sulle mie resta il peccato di cui si son purgate quelle tue!
ROMEO - O colpa dolcemente rinfacciata! Il mio peccato succhiato da te! E rendimelo, allora, il mio peccato.
(La bacia ancora)
GIULIETTA - Sai baciare nel più perfetto stile.
NUTRICE - (È stata ad osservare da lontano, poi s’avvicina) Tua madre vuol parlarti, padroncina.
ROMEO - Chi è sua madre?
NUTRICE - Ebbene, giovanotto, è la padrona qui di questa casa; una buona signora, saggia e onesta; e la figliola, quella damigella con cui discorrevate poco fa, gliel’ho allattata ed allevata io. E quell’uomo che saprà fare tanto da prenderla per moglie, giuraddio, ne avrà dei bei sonanti quattrinelli!
(Si allontana con Giulietta)
ROMEO - (Tra sé) Ella è una Capuleti!... Ah, duro prezzo ch’io sarò tratto a pagare per questo! Do in pegno la mia vita a una nemica!
giovedì 12 maggio 2016
martedì 10 maggio 2016
Otello
Potentissimi, gravi e reverendi signori del Consiglio, nobilissimi e buoni miei padroni, ch’io abbia tratta via dalla sua casa la figlia a questo vecchio, è verità; vero altresì ch’io l’ho condotta in moglie. Qui comincia e finisce la mia colpa.
Non più di questo. Il mio parlare è rozzo, ed assai scarsamente provveduto
del soffice fraseggio della pace; dacché queste mie braccia, già dal tempo
che avevano il vigore dei sette anni fino all’incirca a nove mesi fa, hanno compiuto in un campo attendato le loro azioni più impegnative; ed io di questo nostro vasto mondo posso dir poco che non sia materia d’avvisaglie di guerra e fatti d’arme.
Perciò ben poco mi potrà giovare ch’io parli a perorare in mia difesa. Pure, con vostra graziosa licenza, vi dirò, con parole disadorne, il corso del mio amore, per intero; con quali droghe, con quali incantesimi, e scongiuri, e poteri d’arti magiche - perché di tanto sono qui accusato - io abbia vinto il cuore di sua figlia.
Il padre suo m’aveva molto caro. M’invitò spesso a casa, ed ogni volta mi domandava che gli raccontassi di me, della mia vita, d’anno in anno: gli assedii, le battaglie, le fortune attraverso le quali son passato. Ed io ripercorrevo la mia storia dai giorni della prima fanciullezza fino al momento stesso ch’ero lì con lui che mi chiedeva di narrarla: e là mi dilungavo a raccontargli delle mie sorti molto avventurose, di commoventi fatti in mare e in terra: di quando per un pelo ero sfuggito all’imminente breccia della morte; di quando, catturato prigioniero
da un nemico arrogante e da questi venduto come schiavo, mi riscattai, e quel che vidi e feci nei casi occorsimi durante il viaggio: antri profondi e preziosi deserti, aspre pietraie, rupi, erte montagne dalle cime che s’ergon fino al cielo
(ché tante furono le mie esperienze) gli dovetti descrivere: e i cannibali, che si sbranan fra loro, e gli antropofagi, cui cresce il capo di sotto alle spalle.
Desdemona ascoltava seria e attenta anch’ella; ma le succedeva spesso d’esser distolta da cure domestiche; e, poi che in fretta le avesse sbrigate, tornava nuovamente ad ascoltare; e divorava quasi con l’orecchio quanto andavo dicendo: il che osservato, io colsi un giorno l’attimo per estrarle dal cuore la preghiera ch’io volessi narrarle ancor daccapo la storia delle mie peripezie
ch’ella aveva ascoltato solo a pezzi ed a forza distolta. Acconsentii, e spesso le truffai più d’una lacrima col narrarle dei colpi di sventura sofferti dalla mia giovane età.
E, terminato ch’ebbi la mia storia, quasi a compenso di tante mie pene ella mi offerse un mondo di sospiri; giurò ch’era una storia molto strana, meravigliosamente miserevole, meravigliosamente commovente; ella avrebbe voluto non udirla, e tuttavia sentiva il desiderio che il cielo avesse fatto lei tal uomo.
Mi ringraziò e mi disse perentoria che se mai avess’io per avventura avuto tra gli amici miei qualcuno che si fosse di lei innamorato, gli insegnassi a narrarle la mia storia, ché quello solo l’avrebbe sedotta...
A questo punto io mi dichiarai: ella m’amò pei corsi miei perigli, ed io l’amai per quella sua pietà.
Ecco: tutta la mia stregoneria, gli incantesimi miei, è tutto qui.
Ma ella viene. Mi sia testimone.
lunedì 9 maggio 2016
domenica 8 maggio 2016
Amleto
Essere, o non essere, questo è il dilemma: se sia più nobile nella mente soffrire i colpi di fionda e i dardi dell’oltraggiosa fortuna o prendere le armi contro un mare di affanni e, contrastandoli, porre loro fine? Morire, dormire… nient’altro, e con un sonno dire che poniamo fine al dolore del cuore e ai mille tumulti naturali di cui è erede la carne: è una conclusione da desiderarsi devotamente. Morire, dormire. Dormire, forse sognare. Sì, qui è l’ostacolo, perché in quel sonno di morte quali sogni possano venire dopo che ci siamo cavati di dosso questo groviglio mortale deve farci riflettere. È questo lo scrupolo che dà alla sventura una vita così lunga. Perché chi sopporterebbe le frustate e gli scherni del tempo, il torto dell’oppressore, la contumelia dell’uomo superbo, gli spasimi dell’amore disprezzato, il ritardo della legge, l’insolenza delle cariche ufficiali, e il disprezzo che il merito paziente riceve dagli indegni, quando egli stesso potrebbe darsi quietanza con un semplice stiletto? Chi porterebbe fardelli, grugnendo e sudando sotto il peso di una vita faticosa, se non fosse che il terrore di qualcosa dopo la morte, il paese inesplorato dalla cui frontiera nessun viaggiatore fa ritorno, sconcerta la volontà e ci fa sopportare i mali che abbiamo piuttosto che accorrere verso altri che ci sono ignoti? Così la coscienza ci rende tutti codardi, e così il colore naturale della risolutezza è reso malsano dalla pallida cera del pensiero, e imprese di grande altezza e momento per questa ragione deviano dal loro corso e perdono il nome di azione.
sabato 7 maggio 2016
venerdì 6 maggio 2016
domenica 1 maggio 2016
1 maggio - Il manifesto dei robot per il reddito di base
Primo maggio con i robot che chiedono un reddito di base per gli umani. È accaduto a Zurigo dove ieri centinaia di robot hanno manifestato nella capitale finanziaria svizzera accompagnati da centinaia di sostenitori. Insieme hanno chiesto l’introduzione di un reddito di base incondizionato: l’erogazione di un beneficio economico senza obbligo di accettare un lavoro. La trovata situazionista fa parte della campagna referendaria in vista del voto del prossimo 5 giugno. La Svizzera, infatti, sarà il primo paese al mondo a votare un referendum per introdurre la forma più universale del reddito: non minimo, nè di cittadinanza, ma di base.
Tutti coloro che risiedono nel paese elvetico avranno diritto a ricevere il sussidio, indipendentemente dalla nazionalità. La storia dei robot che prendono parola è iniziata al forum di Davos di quest’anno. «Mentre noi faremo i lavori più faticosi, noiosi e ripetitivi, gli umani saranno liberi di creare, socializzare, inventare nuove attività utili per la società – hanno scrittogli attivisti della campagna in un «manifesto dei robot» diventato celebre – Molte persone hanno bisogno di un reddito. La nostra missione è fornire alle persone beni e servizi. Il compito della politica è fornire alle persone un reddito di base incondizionato». È un modo singolare per spiazzare il dibattito in corso sul ruolo della cibernetica, automazione, piattaforme online, specializzazione flessibile nel ridurre – o sostituire completamente – la parte del lavoro umano nella creazione delle cose, nella distribuzione e nel marketing o nella comunicazione.
«Abbiamo una cattiva coscienza. La gente ha paura di noi e ha paura del futuro – si legge nell’appello-manifesto – È preoccupata perché perderà il posto di lavoro e quindi lo scopo della sua esistenza. In Europa vediamo che soprattutto i giovani non trovano lavoro, in Italia è il 40%. Prospettiva: Nessun futuro!».
Una profezia che oggi fa tremare le radici dell’Io, oltre a diffondere un clima depressivo che tende alla paura. È saltato il legame tra lavoro e salario: essere impiegati oggi non necessariamente comporta una remunerazione, né una pensione. Se, come sostiene il presidente dell’Inps Tito Boeri lavoreremo fino a 75 anni per prendere una pensione inferiore a quella minima attuale, questo significa che è venuta meno l’identità stessa di ciò che nel Novecento è stato chiamato «lavoro». Due sono i fattori che lo hanno cambiato profondamente: l’aumento del tasso di sostituzione da parte delle macchine e del web e il lavoro digitale in cui emerge qualcosa di rimosso: il lavoro servile. Il primo fattore è stato spiegato da Erik Brynjolfsson e Andrew Mcafee ne La nuova rivoluzione delle macchine.
Nel 2010 Istagram contava su un nucleo di 15 lavoratori che ha prodotto una app usata da 130 milioni di persone per condividere 16 miliardi di fotografie. La Kodak, fallita nel 2012, pilastro dell’industria fotografica, impiegava fino a 145 mila persone. In pratica, oggi 15 persone possono fare il lavoro di 145 mila. L’esempio può essere fuorviante: Istagram è una piattaforma di condivisione, la Kodak era un’azienda che fabbricava pellicole e apparecchi fotografici.
Ciò che scompare non è il lavoro – hanno scritto Stanley Aronowitz e William Di Fazio in The Jobless Future, un libro che ha fatto epoca quando uscì nel 1994 – ma i posti di lavoro, assorbiti e trasformati dal lavoro digitale. È scomparsa l’idea che il lavoro a tempo indeterminato avrebbe portato alla pensione, all’assicurazione sanità. Sfumato è il concetto di «carriera» da cui il lavoratore poteva aspettarsi un salario crescente e maggiori responsabilità. Oggi esistono milioni di disoccupati, scoraggiati, sottoccupati, lavoratori in nero e in tutte le tonalità del grigio. Nella condizione da quinto stato si ritrovano oggi sia la ex classe media salariato che il ceto medio delle professioni, senza contare quella peculiare esperienza dei lavoratori poveri raccontati da Chiara Saraceno in Il lavoro non basta. Il meglio che oggi ci si può augurare è la garanzia di un impiego in cambio di un reddito limitato.
In Italia con i voucher si è affermata nel 2016 la terza generazione del precariato: negli anni Novanta li chiamavano «flessibili», negli anni zero-zero a termine o interinali, oggi i lavoratori sono scontrini che si comprano dal tabaccaio. I lavoratori vivono in un turn-over vorticoso di contratti e posizioni lavorative: un voucher può portare a un contratto a termine, a un apprendistato e infine alla partita Iva. E poi alla disoccupazione. Punto e a capo. Il giro della ruota ricomincia.
Guy Standing, in Diventare cittadini, ha definito questa dimensione del lavoro anonimo, ed alto tasso di intercambiabilità, «crowd-work»: il «lavoro folla». Si tratta del lavoro a chiamata di nuova generazione: disponibilità in rete a tutte le ore, tutti i giorni, per compensi minimi. Ciò che si vende è la propria disponibilità, il proprio tempo per essere investiti di un nuovo incarico. Oltre al cellulare, simbolo vent’anni fa del lavoro a chiamata di prima generazione, oggi c’è il profilo su facebook o twitter. È cambiato anche il committente: prima era l’agenzia interinale a «chiamare». Oggi l’intermediario può essere anche una piattaforma online: Uber, ad esempio.
Nel lavoro-folla il lavoratore è indistinto, merce pura. Potenzialmente, tutti potrebbero svolgerlo. Anche una macchina. Questa mescolanza tra lavoro servile e automazione integrale è visibile nella logistica: turni da 80 ore a settimana, controllo ossessivo, velocizzazione della produttività attraverso le macchine, come raccontato in un’inchiesta sul New York Times il 15 agosto 2015. Che il reddito di base sia l’esito dell’automazione del lavoro non è affatto scontato.
Quando i posti di lavoro saranno stati sostituiti integralmente dai robot, il lavoro resterà un ricatto quotidiano. È incoraggiante sapere i robot saranno ancora dalla parte dell’autodeterminazione del lavoro vivo e dalla liberazione dal lavoro servile. Agli uomini spetterà crederci, uno di questi giorni.
*** 30 aprile, la manifestazione dei robot per il reddito di base a Zurigo
[Roberto Ciccarelli da "il Manifesto" del 1 maggio 2016]
Iscriviti a:
Post (Atom)
Commenti
il 12/08 SR ha commentato Non credo che D'Avenia possa far parte del nostro blog. Certo i suoi libri sono best-sellers tra gli adolescenti, e probabilmente hanno il merito di avviare qualche giovane alla lettura, ma la banalità delle situazioni e del linguaggio non permettono di considerare questi testi letteratura. Diciamo che sono testi "di servizio", nella migliore delle ipotesi. su Prossimamente
il 28/02 Ida ha commentato Grazie Roberta per aver riaperto il blog.Trovo che è un modo per uscire dalla solitudine delle letture personali.Scrivere e leggere accanto, trovo che è un bel modo per parlarci e parlarmi. su Chi siamo
il 14/05 SR ha commentato Purtroppo J.K.J. non sembra più funzionare con le ultime generazioni: un tentativo di leggere a scuola Three Men In a Boat è finito miseramente in noia. I ragazzi non capivano cosa c'era da ridere e io non capivo perché non capivano. Tristissimo. Jerome per me è finito in quell'armadio dove tengo gli autori speciali che voglio proteggere dagli studenti... su Jerome K. Jerome, fare ridere l’uomo moderno, spaventato
il 29/02 Ida ha commentato A proposito di classifiche: "Oggi se vai al cinema devi entrare a un’ora fissa, quando il film incomincia, e appena incomincia qualcuno ti prende per così dire per mano e ti dice cosa succede. Ai miei tempi si poteva entrare al cinema a ogni momento, voglio dire anche a metà dello spettacolo, si arrivava mentre stavano succedendo alcune cose e si cercava di capire che cosa era accaduto prima (poi, quando il film ricominciava dall’inizio, si vedeva se si era capito tutto bene - a parte il fatto che se il film ci era piaciuto si poteva restare e rivedere anche quello che si era già visto). Ecco, la vita è come un film dei tempi miei. Noi entriamo nella vita quando molte cose sono già successe, da centinaia di migliaia di anni, ed è importante apprendere quello che è accaduto prima che noi nascessimo; serve per capire meglio perché oggi succedono molte cose nuove." Anch'io,come U.ECO sono andata al cinema nel modo ricordato e quindi io amo ricordare e vorrei tanto poter fare liste di su Chi siamoil 28/02 Ida ha commentato Grazie Roberta per aver riaperto il blog.Trovo che è un modo per uscire dalla solitudine delle letture personali.Scrivere e leggere accanto, trovo che è un bel modo per parlarci e parlarmi. su Chi siamo