«Credo che l’essenza di questo
romanzo sia universale, biblica: sono forse io il custode di mio
fratello?» – spiega Ayelet Gundar Goshen se le si chiede quanto di
specificatamente israeliano vi sia nel suo Svegliare i leoni edito in questi giorni da Giuntina (pp. 318 , euro 17, traduzione di Ofra Bannet e Raffaella Scardi).
LA DOMANDA è quella che
Caino fa al Padre Eterno dopo l’uccisione di Abele ma l’interrogativo è
rigorosamente laico. «Il protagonista è un dottore israeliano che
lascia un immigrato sul lato della strada dopo averlo investito –
prosegue la scrittrice riferendosi alla trama del romanzo – ma potrebbe
essere facilmente un dottore italiano». Il medico di cui la giovane
scrittrice racconta è il neurochirurgo Eitan da poco allontanato
dall’ospedale di Tel Aviv per aver scoperto che il professore di cui è
stato allievo era corrotto. E, come a volte succede, è lui ad essere
stato cacciato e inviato con moglie e due figli ad espiare la sua onestà
a Beer Sheva, a sud del paese, ai margini del deserto.
EITAN CORRE con la
macchina dopo un turno di notte e proprio mentre «stava giusto pensando
di non aver mai visto luna più bella» – musica a palla e il fresco che
finalmente allevia l’arsura di sabbia – «investe un uomo».
Nel romanzo la storia di Eitan, onesto e retto, inizia e finisce qui: perché Eitan lascia l’uomo ai margini della strada, a finire di morire da solo. Spera che il mondo si congeli, che sia possibile tornare indietro ma, ovviamente, non è così.
«Quando nelle interviste mi domandano cosa si può imparare della mentalità israeliana dal romanzo – prosegue Gundar-Goshen – dico che spero che leggendolo le persone imparino più su sé stesse che sul popolo israeliano. Sempre, quando leggiamo un libro scritto in un luogo molto lontano da noi, possiamo pensare che sia su di loro. Invece è sempre su di noi. Io ho voluto che i lettori finissero il libro con questa domanda in testa: e se fosse successo a me di guidare verso la mia famiglia nel cuore della notte, colpire un rifugiato senza nome, uno tra altri mille, uno di quelli che pulisce al supermercato e che tanto nessuno lo saprebbe mai – sono assolutamente sicuro che non fuggirei anche io?». Disposti a cogliere la valenza universale della questione si è pronti a passare oltre quando Gundar-Goshen aggiunge: «Però è anche un romanzo molto israeliano. Circa settantamila, centomila africani sono entrati illegalmente in Israele negli ultimi dieci anni in cerca di salvezza. Per un paese piccolo questi sono grandi numeri. Arrivano attraversando il deserto, percorrendo la stessa strada che l’Israele biblica ha percorso dalla fuga dall’Egitto. Questo viaggio mitico degli ebrei in fuga dalla schiavitù è oggi il viaggio dei profughi africani verso la terra promessa. Una volta in Israele molti di loro vengono arrestati e messi in un centro di detenzione».
Nel romanzo la storia di Eitan, onesto e retto, inizia e finisce qui: perché Eitan lascia l’uomo ai margini della strada, a finire di morire da solo. Spera che il mondo si congeli, che sia possibile tornare indietro ma, ovviamente, non è così.
«Quando nelle interviste mi domandano cosa si può imparare della mentalità israeliana dal romanzo – prosegue Gundar-Goshen – dico che spero che leggendolo le persone imparino più su sé stesse che sul popolo israeliano. Sempre, quando leggiamo un libro scritto in un luogo molto lontano da noi, possiamo pensare che sia su di loro. Invece è sempre su di noi. Io ho voluto che i lettori finissero il libro con questa domanda in testa: e se fosse successo a me di guidare verso la mia famiglia nel cuore della notte, colpire un rifugiato senza nome, uno tra altri mille, uno di quelli che pulisce al supermercato e che tanto nessuno lo saprebbe mai – sono assolutamente sicuro che non fuggirei anche io?». Disposti a cogliere la valenza universale della questione si è pronti a passare oltre quando Gundar-Goshen aggiunge: «Però è anche un romanzo molto israeliano. Circa settantamila, centomila africani sono entrati illegalmente in Israele negli ultimi dieci anni in cerca di salvezza. Per un paese piccolo questi sono grandi numeri. Arrivano attraversando il deserto, percorrendo la stessa strada che l’Israele biblica ha percorso dalla fuga dall’Egitto. Questo viaggio mitico degli ebrei in fuga dalla schiavitù è oggi il viaggio dei profughi africani verso la terra promessa. Una volta in Israele molti di loro vengono arrestati e messi in un centro di detenzione».
Ma Beer Sheva, nella realtà come nel
romanzo, non è solo come Lampedusa per l’Italia, porta di ingresso alla
fuga alla disperazione: «Non è infatti l’avamposto che accoglie l’arrivo
dei migranti ma è la più grande città del Neghev, il deserto
israeliano. È il cortile sul retro di Israele dove la povertà e il
crimine sono più elevati che a Tel Aviv e a Gerusalemme. Eppure il
deserto non è solo geograficamente distante, lo è anche
psicologicamente: noi non pensiamo mai ai beduini o ai profughi
africani, sono in fondo ai nostri pensieri. E non solo, il deserto oltre
ad essere geograficamente e psicologicamente una periferia, è anche la
metafora di quell’area della nostra coscienza che è intoccabile e
nascosta, dove non avremmo mai il coraggio di andare».
AYELET GUNDAR-GOSHEN è
laureata in psicologia clinica all’Università di Tel Aviv, columnist di
uno dei principali quotidiani israeliani ed è impegnata nel movimento
per i diritti civili. Svegliare i leoni è il suo secondo romanzo dopo
Una notte soltanto, Markovich pubblicato anch’esso da Giuntina due anni
fa, e deve il proprio titolo a una poesia in ebraico la cui traduzione
suona «Noi siamo così pazzi che i leoni ruggiscono in noi tutta la
notte».
«Mi piaceva l’idea di un predatore che dorme dentro di noi e che si sveglia nella notte. È un poema molto sensuale, non parla di istinti brutali e feroci ma della vita che non conosci, quella che incontri soltanto nei tuoi sogni. Infatti – continua Ayelet – anche se Eitan pensa di conoscere la mente umana, in fondo fa il neurochirugo, la verità è che non conosce nemmeno sé stesso. Pensa di essere un brav’uomo, un medico che salva vite umane e che vota per un partito progressista. Come la maggior parte di noi ha un’idea molto precisa di che tipo di persona sia, ma in realtà non sappiamo affatto chi siamo fino al momento in cui ci troviamo in una situazione estrema. Se gli si chiedesse durante un pranzo con gli amici se sarebbe capace di lasciare un uomo morente sul ciglio della strada Eitan probabilmente direbbe di no. Ma quando accade compie una scelta e la sua fiducia nell’essere un brav’uomo è una sorta di hybris, e viene punito per questo».
«Mi piaceva l’idea di un predatore che dorme dentro di noi e che si sveglia nella notte. È un poema molto sensuale, non parla di istinti brutali e feroci ma della vita che non conosci, quella che incontri soltanto nei tuoi sogni. Infatti – continua Ayelet – anche se Eitan pensa di conoscere la mente umana, in fondo fa il neurochirugo, la verità è che non conosce nemmeno sé stesso. Pensa di essere un brav’uomo, un medico che salva vite umane e che vota per un partito progressista. Come la maggior parte di noi ha un’idea molto precisa di che tipo di persona sia, ma in realtà non sappiamo affatto chi siamo fino al momento in cui ci troviamo in una situazione estrema. Se gli si chiedesse durante un pranzo con gli amici se sarebbe capace di lasciare un uomo morente sul ciglio della strada Eitan probabilmente direbbe di no. Ma quando accade compie una scelta e la sua fiducia nell’essere un brav’uomo è una sorta di hybris, e viene punito per questo».
SENZA SVELARE i
particolari del libro che gli danno i toni del noir è importante
sottolineare che indaga e infrange i pregiudizi da entrambi i lati della
storia: «Normalmente pensiamo che i migranti debbano essere santi ma
non si può essere santi per sempre se vuoi rimanere vivo e Sirkit vuole
restare viva. Anzi, di più, non vuole la vita di un cane o di una mucca,
lei vuole la vita di Eitan, sente di averne diritto. E quando Eitan è
sorpreso dalla sua mancanza di compassione dimentica che la compassione è
un privilegio».
Nella realtà Eitan e Sirkit non si
possono incontrare, sono destinati a ignorarsi reciprocamente per
sempre: «Ma l’incidente di macchina che apre Svegliare i leoni è uno
scontro di civiltà, due mondi paralleli che non si sono mai realmente
incontrati prima. Come migrante Sirkit è una di quelle persone che è
testimone di tutte le cose che facciamo senza porre alcuna attenzione
alla sua presenza. Mi chiedo quante volte sono stata seduta al
ristorante baciando, discutendo o chiacchierando intimamente mentre
degli immigrati illegali stavano pulendo il mio tavolo completamente
ignorati. Io volevo indagare cosa accade quando coloro che sono
invisibili prendono atto di avere un potere che cambia le regole del
gioco».
IL RAPPORTO tra Eitan e
Sirkit diviene, nello scorrere delle pagine, rabbioso e sensuale e
Liat, la moglie di Eitan, che pure ignora quanto sta accadendo ne
percepisce l’asprezza e la profondità: «Liat organizza e pulisce in modo
da non percepire il caos che regna fuori e dentro di lei. È come se gli
oggetti di uso domestico fossero oggetti del pensiero e mettendoli a
posto anche tutto il mondo trovasse il posto giusto. Mi stupisce sempre
come delle persone possano vivere nella stessa casa diventando degli
estranei invece Liat vuole che la propria casa sia libera dai misteri,
sia un luogo che lei può conoscere completamente. Mi interessava l’idea
che si possa dividere il letto con qualcuno, riconoscere ogni angolo del
suo corpo anche ad occhi chiusi e, ancora, non sapere cosa sta
sognando».
Un finale imprevisto, salvifico e amaro, consegna i protagonisti di Svegliare i leoni ciascuno al proprio destino e lascia domande inquiete su quegli «altri» con cui viviamo la vita e quell’altro in noi che giace dentro i nostri sogni frequentati da leoni.
Un finale imprevisto, salvifico e amaro, consegna i protagonisti di Svegliare i leoni ciascuno al proprio destino e lascia domande inquiete su quegli «altri» con cui viviamo la vita e quell’altro in noi che giace dentro i nostri sogni frequentati da leoni.
[Lia Tagliacozzo 18/04/2017]
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