«Penso a Baba sempre più spesso. A un certo punto, l’idea di una
persona assente da molto tempo si trasforma da emozione in una specie di
esercizio mentale di memoria e deduzione». Parla così dell’assenza di
suo padre, la protagonista di Cronaca di un’ultima estate, di Yasmine el-Rachidi (Bollati Boringhieri, pp.150, euro 16,50).
UN PERSONAGGIO, quello che si esprime in prima persona, che si sovrappone a quello dell’autrice. Come la figura paterna lontana, pare sovrapporsi spesso allo Stato assente. Yasmine el-Rachidi, che oggi sarà a Milano in occasione di Tempo di Libri per presentare il suo lavoro, vive a cavallo tra Stati Uniti ed Egitto ed è editorialista per il New York Review of Books e per il trimestrale Bidoun.
«In questo libro – che è molto più di una cronaca, ma una testimonianza personale di un tempo, di un luogo e di un’esperienza – mi è stato impossibile non far permeare il mio giudizio, o una parte di esso». Le Cronache dell’autrice egiziana non narrano di un’unica stagione della sua vita, bensì di tre: la prima è quella del 1984, l’autrice è ancora una bambina, ma Mubarak è già al potere dall’81, dopo l’omicidio di Sadat. Il padre non torna a casa da settimane e sembra che nessuno ne conosca il motivo. Lei lo aspetta. Ma altre strane sparizioni accadono.
COSÌ DECIDE DI DARE una forma a quei fatti a cui nessuno sa dare spiegazione: in un compito a scuola racconta di tutta quella gente che scompare. Ma la maestra le dà come voto zero perché «non si dicono certe cose». I bambini muoiono di fame in Etiopia e la televisione ne parla, ma di quelli che muoiono di stenti al Cairo nessuno si accorge. La piccola, che allora ha solo 6 anni, cerca di destreggiarsi tra le opinioni politiche dei familiari, tra cui quelle del cugino comunista e dello zio, figura che le farà in certo senso da padre e che le darà il miglior consiglio della vita: per sapere cosa accade al popolo bisogna ascoltalo. Ascoltare la città, fare caso passeggiando in bicicletta se le persone fischiettano come sempre. Lo zio le insegnerà anche che cos’è la paura, quella variabile impazzita che fa scegliere «sempre quello che conosciamo meglio, anche se significa scendere a compromessi».
LA SECONDA ESTATE è quella del 1998 e dell’invasione delle formiche. Quella in cui la televisione passa messaggi subliminali del governo per evocare gli islamisti e i loro attentati. Il padre della ragazzina non è più tornato. Dido, un amico di università, cerca di spronarla a interessarsi alla politica, all’attivismo. Ma lei è diffidente. Sembra aver paura di quello che succede ai sit-in fuori dal campus. È con questa paura che affronta l’avventura degli studi cinematografici fatto silenzi: «Perché mi stai riprendendo? Che vuoi, chi sei?» sono le domande che le vengono fatte più spesso ad ogni tentativo di restituire ai fatti delle immagini. Rivede negli altri la stessa diffidenza che lei cerca di combattere con una cinepresa. Il 2014 è il teatro della terza e ultima estate, ma l’autrice continua ad andare e venire con la memoria all’estate del 2011, quella che precedette le rivoluzioni di piazza Tahrir. Quell’anno tutto sembrava non avere limite: i prezzi del cibo, il caldo torrido, i tagli alla corrente. Il rumore dei clacson in strada. Era l’estate del collasso: «Avevo notato, in me stessa e nei miei amici, che ci stavamo abituando alla nostra storia recente. Una sorta di assuefazione. C’eravamo quando i copti venivano massacrati, quando si calpestavano i cadaveri. Quando i sostenitori di Morsi aprivano il fuoco sui giovani manifestanti. Duecento persone furono uccise per mano della polizia; e subito dopo il procuratore generale venne ucciso da un’autobomba. Solo quando scorsi tutte queste note che avevo nella testa, mi resi conto che anche io, come gli altri, ero piombata in uno stato di inerzia».
QUELLE RACCONTATE nel libro sono tre estati in cui una donna si scontra con il Cairo e la politica. Affronta il fallimento della sua generazione e quella dei suoi genitori. Una realtà in cui i giovani cercano di aggrapparsi al passato per sapere dove dirigersi. In un magazzino pieno di vecchi vinili, parla con Dido della deposizione di Morsi: «Mi dice che la rivoluzione ci ha connessi a un passato che ci ha preceduto. Annuisco, gli dico che per capire mi sono ristudiata i libri di storia». In queste tre cronache, figlie di un’unica storia, il teatro è il medesimo: il traffico e la canicola del Cairo. I tabelloni stradali immutati e la vecchia casa di famiglia in riva al Nilo. La metropoli piena di spie del regime e di agenti in borghese. Le persiane chiuse, un po’ per il caldo e un po’ per prudenza. E Dido, che nei lunghi pomeriggi cerca di coinvolgerla nella sua battaglia politica in un Egitto che sembra non avere più speranze.
«Non riesco a immaginare cosa potrebbe cancellare le nostre delusioni più recenti, tranne – forse – il passaggio incandescente dell’amore».
[Francesca del Vechhio 9/03/2018]
UN PERSONAGGIO, quello che si esprime in prima persona, che si sovrappone a quello dell’autrice. Come la figura paterna lontana, pare sovrapporsi spesso allo Stato assente. Yasmine el-Rachidi, che oggi sarà a Milano in occasione di Tempo di Libri per presentare il suo lavoro, vive a cavallo tra Stati Uniti ed Egitto ed è editorialista per il New York Review of Books e per il trimestrale Bidoun.
«In questo libro – che è molto più di una cronaca, ma una testimonianza personale di un tempo, di un luogo e di un’esperienza – mi è stato impossibile non far permeare il mio giudizio, o una parte di esso». Le Cronache dell’autrice egiziana non narrano di un’unica stagione della sua vita, bensì di tre: la prima è quella del 1984, l’autrice è ancora una bambina, ma Mubarak è già al potere dall’81, dopo l’omicidio di Sadat. Il padre non torna a casa da settimane e sembra che nessuno ne conosca il motivo. Lei lo aspetta. Ma altre strane sparizioni accadono.
COSÌ DECIDE DI DARE una forma a quei fatti a cui nessuno sa dare spiegazione: in un compito a scuola racconta di tutta quella gente che scompare. Ma la maestra le dà come voto zero perché «non si dicono certe cose». I bambini muoiono di fame in Etiopia e la televisione ne parla, ma di quelli che muoiono di stenti al Cairo nessuno si accorge. La piccola, che allora ha solo 6 anni, cerca di destreggiarsi tra le opinioni politiche dei familiari, tra cui quelle del cugino comunista e dello zio, figura che le farà in certo senso da padre e che le darà il miglior consiglio della vita: per sapere cosa accade al popolo bisogna ascoltalo. Ascoltare la città, fare caso passeggiando in bicicletta se le persone fischiettano come sempre. Lo zio le insegnerà anche che cos’è la paura, quella variabile impazzita che fa scegliere «sempre quello che conosciamo meglio, anche se significa scendere a compromessi».
LA SECONDA ESTATE è quella del 1998 e dell’invasione delle formiche. Quella in cui la televisione passa messaggi subliminali del governo per evocare gli islamisti e i loro attentati. Il padre della ragazzina non è più tornato. Dido, un amico di università, cerca di spronarla a interessarsi alla politica, all’attivismo. Ma lei è diffidente. Sembra aver paura di quello che succede ai sit-in fuori dal campus. È con questa paura che affronta l’avventura degli studi cinematografici fatto silenzi: «Perché mi stai riprendendo? Che vuoi, chi sei?» sono le domande che le vengono fatte più spesso ad ogni tentativo di restituire ai fatti delle immagini. Rivede negli altri la stessa diffidenza che lei cerca di combattere con una cinepresa. Il 2014 è il teatro della terza e ultima estate, ma l’autrice continua ad andare e venire con la memoria all’estate del 2011, quella che precedette le rivoluzioni di piazza Tahrir. Quell’anno tutto sembrava non avere limite: i prezzi del cibo, il caldo torrido, i tagli alla corrente. Il rumore dei clacson in strada. Era l’estate del collasso: «Avevo notato, in me stessa e nei miei amici, che ci stavamo abituando alla nostra storia recente. Una sorta di assuefazione. C’eravamo quando i copti venivano massacrati, quando si calpestavano i cadaveri. Quando i sostenitori di Morsi aprivano il fuoco sui giovani manifestanti. Duecento persone furono uccise per mano della polizia; e subito dopo il procuratore generale venne ucciso da un’autobomba. Solo quando scorsi tutte queste note che avevo nella testa, mi resi conto che anche io, come gli altri, ero piombata in uno stato di inerzia».
QUELLE RACCONTATE nel libro sono tre estati in cui una donna si scontra con il Cairo e la politica. Affronta il fallimento della sua generazione e quella dei suoi genitori. Una realtà in cui i giovani cercano di aggrapparsi al passato per sapere dove dirigersi. In un magazzino pieno di vecchi vinili, parla con Dido della deposizione di Morsi: «Mi dice che la rivoluzione ci ha connessi a un passato che ci ha preceduto. Annuisco, gli dico che per capire mi sono ristudiata i libri di storia». In queste tre cronache, figlie di un’unica storia, il teatro è il medesimo: il traffico e la canicola del Cairo. I tabelloni stradali immutati e la vecchia casa di famiglia in riva al Nilo. La metropoli piena di spie del regime e di agenti in borghese. Le persiane chiuse, un po’ per il caldo e un po’ per prudenza. E Dido, che nei lunghi pomeriggi cerca di coinvolgerla nella sua battaglia politica in un Egitto che sembra non avere più speranze.
«Non riesco a immaginare cosa potrebbe cancellare le nostre delusioni più recenti, tranne – forse – il passaggio incandescente dell’amore».
[Francesca del Vechhio 9/03/2018]