Al giardino ancora non l’ho detto di Pia Pera
(Ponte alle Grazie, pp. 216, euro 15,00) è un finale di partita, la
cronaca di una malattia inesorabile, l’ultima immagine del mondo
elaborata da un essere vivente che sente arrivare la fine. L’unica forma
possibile del libro era quella del diario, proprio perché questa
immagine del mondo è mutevole e sfrangiata come una nuvola, e non smette
di cambiare e di arricchirsi col passare del tempo, mentre le cose
continuano ad andare di male in peggio.
Come la selva oscura di Dante, la malattia è un luogo e una condizione di cui è difficile riferire precisamente come ci si sia entrati. Anche la prima avvisaglia è in realtà una manifestazione dell’irreparabile. Un giorno qualcuno fa osservare a Pia che cammina zoppicando leggermente. Quel minimo atto di consapevolezza è una frattura che inaugura un tempo del tutto diverso da tutto ciò che può essere presentito, immaginato, appreso dall’esperienza di altri. Non solo perché la mente deve adattarsi a un’emergenza. Questo adattamento infatti è di per sé sempre provvisorio, ogni giorno che passa portando ulteriori difficoltà, erigendo nuove barriere fra l’io e il possibile.
Presto diagnosticata, la patologia è di quelle che peggiorano e basta, il massimo della scienza medica consistendo nel rallentarla e poco altro. Il decorso prevede la perdita progressiva dell’uso del proprio corpo: arti, organi volontari, tutto. Non c’è nulla che renda in qualche modo preparati all’appuntamento con la propria sorte. E Pia ci arriva troppo presto, tra i cinquanta e i sessanta, nel pieno delle forze. Ormai da molti anni, si era dedicata completamente a una passione che per molti è un semplice hobby e che per lei era diventata una filosofia e una vera e propria forma integrale di vita. Molte cose della sua vita precedente lasciandosi alle spalle, infatti, Pia Pera ha inventato e accudito uno splendido giardino, nella campagna di Lucca.
È un luogo indimenticabile, in cui ogni minimo dettaglio possiede una storia e un significato ben precisi, ma dove tutto, in virtù di un supremo e definitivo artificio, è dotato della potente, ammaliante bellezza del selvatico. I libri e gli articoli che intanto andava scrivendo, le conferenze, le interviste hanno presto fatto di Pia un’autorità internazionale in quest’arte del giardino che sta conoscendo (a differenza di moltissime altre arti) un’epoca d’oro sia in Italia che in America, tra innovazioni sorprendenti e meditati ritorni alle più antiche tradizioni.
Il giardino esige un accordo fondamentale tra la mente che inventa, proiettandosi nel futuro, e il corpo che esegue, adagiandosi ai ritmi delle stagioni e alle leggi, al tempo stesso immutabili e sorprendenti, della vita vegetale. Questa è la castastrofe che Pia Pera ci racconta nel libro: il progressivo sfinimento che le impedisce dapprima di piegarsi per raccogliere un cespo d’insalata nell’orto, e che finirà per costringerla a faticose visite in sedia a rotelle in quello che fino a poco tempo prima considerava quasi come un’estensione del suo corpo, o il frutto di una simbiosi. E proprio nel momento in cui ciò che aveva progettato per la sua vita, tagliandosi alle spalle molti ponti, si rivela rapidamente impraticabile, giunge all’autrice il soccorso di una poesia di Emily Dickinson, il cui primo verso, «I haven’t told my garden yet», fornisce al suo libro il titolo.
Quella di Emily Dickinson è una grande meditazione sulla mortalità. Se è vero che presto, troppo presto anche lei «penetrerà dentro l’Ignoto», come farà l’amato giardino a comprendere che la sua giardiniera non verrà più a curarlo? Meglio nascondergli la verità, meglio nasconderla anche all’ape che ronza fra i cespugli, alle foreste e alle praterie dove Emily ha amato passeggiare. Che non si faccia parola della morte, insomma, la cui coscienza lancinante è un appannaggio esclusivamente umano. Che il giardino non venga turbato dalla notizia che chi tanto l’ha amato e accudito è prigioniero di un destino ben diverso dal suo.
Sarà importante osservare, a questo punto, che molti libri affini per l’argomento a quello di Pia (libri anche molto belli e capaci di scuotere profonde emozioni) ci raccontano di una saggezza, o perlomeno di un nuovo e faticato accordo con la vita, che seguono alla scoperta della malattia e delle sue conseguenze. Tutto ciò che viene prima del trauma potrà essere rimpianto, ma ormai è relegato nel regno dell’inconsapevolezza, dell’approssimazione, della mancata capacità di decifrare gli eventuali segnali provenienti dal futuro. Il grande archetipo dei racconti di malattia è quello della caduta sulla via di Damasco, non perché necessariamente venga implicata una conversione, ma perché quell’evento genera una metamorfosi radicale, come un’iniziazione e dunque una seconda nascita conseguente a una morte simbolica.
Pia Pera, però, si porta dietro un’esperienza umana e artistica che la costringe a sovvertire questo schema classico. In qualche modo, che sicuramente non è stato del tutto cosciente, tutta la sua vita, anche quella trascorsa in salute, è consistita in una serie di rinunce e di distacchi, a partire dalla sua identità di scrittrice e di traduttrice di tanti capolavori della letteratura russa (citerò solamente le sue memorabili, efficacissime versioni dell’Onegin di Puškin e di Un eroe del nostro tempo di Lermontov).
Il giardino, in questo percorso d’esistenza, ha assunto il ruolo di manifestazione concreta di un desiderio di solitudine che non escludendo l’amore per il prossimo, concedeva allo spirito quella libertà che si ottiene solo sciogliendo o allentando gli innumerevoli vincoli sociali e psicologici che sono le sbarre delle nostre prigioni. E dunque si potrebbe pensare che Pia sia sempre vissuta pensando alla morte, come si propone di fare Prospero alla fine della Tempesta. Ma nessuno ci dirà mai se Prospero in questo modo sia arrivato più sereno di fronte al grande salto.
La verità è che l’unica saggezza sembra consistere nel renderti conto che ogni saggezza, alla prova dei fatti, possiede la stessa forza di chi l’ha coltivata. «Com’è che tutto questo non è stato chiamato col suo nome, paura della morte?», si chiede Pia mentre ripensa a sogni ricorrenti e molto lontani ormai nel tempo. «Com’è che avevo sempre creduto di non averne paura?». Durante le notti che sembrano interminabili, questa paura sembra dilagare come un’onda densa e scura nella mente di Pia. E noi pian piano, pagina dopo pagina, ci rendiamo conto che una filosofia, una terapia, una pratica di meditazione che pretendessero di annullare la fragilità di uno spirito affacciato sul vuoto non sarebbero altro che chiacchiere di fanatici.
È proprio perché non sa essere saggia fino in fondo che Pia può regalarci le sue lancinanti intuizioni terminali, può comunicarci qualcosa della «limpidezza dell’essere soli al mondo». Leggendo questo libro, ho immaginato la nostra vita come un grande transatlantico, con tanta gente che lavora, o mangia nelle sale ristorante, o dorme inconsapevole in cabina. E ho pensato a Pia, ancora su questa grande nave, ma al limite estremo della prua, affacciata sull’aperto, investita dalle raffiche della tempesta. Ancora ama ciò che ha amato, ancora ha paura, e se fosse in grado di scegliere l’ultimo pensiero, questo andrebbe a Macchia, la sua adorata cagnolina, molto più che a Dio, o al Nulla, o a una delle tante parole di cui ci riempiamo la bocca senza che significhino realmente qualcosa.
Prima o poi, tutti noi che viaggiamo in questa nave prenderemo il posto di Pia. E chi ha letto il suo libro gliene sarà grato come di un dono personale, di un amuleto, di una mappa per evadere dal recinto della disperazione.
[Emanuele Trevi 10/04/2016]
Come la selva oscura di Dante, la malattia è un luogo e una condizione di cui è difficile riferire precisamente come ci si sia entrati. Anche la prima avvisaglia è in realtà una manifestazione dell’irreparabile. Un giorno qualcuno fa osservare a Pia che cammina zoppicando leggermente. Quel minimo atto di consapevolezza è una frattura che inaugura un tempo del tutto diverso da tutto ciò che può essere presentito, immaginato, appreso dall’esperienza di altri. Non solo perché la mente deve adattarsi a un’emergenza. Questo adattamento infatti è di per sé sempre provvisorio, ogni giorno che passa portando ulteriori difficoltà, erigendo nuove barriere fra l’io e il possibile.
Presto diagnosticata, la patologia è di quelle che peggiorano e basta, il massimo della scienza medica consistendo nel rallentarla e poco altro. Il decorso prevede la perdita progressiva dell’uso del proprio corpo: arti, organi volontari, tutto. Non c’è nulla che renda in qualche modo preparati all’appuntamento con la propria sorte. E Pia ci arriva troppo presto, tra i cinquanta e i sessanta, nel pieno delle forze. Ormai da molti anni, si era dedicata completamente a una passione che per molti è un semplice hobby e che per lei era diventata una filosofia e una vera e propria forma integrale di vita. Molte cose della sua vita precedente lasciandosi alle spalle, infatti, Pia Pera ha inventato e accudito uno splendido giardino, nella campagna di Lucca.
È un luogo indimenticabile, in cui ogni minimo dettaglio possiede una storia e un significato ben precisi, ma dove tutto, in virtù di un supremo e definitivo artificio, è dotato della potente, ammaliante bellezza del selvatico. I libri e gli articoli che intanto andava scrivendo, le conferenze, le interviste hanno presto fatto di Pia un’autorità internazionale in quest’arte del giardino che sta conoscendo (a differenza di moltissime altre arti) un’epoca d’oro sia in Italia che in America, tra innovazioni sorprendenti e meditati ritorni alle più antiche tradizioni.
Il giardino esige un accordo fondamentale tra la mente che inventa, proiettandosi nel futuro, e il corpo che esegue, adagiandosi ai ritmi delle stagioni e alle leggi, al tempo stesso immutabili e sorprendenti, della vita vegetale. Questa è la castastrofe che Pia Pera ci racconta nel libro: il progressivo sfinimento che le impedisce dapprima di piegarsi per raccogliere un cespo d’insalata nell’orto, e che finirà per costringerla a faticose visite in sedia a rotelle in quello che fino a poco tempo prima considerava quasi come un’estensione del suo corpo, o il frutto di una simbiosi. E proprio nel momento in cui ciò che aveva progettato per la sua vita, tagliandosi alle spalle molti ponti, si rivela rapidamente impraticabile, giunge all’autrice il soccorso di una poesia di Emily Dickinson, il cui primo verso, «I haven’t told my garden yet», fornisce al suo libro il titolo.
Quella di Emily Dickinson è una grande meditazione sulla mortalità. Se è vero che presto, troppo presto anche lei «penetrerà dentro l’Ignoto», come farà l’amato giardino a comprendere che la sua giardiniera non verrà più a curarlo? Meglio nascondergli la verità, meglio nasconderla anche all’ape che ronza fra i cespugli, alle foreste e alle praterie dove Emily ha amato passeggiare. Che non si faccia parola della morte, insomma, la cui coscienza lancinante è un appannaggio esclusivamente umano. Che il giardino non venga turbato dalla notizia che chi tanto l’ha amato e accudito è prigioniero di un destino ben diverso dal suo.
Sarà importante osservare, a questo punto, che molti libri affini per l’argomento a quello di Pia (libri anche molto belli e capaci di scuotere profonde emozioni) ci raccontano di una saggezza, o perlomeno di un nuovo e faticato accordo con la vita, che seguono alla scoperta della malattia e delle sue conseguenze. Tutto ciò che viene prima del trauma potrà essere rimpianto, ma ormai è relegato nel regno dell’inconsapevolezza, dell’approssimazione, della mancata capacità di decifrare gli eventuali segnali provenienti dal futuro. Il grande archetipo dei racconti di malattia è quello della caduta sulla via di Damasco, non perché necessariamente venga implicata una conversione, ma perché quell’evento genera una metamorfosi radicale, come un’iniziazione e dunque una seconda nascita conseguente a una morte simbolica.
Pia Pera, però, si porta dietro un’esperienza umana e artistica che la costringe a sovvertire questo schema classico. In qualche modo, che sicuramente non è stato del tutto cosciente, tutta la sua vita, anche quella trascorsa in salute, è consistita in una serie di rinunce e di distacchi, a partire dalla sua identità di scrittrice e di traduttrice di tanti capolavori della letteratura russa (citerò solamente le sue memorabili, efficacissime versioni dell’Onegin di Puškin e di Un eroe del nostro tempo di Lermontov).
Il giardino, in questo percorso d’esistenza, ha assunto il ruolo di manifestazione concreta di un desiderio di solitudine che non escludendo l’amore per il prossimo, concedeva allo spirito quella libertà che si ottiene solo sciogliendo o allentando gli innumerevoli vincoli sociali e psicologici che sono le sbarre delle nostre prigioni. E dunque si potrebbe pensare che Pia sia sempre vissuta pensando alla morte, come si propone di fare Prospero alla fine della Tempesta. Ma nessuno ci dirà mai se Prospero in questo modo sia arrivato più sereno di fronte al grande salto.
La verità è che l’unica saggezza sembra consistere nel renderti conto che ogni saggezza, alla prova dei fatti, possiede la stessa forza di chi l’ha coltivata. «Com’è che tutto questo non è stato chiamato col suo nome, paura della morte?», si chiede Pia mentre ripensa a sogni ricorrenti e molto lontani ormai nel tempo. «Com’è che avevo sempre creduto di non averne paura?». Durante le notti che sembrano interminabili, questa paura sembra dilagare come un’onda densa e scura nella mente di Pia. E noi pian piano, pagina dopo pagina, ci rendiamo conto che una filosofia, una terapia, una pratica di meditazione che pretendessero di annullare la fragilità di uno spirito affacciato sul vuoto non sarebbero altro che chiacchiere di fanatici.
È proprio perché non sa essere saggia fino in fondo che Pia può regalarci le sue lancinanti intuizioni terminali, può comunicarci qualcosa della «limpidezza dell’essere soli al mondo». Leggendo questo libro, ho immaginato la nostra vita come un grande transatlantico, con tanta gente che lavora, o mangia nelle sale ristorante, o dorme inconsapevole in cabina. E ho pensato a Pia, ancora su questa grande nave, ma al limite estremo della prua, affacciata sull’aperto, investita dalle raffiche della tempesta. Ancora ama ciò che ha amato, ancora ha paura, e se fosse in grado di scegliere l’ultimo pensiero, questo andrebbe a Macchia, la sua adorata cagnolina, molto più che a Dio, o al Nulla, o a una delle tante parole di cui ci riempiamo la bocca senza che significhino realmente qualcosa.
Prima o poi, tutti noi che viaggiamo in questa nave prenderemo il posto di Pia. E chi ha letto il suo libro gliene sarà grato come di un dono personale, di un amuleto, di una mappa per evadere dal recinto della disperazione.
[Emanuele Trevi 10/04/2016]
Nessun commento:
Posta un commento