Accade come in quel programma tv The apprentice condotto da un rapace imprenditore che alla fine di una gara tra due squadre rivali decreta un responsabile della «disfatta» dell’impresa e gli comunica: «sei fuori», il gesto perentorio della mano che indica l’uscita. Ciao e grazie, in fondo un apprendista è intercambiabile. Cosa abbia a che fare un simile scenario con l’amore per la lettura è presto detto: niente. Pratiche similari illuminano invece, e piuttosto bene, un certo mercato editoriale selvaggio e del tutto miope in cui vendere libri o asparagi è equivalente. A darne conferma è la decisione, da parte di Fabbrica del Libro e Aie, di sollevare Chiara Valerio dall’incarico direttivo sul programma generale di Tempo di Libri. Se è vero che festival, saloni, fiere del libro e dell’editoria imperversano in Italia come fossero delle performance compulsive, per quantità e concentrazione territoriale, altrettanto vero è che bisognerebbe entrare almeno nel merito dei programmi. Quello composto e diretto da Chiara Valerio è stato esito di un’accorta intelligenza relazionale. Non basta, è vero. Ma le ragioni di tale insufficienza non si attribuiscano a un lavoro che, perfettibile o no, avrebbe dovuto trovare maggiore sostegno nella seconda edizione e non una brusca interruzione. La diretta interessata si definisce attonita, le criticità evidenti (rapporti mancati con il territorio, collaborazioni da rafforzare e strutturare), sono state ritenute «ragionevoli ma non praticabili», sia dalla Fabbrica del libro che da Aie, responsabili della mancata mediazione (nei giorni scorsi) con BookPride e inoltre attenti solo all’obiettivo imprenditoriale dell’iniziativa, dimenticando che i libri oltre che una merce sono anche contenuti. Ed è esattamente questo uno dei problemi dell’agonismo culturale contemporaneo. Che individua intelligenze brillanti, professionisti capaci come Chiara Valerio (ma la stessa cosa sarebbe potuta accadere a Nicola Lagioia, direttore del programma del Salone di Torino) e poi li liquida come apprendisti. Intercambiabili e da scaricare alla prima occasione. Peccato che non siamo in un programma tv ma in un mondo dove i libri dovrebbero essere trattati con maggiore serietà.
Questo blog accoglie la nuova avventura di quelli di Sguardi d’Altrove, e il Reverendo Dogdson, con i suoi dubbi sulla realtà, si aggiunge al nostro olimpo di numi tutelari. Non dimentichiamo gli autori che più spesso ci hanno accompagnati nel viaggio di Sguardi d’Altrove, anzi, da loro ripartiamo. Quindi, un pensiero affettuoso e ammirato, in particolare, ad Alan Bennet a alla sua Sovrana Lettrice, mantenendo ben fermo il principio che ragguagliare non è leggere.
sabato 24 giugno 2017
Lettura ed editoria secondo le leggi di «The apprentice»
Accade come in quel programma tv The apprentice condotto da un rapace imprenditore che alla fine di una gara tra due squadre rivali decreta un responsabile della «disfatta» dell’impresa e gli comunica: «sei fuori», il gesto perentorio della mano che indica l’uscita. Ciao e grazie, in fondo un apprendista è intercambiabile. Cosa abbia a che fare un simile scenario con l’amore per la lettura è presto detto: niente. Pratiche similari illuminano invece, e piuttosto bene, un certo mercato editoriale selvaggio e del tutto miope in cui vendere libri o asparagi è equivalente. A darne conferma è la decisione, da parte di Fabbrica del Libro e Aie, di sollevare Chiara Valerio dall’incarico direttivo sul programma generale di Tempo di Libri. Se è vero che festival, saloni, fiere del libro e dell’editoria imperversano in Italia come fossero delle performance compulsive, per quantità e concentrazione territoriale, altrettanto vero è che bisognerebbe entrare almeno nel merito dei programmi. Quello composto e diretto da Chiara Valerio è stato esito di un’accorta intelligenza relazionale. Non basta, è vero. Ma le ragioni di tale insufficienza non si attribuiscano a un lavoro che, perfettibile o no, avrebbe dovuto trovare maggiore sostegno nella seconda edizione e non una brusca interruzione. La diretta interessata si definisce attonita, le criticità evidenti (rapporti mancati con il territorio, collaborazioni da rafforzare e strutturare), sono state ritenute «ragionevoli ma non praticabili», sia dalla Fabbrica del libro che da Aie, responsabili della mancata mediazione (nei giorni scorsi) con BookPride e inoltre attenti solo all’obiettivo imprenditoriale dell’iniziativa, dimenticando che i libri oltre che una merce sono anche contenuti. Ed è esattamente questo uno dei problemi dell’agonismo culturale contemporaneo. Che individua intelligenze brillanti, professionisti capaci come Chiara Valerio (ma la stessa cosa sarebbe potuta accadere a Nicola Lagioia, direttore del programma del Salone di Torino) e poi li liquida come apprendisti. Intercambiabili e da scaricare alla prima occasione. Peccato che non siamo in un programma tv ma in un mondo dove i libri dovrebbero essere trattati con maggiore serietà.
Swing Time Zadie Smith
Dopo il successo di Denti bianchi
(Mondadori) che 15 anni fa le ha garantito un posto di rilievo
all’interno del panorama letterario internazionale, Zadie Smith è oggi
una quarantenne che continua a interrogarsi sulla scrittura e
sull’urgenza di affrontare temi sociali. Lo ha fatto anche a Lignano
Sabbiadoro pochi giorni fa, in occasione del premio Hemingway per la
Letteratura 2017, quando ha ricordato duramente l’incuria con cui è
stato costruito l’edificio di Londra «per poveri» andato a fuoco
mietendo oltre cento vittime – per risparmiare non erano stati usati
materiali ignifughi.
Anche in questo suo ultimo volume, Swing
Time (Mondadori), utilizza la narrazione per conciliare questioni di
carattere personale con quelle più generali che riguardano tutti noi ma
di cui spesso ci si dimentica. Numerosi sono i passaggi in cui le
singole storie veicolano una più vasta comprensione del mondo.
In che modo la visione sociale può essere restituita da un punto di vista letterario?
Affrontare le cose con un approccio
diverso può portare a un cambiamento. Mi riferisco ai dogmi politici nel
senso che se si parla in termini di destra o di sinistra non si va da
nessuna parte. È invece più utile fare riferimento ad altri concetti che
possono essere quelli della fortuna, della gratitudine, dell’umiltà,
che hanno un loro versante politico oltre ovviamente ad averne uno
religioso e ad avere a che fare con la religione cristiana, cattolica,
protestante. In questo senso mi sento fortunata. Sono stata in realtà
«allevata» dallo Stato, nel senso che mi ha dato un’istruzione gratuita,
un’assistenza sanitaria gratuita e so bene di avere un debito in
considerazione proprio di tutto questo. Forse oggi chi cresce in una
situazione diversa, chi ha denaro, tende a non pensarsi così, non si
sente fortunato, ha l’illusione di avercela fatta perché è un suo merito
essere nato all’interno di una famiglia ricca. Ricordiamoci cosa è la
libertà, ricordiamoci cosa è veramente essere fortunati e forse c’è un
punto d’accordo se ci si dice vicendevolmente: «Io mi sento così, e tu?
Io ho questo istinto un po’ basso che non è proprio encomiabile e tu,
sei anche tu così?». Se ci si rivolge alle persone in questo modo,
magari escono dalla loro scatola.
E cosa può accadere?
Mi viene in mente una cosa che ha
raccontato un filosofo angloamericano, John Rawls, che ha dato
un’immagine molto narrativa della giustizia dicendo: se come gruppo di
persone dovessimo decidere qual è la struttura sociale in cui vogliamo
vivere, e se avessimo un velo davanti agli occhi in modo da non sapere
chi è chi, siamo lì velati e dobbiamo decidere quali saranno le regole,
quale sarà il sistema che si applicherà a ognuno di noi e i diversi
ruoli che rivestiremo, di ciascuno di noi uno farà il giornalista,
l’altro il papa, l’altro sarà artista, l’altro sarà operatore ecologico
ma noi non sappiamo chi saremo e velati dobbiamo decidere concretamente
come sarà questa struttura. Insomma, togliere l’elemento della
soggettività, la stessa cosa fa anche la narrativa togliendo l’interesse
soggettivo.
Auto-orientamento e
riconoscimento di sé sono due dei temi prevalenti nella sua scrittura.
C’è anche un intendimento trasformativo?
Spesso nella scrittura letteraria si
creano dei luoghi ipotetici all’interno dei quali noi possiamo assistere
al panorama dei rapporti, delle situazioni etiche e morali senza
sentirci in pericolo. Non ho l’idea romantica che l’arte possa cambiare
il mondo, credo che il mondo possa essere migliorato dai cambiamenti
nelle leggi e nelle strutture dei governi. Al massimo, ciò a cui può
aspirare uno scrittore è cercare di avere un’influenza su chi ha il
potere di apportare questi cambiamenti, ma non valgono più le idee che
ci sono state nel passato dell’arte come qualcosa di veramente
trasformativo.
Pensando ai romanzi di Jonathan
Franzen e di Elif Shafak, si può registrare una certa contiguità con il
suo approccio alle storie e alla scrittura. Anche se non bisogna farsi
troppe illusioni, ci sono libri che diventano ponti che cambiano chi li
attraversa…
Amo entrambi e trovo che la «nostra
generazione» di autori possa fare qualcosa di utile nel ricordare alle
nuove generazioni la chiarezza del pensiero. Non ho mai pensato che noi
(come generazione, ndr) fossimo dei pensatori particolarmente brillanti o
chiari, ma poi rispetto a quello che vedo nelle generazioni più giovani
e negli studenti, nei miei studenti, capisco che c’è una modalità di
sviluppo del pensiero diversa perché gli studenti scrivono online,
pensano online, hanno questo atteggiamento per cui portare
un’argomentazione significa in realtà urlare più forte, significa
litigare e hanno spesso delle idee confuse. Le hanno per esempio su
quelli che sono i diritti e i doveri, nel senso che sono molto attenti
ai diritti personali e non lo sono per niente ai doveri. Ecco, gli
autori che lei ha citato, gli autori della mia generazione, hanno avuto
il tempo di esercitare il proprio pensiero senza telefono, senza pc,
senza essere online. Una cosa completamente diversa dalla lunghezza di
espressione dei 140 caratteri.
[Riccardo Mazzeo 24/06/2017]
venerdì 23 giugno 2017
L’esilio dei moscerini danzanti giapponesi; Marino Magliani
In Liguria, su certe mulattiere rose
dagli anni e da milioni di zoccoli a volte può ancora capitare di
vedere la protezione «a coltello». Sono certe lamine affilate e lisce di
pietra che stanno le une accanto alle altre, come menhir in miniatura,
in punti ventosi, dove la furia dell’aria porterebbe detriti e foglie ad
occupare il sentiero. Così è la lingua accorta che usa nei suoi romanzi
e racconti Marino Magliani: affilata, precisa, liscia. A protezione.
Per salvare il salvabile di quanto può ancora essere detto in modo
asciutto e sgombro di qualsiasi cascame retorico, sentimentale o
ideologico che possa essere.
LA MEMORIA SÌ,
l’autobiografia composta e ricomposta da mille prospettive e stimoli
indotti da un paesaggio – specchio sì. Il compatimento mai. Sono queste
le impressioni che rimangono, forti, appena chiuse le pagine del suo
ultimo romanzo – memoir, titolo al solito incantante e foriero di
curiosità: L’esilio dei moscerini danzanti giapponesi (Exòrma).
Nel penultimo Carlos Paz e altre mitologie private
lo scrittore ligure da molto tempo con base olandese, in un luogo che è
una sfida all’anima, aveva mostrato di padroneggiare registri
stilistico – linguistici disparati, come una sorta di supercoordinamento
di arti diversificarti in un unico grande corpo narrativo.
Qui la riflessione torna invece a
concentrarsi, a trovare un centro ossessivo di riflessione che allarga
cerchi concentrici: è l’ «esilio del titolo». La condizione di chi, come
Magliani, fa parte di quella generazione di persone che hanno fatto in
tempo a vivere scampoli significativi di anni Sessanta e Settanta, e da
allora vivono la lacerazione non pacificata del proprio paesaggio
interiore affettivo con una continua dromomania, l’ossessione
dell’essere continuamente in movimento, di spostarsi per esorcismo
personale.
Per Magliani, dopo le esperienze di vita
e mestieri duri in mezzo mondo un pendolo continuo tra il paesino della
sua Liguria di Ponente e Zeewijk, Olanda, dove il paesaggio è fatto di
dune sabbiose, di silenzi spettrali, di freddo e di case ricostruite
ogni vent’anni.
I Moscerini danzanti giapponesi ci sono
davvero, lì: sono le nuvole di insetti che, migrati dall’Oriente, da
mezzo secolo hanno colonizzato le coste sabbiose del Nord. Si muovono
assieme in aria disegnando segni, facili prede degli uccelli, in una
sorta di balletto sacrificale. L’esilio non perdona, ma lascia posto per
un’ultima danza elegante.
[Guidop Festinese 23/06/2017]
domenica 11 giugno 2017
venerdì 2 giugno 2017
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Commenti
il 12/08 SR ha commentato Non credo che D'Avenia possa far parte del nostro blog. Certo i suoi libri sono best-sellers tra gli adolescenti, e probabilmente hanno il merito di avviare qualche giovane alla lettura, ma la banalità delle situazioni e del linguaggio non permettono di considerare questi testi letteratura. Diciamo che sono testi "di servizio", nella migliore delle ipotesi. su Prossimamente
il 28/02 Ida ha commentato Grazie Roberta per aver riaperto il blog.Trovo che è un modo per uscire dalla solitudine delle letture personali.Scrivere e leggere accanto, trovo che è un bel modo per parlarci e parlarmi. su Chi siamo
il 14/05 SR ha commentato Purtroppo J.K.J. non sembra più funzionare con le ultime generazioni: un tentativo di leggere a scuola Three Men In a Boat è finito miseramente in noia. I ragazzi non capivano cosa c'era da ridere e io non capivo perché non capivano. Tristissimo. Jerome per me è finito in quell'armadio dove tengo gli autori speciali che voglio proteggere dagli studenti... su Jerome K. Jerome, fare ridere l’uomo moderno, spaventato
il 29/02 Ida ha commentato A proposito di classifiche: "Oggi se vai al cinema devi entrare a un’ora fissa, quando il film incomincia, e appena incomincia qualcuno ti prende per così dire per mano e ti dice cosa succede. Ai miei tempi si poteva entrare al cinema a ogni momento, voglio dire anche a metà dello spettacolo, si arrivava mentre stavano succedendo alcune cose e si cercava di capire che cosa era accaduto prima (poi, quando il film ricominciava dall’inizio, si vedeva se si era capito tutto bene - a parte il fatto che se il film ci era piaciuto si poteva restare e rivedere anche quello che si era già visto). Ecco, la vita è come un film dei tempi miei. Noi entriamo nella vita quando molte cose sono già successe, da centinaia di migliaia di anni, ed è importante apprendere quello che è accaduto prima che noi nascessimo; serve per capire meglio perché oggi succedono molte cose nuove." Anch'io,come U.ECO sono andata al cinema nel modo ricordato e quindi io amo ricordare e vorrei tanto poter fare liste di su Chi siamoil 28/02 Ida ha commentato Grazie Roberta per aver riaperto il blog.Trovo che è un modo per uscire dalla solitudine delle letture personali.Scrivere e leggere accanto, trovo che è un bel modo per parlarci e parlarmi. su Chi siamo