Facciamo il punto su questo anno di letture, ancora un po' accidentato per i postumi dell'epidemia. In realtà abbiamo letto tanto, ma poco abbiamo condiviso -gli incontri on-line ci rattristavano parecchio. Quindi: nella speranza che la prossima stagione sia a pieno ritmo, ripensiamo ai nostri pochi incontri di questo 2022/2023. Comincio con L'Orologio, di Carlo Levi, un libro che pensavo appartenesse al passato, ma che è, invece, di un'attualità sorprendente.
MEMORIA PERSONALE
Quest’ultimo anno di avvenimenti politici è stato determinante per riportare alla mente questo libro, letto da ragazza e poi quasi dimenticato. Rimaneva, però ai confini della memoria, insieme agli altri lavori di Carlo Levi, scritti e dipinti. Sono stati proprio i suoi quadri e disegni, alcuni dei quali sono parte da sempre della mia famiglia, assieme al ricordo della sua amicizia con mio nonno e mio padre, a far riaffiorare alla memoria l’importanza di questo libro.
Mi sono ricordata dell’esistenza dell’Orologio durante gli orrori della caduta del governo Draghi e sono andata a cercarlo. Ricordavo benissimo la sua copertina perché, ancor prima di avere l’età per leggerlo, conoscevo i gufi e le civette di Levi. Naturalmente, dopo aver buttato per aria tutte le librerie di casa, ho dovuto rassegnarmi al fatto che il libro era perso –chissà dove- e a comprarne uno nuovo. Ritrovare il caro vecchio gufo in copertina è stata una consolazione.
Per rimanere sul personale, ma tornando finalmente al libro, la mia prima esperienza dell’Orologio era stata, ovviamente, limitata e incompleta, non tanto dal punto di vista letterario, ma certo da quello politico: chi poteva immaginare, alla fine degli anni ’70, nella mia ingenuità comunista, che le dinamiche descritte nel libro si sarebbero riprodotte ancora e ancora fino a chiudere il cerchio e tornare all’estrema destra al potere?! Certo neanche Levi, che qui pure descrive la fine dell’utopia, poteva immaginare un simile disastro.
Carlo Levi è stato un personaggio poliedrico: medico, pittore, giornalista, scrittore, attivista politico antifascista, senatore della Repubblica per due legislature come indipendente nelle file del PCI. La sua formazione è a Torino, nel gruppo di Giustizia e Libertà, con Gobetti, Rosselli, Ginsburg, Foa, fino al 1935, quando la maggior parte dei componenti del gruppo finisce in prigione o al confino. Nel caso di Levi, la sua destinazione sarà il confino in provincia di Matera, che gli fornirà le basi per il suo libro più famoso, Cristo si è fermato a Eboli. Dopo l’esperienza della Resistenza e la fine della guerra si impegna nell’organo del Partito d’Azione, L’Italia Libera e successivamente lavora per altri giornali, tra cui La Stampa.
Anche come pittore si oppone al Futurismo e all’arte di regime, formandosi alla Scuola di Casorati e approdando, dopo le esperienze della guerra, a uno stile più realistico.
STRUTTURA
L’Orologio è un libro molto personale dal punto di vista politico e insolito per il 1950, quando viene pubblicato, ma per noi molto contemporaneo. Infatti è un testo decisamente ibrido: un po’ romanzo, un po’ saggio, un po’ autobiografia, un po’ reportage, e noi viviamo nell’epoca dell’auto-fiction e di tutti i possibili miscugli post-moderni.
Ci sono due filoni narrativi che si alternano e si fondono nel libro, c’è il personale e c’è il politico. C’è un’analisi lucidissima della situazione e di quello che si dovrebbe fare. Il protagonista spiega che:
· bisognava ricostruire la comunità nazionale sulla base di istituzioni rinnovate e al servizio del cittadino. Quindi, prima di tutto, era fondamentale azzerare la burocrazia preesistente, che, oltre a non funzionare e a produrre ineguaglianze, aveva anche permesso la nascita e la crescita del fascismo.
· Era, invece, necessario riformare la macchina statale e ripulirla dal fascismo, per preparare il Paese al referendum monarchia/repubblica e alla Costituente. Bisognava proprio fare pulizia: la politica malata del paese aveva predisposto e favorito la presa del potere di Mussolini. Facendo riferimento all’edizione Einaudi del 2015, a pag.105 c’è un’analisi precisa, impietosa, terribile (e, temo, in parte attuale) della burocrazia ministeriale.
· Ovviamente, per Levi la politica significava antifascismo e Partito d’Azione. Cioè, utopia. L’autore stesso vede che si tratta di un’utopia, e lo dico per due motivi, uno contenutistico e uno formale. Intanto, la posizione del protagonista al giornale; Carlo ha dei dubbi sul suo ruolo, ha la percezione che si aspettino da lui che non faccia niente (pagg. 35-37). E poi, soprattutto, la scelta formale: malgrado Levi sia prima di tutto un giornalista e un saggista, sceglie la forma del romanzo.
Quindi, i fatti sono reali e la maggior parte dei personaggi anche, ma i fatti sono mischiati al personale e molti personaggi storici sono “nascosti” dietro nomi di finzione (non sempre è possibile risalire alla figura storica con certezza, a parte qualche caso).
E alla fine c’è la presa di coscienza del fallimento: il vento del nord della Resistenza non è abbastanza forte per spazzare via la politica romana.
(Pagg. 55-56): questo è il punto che mi colpito di più per l’associazione evidente con quello che è successo negli ultimi anni e, soprattutto, negli ultimi mesi prima delle elezioni di settembre ‘22. Questa inconcludenza, questo arrendersi, questa rinuncia ad andare fino in fondo. Il PD come il Partito socialista nel 1921. Sempre la stessa storia. Il governo Parri è un governo di altissimo profilo, con tutti i partiti dentro…
Le pagg.180-181 descrivono l’involuzione della sinistra, dall’ideale della rivoluzione alla mera difesa dell’onore, l’unica possibilità rimasta.
Interessanti anche le pagg. 209-212 che descrivono Roma e la sua immobilità.
Il futuro del Paese diventa ancora più chiaro nel viaggio di ritorno da Napoli, con il protagonista seduto in macchina tra il comunista (Tempesti/Sereni) e il democristiano (Colombi/Piccioni) –qui la mascherata dei nomi è piuttosto trasparente. Quello che succederà nei giorni (e anni, e poi decenni!) successivi è già nella loro conversazione e nel loro addormentarsi tranquilli (p. 351). Fine della Resistenza. De Gasperi fa scelte più facili e concrete rispetto a Parri e al Partito d’Azione, forse anche più utili nell’immediato, ma questo significa venire a patti con la piccola borghesia fascista e mantenere il legame con il recente passato.
SCRITTURA
Rileggendo ho notato una gran differenza nella prosa rispetto agli autori italiani contemporanei che ogni tanto provo a leggere. È una scrittura piena, densa, elaborata, con una lingua curata (anche se in alcuni punti risulta un po’ datata), l’uso di immagini forti, di metafore e similitudini molto intense, tutte cose che nella letteratura italiana contemporanea sembrano vietate. Adesso l’impressione è che si punti a una lingua standard, banale, un po’ televisiva (così tutto è pronto per essere tradotto in un film o in una serie…). C’è una grande semplificazione linguistica, come se il lettore non dovesse mai fare nessuna fatica. Ma così non si fa letteratura, e il lettore, secondo me, non riceve quello che gli spetta di diritto. Invece Levi rispetta il lettore, richiede una concentrazione e un coinvolgimento decisamente maggiori. Un bell’esempio è, tra gli altri, l’incipit, che descrive il “ruggito di Roma”.
E poi c’è il simbolismo dell’orologio, naturalmente. L’orologio che si rompe è il simbolo dell’utopia che finisce, e del tempo, che è un elemento importante nel libro, nei racconti dei personaggi, dove spesso è un tempo mitico. Un tempo che è anche il tempo del sogno e della psicoanalisi. Si vedano le pagg. 12-19 per il sogno dell’orologio e pag.68 per la sua interpretazione fornita da Martino/Bazlen.
A pag. 327 l’orologio rotto sta anche per il cuore dello zio, e l’orologio nuovo, simile, ma non uguale, forse rispecchia la fine dell’utopia e la possibilità/necessità di accettare un’alternativa
STILE
La mia idea dello stile –abbastanza ingenua, immagino, ma difficile da smentire- è che sia pittorico/cinematografico. Levi è pittore, prima che scrittore, e quindi scrive per immagini. All’inizio è metafisico/onirico/surrealista (Carlo che si aggira per Roma), poi felliniano/espressionista (→ p. 124 + la periferia + i personaggi che vivono nel palazzo), poi neorealista (la descrizione della gente a Roma, il viaggio a Napoli, il mercato).
L’argomento pittura torna molto spesso nel libro. A pag. 60 si parla di storicismo e pittura; Tolstoj viene descritto come impressionista. Anche il giornale è concepito come un quadro: il protagonista/direttore concepisce le pagine del giornale come una tela da comporre visivamente (pagg. 236-237).
C’è poi un altro elemento importante: Levi ha non solo il punto di vista del pittore, ma anche lo sguardo dell’antropologo: questo è molto evidente nella caratterizzazione e nella descrizione delle dinamiche sociali. Questa capacità Levi l’ha ampiamente dimostrata in Cristo si è fermato a Eboli (ma anche ne La doppia notte dei tigli, testo successivo, sulla Germania post-bellica, dove ci sono brani che sembrano quadri di Grosz). Si veda anche la descrizione delle vie di Napoli, in particolare quella della via con i banchi dove si vendono le interiora (pagg. 342-343).
Ci sono altri temi importanti che affiorano e si intrecciano durante tutta la storia, prima di tutto quello del viaggio: per le strade di Roma, da una casa all’altra, da Roma a Napoli, per le strade di Napoli, il ritorno.
E poi il tema dell’umanità del protagonista: è curioso degli altri, indulgente e disponibile all’ascolto, estremamente empatico con i singoli personaggi. Allo stesso tempo, è fondamentale la visione della coscienza collettiva, della morale, rappresentata, soprattutto, dalla contrapposizione politica e sociale tra contadini e luigini.
Insomma, un libro denso, ricco, che spiega il nostro passato, ma anche il nostro presente, così pieno di spunti di riflessione sulla contemporaneità qual è.Vivamente consigliato.