Non si può ricordare tutto e a volte non si vuole. Per esempio la
campagna della Lega nel 2005 contro l’ingresso in Europa della Turchia,
l’Italia tappezzata di cartelloni che rappresentano tre donne: una con
il velo, imprigionata, e due vestite all’occidentale coi capelli corti,
in un ufficio luminoso e poi «la didascalia sulla sinistra dice “loro”,
quella sulla destra “noi”. Sotto l’immagine c’è una domanda quasi
retorica: volete correre il rischio? No alla Turchia in Europa». Sara R.
Farris nel suo Femonazionalismo. Il razzismo nel nome delle donne
(Edizioni Alegre, pp. 303, euro 18, traduzione di Marie Moïse e Marta
Panighel) ricorda questo e altro, in un’analisi che all’interno di un
quadro teorico molto ampio e approfondito definisce la nozione di
femonazionalismo, contestualizzandola all’interno dei casi nazionali di
Paesi Bassi, Francia e Italia.
IL FEMONAZIONALISMO è la «convergenza» del femminismo con posizioni nazionaliste e neoliberali, avvenuta in nome della difesa dei diritti delle donne. A far muovere alcune femministe verso posizioni xenofobe è stata l’esistenza di un nemico comune: l’Islam. Alla base di tale convergenza c’è, quindi, la convinzione della supremazia occidentale, per cui la nostra civiltà, essendo maestra in tema di parità di genere, costituirebbe il modello a cui anche le altre dovrebbero adattarsi. Farris, però, evidenzia: «suggerendo che l’uguaglianza di genere sia un problema soprattutto per le donne non occidentali, le femministe e femocrate anti-musulmane hanno contribuito a distogliere l’attenzione dalle molteplici forme di disuguaglianza che ancora colpiscono le donne occidentali».
I rischi del femonazionalismo ricadono, ovviamente, anche sulle donne migranti: sono considerate, infatti, soggetti chiave nel processo di integrazione: «se educhi una madre, educhi una famiglia!». Le politiche in merito nei Paesi Bassi, in Italia o in Francia, insistono molto sul ruolo fondamentale delle donne che possono – e devono – favorire l’integrazione dei propri figli, partecipando al processo educativo, alle attività scolastiche, salvo poi vedersi rifiutare l’accesso a scuola (succede in Francia) perché indossano il velo. Le femministe che aderiscono a questa politica di liberazione delle migranti dal giogo islamico, allora, cercano di imporre a queste donne quel ruolo di Madre da cui loro hanno cercato invece di emanciparsi.
L’AUTRICE SARDA, docente alla Goldsmith University of London, dettaglia come il femonazionalismo sia anche conseguenza del neoliberismo. L’emancipazione delle donne attraverso il lavoro salariato è un’altra delle richieste che nazionalisti e femministe insieme fanno alle donne migranti: devono trovarsi un impiego per rendersi autonome e liberarsi dalle imposizioni di padri e mariti. Quale lavoro, però? Di cura. Di nuovo, allora, ci troviamo di fronte a una violenta contraddizione: perché le donne migranti dovrebbero voler svolgere quel tipo di attività, della riproduzione sociale appunto, da cui le femministe in Occidente hanno cercato di liberarsi? La risposta è tanto chiara quanto dolorosa: «l’etica produttivista del femminismo converge con le politiche neoliberiste di workfare».
L’emancipazione femminile attraverso la produttività ha creato in Occidente un bisogno di lavoro di cura che le donne migranti assolvono, con condizioni salariali ingiuste e spesso senza garanzie. Farris fa infatti notare come la retorica dello straniero che venendo qui ci ruba il pane vale solo per gli uomini che sarebbero «d’ostacolo alla integrazione sociale e culturale». Che tolgano il velo, quindi, e mettano il fazzoletto in testa.
IL FEMONAZIONALISMO è la «convergenza» del femminismo con posizioni nazionaliste e neoliberali, avvenuta in nome della difesa dei diritti delle donne. A far muovere alcune femministe verso posizioni xenofobe è stata l’esistenza di un nemico comune: l’Islam. Alla base di tale convergenza c’è, quindi, la convinzione della supremazia occidentale, per cui la nostra civiltà, essendo maestra in tema di parità di genere, costituirebbe il modello a cui anche le altre dovrebbero adattarsi. Farris, però, evidenzia: «suggerendo che l’uguaglianza di genere sia un problema soprattutto per le donne non occidentali, le femministe e femocrate anti-musulmane hanno contribuito a distogliere l’attenzione dalle molteplici forme di disuguaglianza che ancora colpiscono le donne occidentali».
I rischi del femonazionalismo ricadono, ovviamente, anche sulle donne migranti: sono considerate, infatti, soggetti chiave nel processo di integrazione: «se educhi una madre, educhi una famiglia!». Le politiche in merito nei Paesi Bassi, in Italia o in Francia, insistono molto sul ruolo fondamentale delle donne che possono – e devono – favorire l’integrazione dei propri figli, partecipando al processo educativo, alle attività scolastiche, salvo poi vedersi rifiutare l’accesso a scuola (succede in Francia) perché indossano il velo. Le femministe che aderiscono a questa politica di liberazione delle migranti dal giogo islamico, allora, cercano di imporre a queste donne quel ruolo di Madre da cui loro hanno cercato invece di emanciparsi.
L’AUTRICE SARDA, docente alla Goldsmith University of London, dettaglia come il femonazionalismo sia anche conseguenza del neoliberismo. L’emancipazione delle donne attraverso il lavoro salariato è un’altra delle richieste che nazionalisti e femministe insieme fanno alle donne migranti: devono trovarsi un impiego per rendersi autonome e liberarsi dalle imposizioni di padri e mariti. Quale lavoro, però? Di cura. Di nuovo, allora, ci troviamo di fronte a una violenta contraddizione: perché le donne migranti dovrebbero voler svolgere quel tipo di attività, della riproduzione sociale appunto, da cui le femministe in Occidente hanno cercato di liberarsi? La risposta è tanto chiara quanto dolorosa: «l’etica produttivista del femminismo converge con le politiche neoliberiste di workfare».
L’emancipazione femminile attraverso la produttività ha creato in Occidente un bisogno di lavoro di cura che le donne migranti assolvono, con condizioni salariali ingiuste e spesso senza garanzie. Farris fa infatti notare come la retorica dello straniero che venendo qui ci ruba il pane vale solo per gli uomini che sarebbero «d’ostacolo alla integrazione sociale e culturale». Che tolgano il velo, quindi, e mettano il fazzoletto in testa.