Szilárd Borbély (1963-2014) è una delle più importanti figure
nella letteratura ungherese contemporanea, che ha avuto un impatto
notevole sulla trasformazione della poesia ungherese negli ultimi tre
lustri, influenzando la teorizzazione e concettualizzazione del suo
ruolo sociale e delle sue possibilità linguistiche e tematiche. Autore
pluripremiato, inquieto e immerso in una ricerca di senso anche, non
stricto sensu, teologica, che lo colloca appieno nella peculiare
condizione dell’intellettuale della post-tarda modernità, ci lascia
un’eredità di pensiero che ora abbiamo la possibilità di cogliere e
accogliere anche in lingua italiana grazie alla traduzione – a cura di
Mariarosaria Sciglitano – del suo primo romanzo, I senza terra. Se n’è già andato Messiash? (Marsilio, pp. 264, euro 18, 50).
Le sue opere ci rimandano costantemente al disagio, al conflitto, al dolore. Senza essere un sopravvissuto, Szilárd Borbély ha saputo (de)scrivere Auschwitz in modo limpido, coerente, libero. Faceva i conti con coraggio, pubblicamente, con il passato che in modo inquietante si affacciava in una società apparentemente condannata all’oblio.
I senza terra descrive una società lontana nel tempo, imparentata con quella odierna, dove la povertà continua ad esistere, ma è confinata, celata come lato oscuro e ineffabile.
Leggere Szilárd Borbély non è «gradevole», è scomodo, ma necessario. Anche I senza terra rappresenta una sfida: il lettore resta sospeso tra attrazione e repulsione, proprio perché la sua scrittura va a toccare le corde più profonde di ciascuno. Nell’originale, il titolo è Nincstelenek, coloro non possiede nulla, i nullatenenti e, in questo caso, i senza terra. Senza terra contrapposti ai kulaki in un’atmosfera che, sebbene il romanzo sia ambientato tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70, ci riporta alla prima fase della stalinizzazione dell’Ungheria (1948-1953), col modello dei kolchoz e della perdita di identità umana e professionale, su cui aleggiava il fantasma dell’Ungheria horthysta e poi crocifrecciata di Ferenc Szálási (ottobre 1944-gennaio 1945), filonazista e antisemita, che collaborò entusiasticamente alla «soluzione finale» hitleriana con la deportazione in pochi mesi di oltre 600mila ebrei, pochi dei quali tornarono.
Un mondo raccontato in lingua italiana da Edith Bruck (nata Steinschreiber a Tiszabercel, piccolo villaggio ungherese, e deportata ad Auschwitz a 12 anni), inghiottito dai camini di Auschwitz, dai quali si salvò Giorgio Pressburger, anche lui oggi scrittore in italiano, salvato col gemello Nicola da Giorgio Perlasca, «l’impostore» che si fingeva console spagnolo. Senza terra come «straniero», contrapposto a chi da sempre vive nel villaggio in cui è ambientato il racconto, un luogo duro e senza sconti.
Persino i cani ombrosi, così sono definiti nell’ungherese di quel villaggio, quando diventano di casa vengono tutti chiamati Zingaro: saranno imprigionati per sempre, legati a una catena lunga quanto basta per rendere ancora più tossica la loro frustrazione, devono rimanere affamati – e disperatamente arrabbiati. Il rapporto con gli animali, le descrizioni riguardanti gatti, galline, cani turbano noi animalofili contemporanei, ma vanno al cuore di una dimensione antropologica che si accompagna ad un tessuto sociografico molto denso, che per il rapporto con le origini si può accostare alla prosa autobiografica de Il popolo delle puszte (1936) di Gyula Illyés. La famiglia, raccontata in prima persona da Figlio bambino e poi adulto, è considerata estranea dagli abitanti del villaggio, per origine e appartenenza sociale, etnica, religiosa («Noi non siamo contadini», è l’assioma della madre); un’estraneità si esprime attraverso il disprezzo o l’inganno: la madre viene imbrogliata sul resto al negozio, al mercato; Figlio viene picchiato e insultato dagli altri ragazzini e quando chiede alla madre perché lo hanno chiamato «sporco ebreo», lei risponde: «Perché per loro sono ebrei tutti quelli che non muoiono dove sono nati. Sentono che chi se ne va è diverso. Sentono che chi non è come loro ha l’odore del diverso. Sopportano solo quelli come loro. Chi se ne va è un traditore. Lo è anche chi è diverso. E anche chi vuole essere diverso. Considerano ebreo chi usa il cervello. Chi è più intelligente di loro è ebreo. (…) Odiano chi non è come loro. Chi pensa. Chi riflette. Chi vuole altro. Chi vuole comunque qualcosa».
I senza terra non è un romanzo sociografico d’inchiesta, genere «di confine» che ha caratterizzato la letteratura ungherese in varie fasi, in particolare negli anni ’30, ’50 e ’70-’80; è descrittivo e per questo colpisce al cuore. Mostra l’incomunicabilità della sofferenza, come ci ricordano i numeri che ciclicamente compaiono, sin dall’incipit: «Camminiamo e restiamo in silenzio. Ci sono ventitré anni tra noi. Il ventitré non si può dividere. Il ventitré è divisibile solo per se stesso. E per uno. C’è questa solitudine tra di noi. Non si può scomporre in parti. Bisogna trascinarsela tutta intera».
Borbély non volle trasformare il titolo ungherese in Nincstelenség (l’essere nullatenenti; la condizione di povertà e bisogno), come chiestogli dal referente editoriale, titolo che avrebbe richiamato quello del romanzo con il quale per la prima volta uno scrittore ungherese, Imre Kertész, ha ricevuto il premio Nobel nel 2002: Sorstalanság (Essere senza destino). Teneva molto al «suo» titolo, rimasto nel sottotitolo: Már elment a Mesijás? Se n’è già andato Messiash? Ma chi è il «Messia» a cui si allude? Nel romanzo compare lo zingaro Messiash, che ha solo due denti ed è una sorta di testimone muto, figura angelica e insieme fool silente, a cui si affidano i lavori pesanti e schifosi, come ripulire dalla merda le tubature e i fossi intasati. Messia potrebbe essere il fratellino di Figlio, «Piccolo», che muore presto, come morta in nuce è la speranza di redenzione e resurrezione, nel romanzo. Del suo libro, Borbély ha scritto: «Ha una base autobiografica, si tratta dunque di finzione limitata». Ci torna in mente quando leggiamo l’episodio dell’angelo passato per il villaggio: «Una volta abbiamo avuto una giornata felice. Me ne ricordo, stavamo raccogliendo le prugne».
[Cinzia Franchi 28/06/2016]
Lente eventualità
Il poeta, scrittore, professore universitario di letteratura antica ungherese Szilárd Borbély si è ucciso a 51 anni, all’apice del successo nel suo paese, scegliendo apparentemente il «rapido dileguarsi» che nell’Edipo a Colono Sofocle indica come soluzione alternativa alla «cosa migliore», il non essere mai nati. Ma come è stato scritto in un suo necrologio, di improvviso nella sua morte non vi è nulla: si tratta invece di una «tragica lentezza» con la quale, nei suoi scritti, nelle interviste, Borbély nel tempo ha comunicato il suo proseguire adagio verso il congedo. E in mezzo, le contraddizioni, le ferite del mondo in cui era cresciuto, del suo paese, della città in cui viveva e insegnava, Debrecen, la «Roma calvinista» (la seconda città più grande dell’Ungheria, «capitale» della puszta, la grande pianura ungherese), dell’amore che lo legava ai suoi due figli, dell’idea che avrebbe dovuto e potuto essere felice… eppure.Le sue opere ci rimandano costantemente al disagio, al conflitto, al dolore. Senza essere un sopravvissuto, Szilárd Borbély ha saputo (de)scrivere Auschwitz in modo limpido, coerente, libero. Faceva i conti con coraggio, pubblicamente, con il passato che in modo inquietante si affacciava in una società apparentemente condannata all’oblio.
I senza terra descrive una società lontana nel tempo, imparentata con quella odierna, dove la povertà continua ad esistere, ma è confinata, celata come lato oscuro e ineffabile.
Leggere Szilárd Borbély non è «gradevole», è scomodo, ma necessario. Anche I senza terra rappresenta una sfida: il lettore resta sospeso tra attrazione e repulsione, proprio perché la sua scrittura va a toccare le corde più profonde di ciascuno. Nell’originale, il titolo è Nincstelenek, coloro non possiede nulla, i nullatenenti e, in questo caso, i senza terra. Senza terra contrapposti ai kulaki in un’atmosfera che, sebbene il romanzo sia ambientato tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70, ci riporta alla prima fase della stalinizzazione dell’Ungheria (1948-1953), col modello dei kolchoz e della perdita di identità umana e professionale, su cui aleggiava il fantasma dell’Ungheria horthysta e poi crocifrecciata di Ferenc Szálási (ottobre 1944-gennaio 1945), filonazista e antisemita, che collaborò entusiasticamente alla «soluzione finale» hitleriana con la deportazione in pochi mesi di oltre 600mila ebrei, pochi dei quali tornarono.
Un mondo raccontato in lingua italiana da Edith Bruck (nata Steinschreiber a Tiszabercel, piccolo villaggio ungherese, e deportata ad Auschwitz a 12 anni), inghiottito dai camini di Auschwitz, dai quali si salvò Giorgio Pressburger, anche lui oggi scrittore in italiano, salvato col gemello Nicola da Giorgio Perlasca, «l’impostore» che si fingeva console spagnolo. Senza terra come «straniero», contrapposto a chi da sempre vive nel villaggio in cui è ambientato il racconto, un luogo duro e senza sconti.
Dissonanze originarie
La famiglia del protagonista, Figlio è l’unico nome che è dato conoscere, è un insieme di origini, etnie e religioni: ungheresi, rumeni, ruteni, ebrei, greco-ortodossi forzatamente «uniatizzati» (greco-cattolicizzati). Gli squarci sul passato che si aprono per Figlio attraverso figure familiari come i nonni, vengono subito richiusi dalla madre che è a sua volta «straniera», non essendo nata lì: «No, noi non siamo ruteni. (…) Noi siamo ungheresi, bisogna dire così, perché lo siamo veramente». Ma nell’incertezza dell’origine, nella mescolanza religiosa, etnica e sociale di quell’area di confine tra l’attuale Ucraina, la Romania e l’Ungheria, la regione geografica di Szátmár, davvero qualcuno può essere univocamente qualcosa? Forse solo gli zingari, che vivono ai margini della città e con i quali non ci si può mescolare.Persino i cani ombrosi, così sono definiti nell’ungherese di quel villaggio, quando diventano di casa vengono tutti chiamati Zingaro: saranno imprigionati per sempre, legati a una catena lunga quanto basta per rendere ancora più tossica la loro frustrazione, devono rimanere affamati – e disperatamente arrabbiati. Il rapporto con gli animali, le descrizioni riguardanti gatti, galline, cani turbano noi animalofili contemporanei, ma vanno al cuore di una dimensione antropologica che si accompagna ad un tessuto sociografico molto denso, che per il rapporto con le origini si può accostare alla prosa autobiografica de Il popolo delle puszte (1936) di Gyula Illyés. La famiglia, raccontata in prima persona da Figlio bambino e poi adulto, è considerata estranea dagli abitanti del villaggio, per origine e appartenenza sociale, etnica, religiosa («Noi non siamo contadini», è l’assioma della madre); un’estraneità si esprime attraverso il disprezzo o l’inganno: la madre viene imbrogliata sul resto al negozio, al mercato; Figlio viene picchiato e insultato dagli altri ragazzini e quando chiede alla madre perché lo hanno chiamato «sporco ebreo», lei risponde: «Perché per loro sono ebrei tutti quelli che non muoiono dove sono nati. Sentono che chi se ne va è diverso. Sentono che chi non è come loro ha l’odore del diverso. Sopportano solo quelli come loro. Chi se ne va è un traditore. Lo è anche chi è diverso. E anche chi vuole essere diverso. Considerano ebreo chi usa il cervello. Chi è più intelligente di loro è ebreo. (…) Odiano chi non è come loro. Chi pensa. Chi riflette. Chi vuole altro. Chi vuole comunque qualcosa».
I senza terra non è un romanzo sociografico d’inchiesta, genere «di confine» che ha caratterizzato la letteratura ungherese in varie fasi, in particolare negli anni ’30, ’50 e ’70-’80; è descrittivo e per questo colpisce al cuore. Mostra l’incomunicabilità della sofferenza, come ci ricordano i numeri che ciclicamente compaiono, sin dall’incipit: «Camminiamo e restiamo in silenzio. Ci sono ventitré anni tra noi. Il ventitré non si può dividere. Il ventitré è divisibile solo per se stesso. E per uno. C’è questa solitudine tra di noi. Non si può scomporre in parti. Bisogna trascinarsela tutta intera».
Borbély non volle trasformare il titolo ungherese in Nincstelenség (l’essere nullatenenti; la condizione di povertà e bisogno), come chiestogli dal referente editoriale, titolo che avrebbe richiamato quello del romanzo con il quale per la prima volta uno scrittore ungherese, Imre Kertész, ha ricevuto il premio Nobel nel 2002: Sorstalanság (Essere senza destino). Teneva molto al «suo» titolo, rimasto nel sottotitolo: Már elment a Mesijás? Se n’è già andato Messiash? Ma chi è il «Messia» a cui si allude? Nel romanzo compare lo zingaro Messiash, che ha solo due denti ed è una sorta di testimone muto, figura angelica e insieme fool silente, a cui si affidano i lavori pesanti e schifosi, come ripulire dalla merda le tubature e i fossi intasati. Messia potrebbe essere il fratellino di Figlio, «Piccolo», che muore presto, come morta in nuce è la speranza di redenzione e resurrezione, nel romanzo. Del suo libro, Borbély ha scritto: «Ha una base autobiografica, si tratta dunque di finzione limitata». Ci torna in mente quando leggiamo l’episodio dell’angelo passato per il villaggio: «Una volta abbiamo avuto una giornata felice. Me ne ricordo, stavamo raccogliendo le prugne».
Spazi tra le parole
La traduttrice Mariarosaria Sciglitano ha saputo rendere in modo eccellente la lingua de I senza terra, che è quasi puritana, ridotta all’osso. Frasi brevi, a volte di sole due-tre parole, che si limitano a comunicare dati. Il resto è superfluo. La lingua corrisponde allo spazio in cui il romanzo si svolge, a una comunità caratterizzata dal nincs, dal non essere e non avere nulla che impedisce una visione complessa dell’esistenza, la riduce ad un’essenza brutale e crudele, rende scarna e cruda la lingua in opposizione a costruzioni retoriche più articolate. Al centro sembra esservi solo la sopravvivenza, e questo dato restringe notevolmente la prospettiva, la lingua e la coscienza. Il lettore non si aspetti un «nuovo Márai», che lo avvolga con dolcezza nella malinconia della fine di un’epoca o nella lucida consapevolezza «borghese» del Diario e dei romanzi tardi. Szilárd Borbély è il cantore del presente che è abitato dal passato, mentre il mondo appare distratto, come si legge nei suoi versi tratti da La sequenza di Auschwitz: «Sono già morto una volta, dunque/ e per sopravvivere alla mia morte/ mi sono rivestito/ di colui che mi assomiglia. L’Altro, da allora, vive qui con me (…).// Vivo ancora, ma non sono io/ L’uomo che verrà vive dentro di me».[Cinzia Franchi 28/06/2016]
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