«In Iran il velo non è una scelta». Nessuno
spazio per i fraintendimenti nelle parole di Shirin Ebadi – primo
giudice donna del Paese, poi scrittrice e Nobel per la Pace nel 2003.
Coglie l’occasione delle diverse platee che si stanno riunendo, proprio
in queste settimane, per la presentazione del suo ultimo libro: Finché non saremo liberi,
tradotto da Alberto Cristofori per Bompiani (pp. 247, euro 18).
L’obiettivo appare chiaro sin dalle prime battute di ogni incontro:
ribadire la difficile condizione femminile in Iran. «Aiutate le donne
iraniane. Mi chiedo perché le vostre rappresentanti indossino il velo
quando vengono a Teheran. È un’imposizione».
Più che un grido di protesta, quella di Ebadi è una testimonianza coraggiosa. Come, del resto, lo è tutta la sua opera, da Il mio Iran (2006) fino a La gabbia d’oro
(2008). Finché non saremo liberi è il ritratto privo di omissioni di
una donna che ha messo a repentaglio la sua vita e quella dei familiari,
per difendere i diritti negati ai suoi connazionali. Nell’ultimo
romanzo, la profondità con cui il racconto delle esperienze personali
interseca la narrazione degli eventi politici dell’Iran, negli anni ’90 e
2000, permette di esplorare molti dettagli, dalle perquisizioni
intimidatorie all’esilio: «Scesi le scale verso il taxi in attesa,
sentendo ancora il calore della sua mano sulla schiena. Non sapevo che
non avrei mai più rivisto la mia casa, o il mio paese».Ampio spazio viene riservato al racconto della vita pubblica, con uno spaccato rilevante sull’ascesa al potere di Mahmud Ahmadinejad, dall’elezione a sindaco di Teheran al secondo e controverso mandato di presidente della Repubblica islamica. «In quelle tese giornate di fine giugno, lo Stato inviò la polizia, gli agenti di sicurezza e i paramilitari in giro per le strade. Tutti in assetto di guerra. Un miliziano sparò a una giovane donna di nome Neda Agha-Soltan. Una passante riprese la scena e la postò online; l’uccisione di Neda divenne virale e il suo volto raggelato finì per simboleggiare la brutalità di quel periodo».
Finché non saremo liberi è un romanzo complesso e completo, i cui venti capitoli compongono una parabola di sensazioni, talvolta contrastanti: la paura di un arresto, l’indignazione per le ingiustizie, l’ansia per la propria famiglia, la determinazione nel portare a termine i propri obiettivi. Un climax dal valore liberatorio, quasi salvifico. Un macigno da portare sulla testa, tutti insieme.
Minaccia di morte, la coppia di pagine d’apertura, in cui Ebadi cita il messaggio intimidatorio ricevuto nel 2004, fa da prologo al testo: «Se continui così, saremo costretti a porre fine alla tua vita. Se ci tieni, smettila di diffamare la Repubblica Islamica». Lei, invece, non ha mai smesso di difendere i diritti umani, prima come avvocato – impegnandosi nella tutela di donne e bambini, e offrendo assistenza legale gratuita ai perseguitati politici del suo paese – poi come scrittrice e attivista, con i suoi libri e le testimonianze in giro per il mondo. «Non si può dividere la mia storia da quella dell’Iran. Sono strettamente collegate. Questo libro testimonia quello che il popolo iraniano ha subìto negli ultimi dieci anni». Finché non saremo liberi è il resoconto di intercettazioni telefoniche illecite, sequestri e ostacoli burocratici immotivati. Eppure, non è tutto: nonostante Shirin Ebadi viva in esilio in Gran Bretagna, da circa sette anni, il fisco iraniano continua a pretendere il versamento delle tasse sul Nobel ricevuto nel 2003, sebbene quel tipo di premio ne sia esente per legge.
L’esilio, poi, è l’occasione descrivere un fallimento inatteso: il matrimonio. Suo marito Javad, accusato di adulterio per aver avuto una relazione con un’altra donna, viene imprigionato a Evin: il carcere costruito nella periferia Nord di Teheran durante la Rivoluzione del ’79, per la detenzione dei prigionieri politici. Il tradimento – orchestrato dal Ministero dell’Intelligence e filmato da agenti di sicurezza – oltre a mandare all’aria il trentennale legame coniugale, diventa uno strumento di ricatto nei confronti di Javad: «Lei deve mettersi davanti a una cinepresa e dire quello che io le chiederò di dire. Se lo fa la lasceremo andare». Javad avrebbe dovuto sostenere che il Premio Nobel ricevuto anni prima da sua moglie fosse immeritato, e che Ebadi fosse una confidente del governo. Una rottura del rapporto matrimoniale, generata più dall’infedeltà amorosa che dal forzato tradimento ideologico. La tenacia della donna che aveva combattuto contro il regime e le sue ingiustizie si fa silente. Ebadi si trasforma in una donna fragile, schiacciata dalle miserie della propria vita personale, quando anni dopo Javad – seduto su una panchina del parco a Boston – le dice: «L’unica cosa che sei riuscita a fare è rendere infelice te e la tua famiglia».
Insomma, non c’è finzione narrativa nelle 247 pagine di questo libro, né artifizi letterari. Non c’è spazio per tracciare il profilo psicologico dei personaggi. O forse manca la volontà di farlo. Lo schema della narrazione è reso avvincente dalla sua veridicità. Ebadi cerca di rendersi voce distinguibile in un contesto necessariamente corale, come quello di un paese. E il risultato primario è un romanzo che porta i segni di un’assenza: quella del proprio paese, l’Iran.
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