Da un balcone del Barrio Chino un bambino guarda i suoi coetanei
tirare dei calci ad un pallone nella piazza sottostante. Sono i primi
anni quaranta, la Guerra Civile spagnola è finita da poco e la dittatura
di Franco impone silenzio e obbedienza. Quel bambino è Manolo Vázquez
Montalbán, l’inventore del «più stravagante e straordinario detective di
tutto il Mediterraneo», Pepe Carvalho. Solo dopo verranno il Montalbano
di Camilleri, il Fabio Montale di Izzo e il commissario Charitos di
Markaris. Montalbán ci ha lasciato di colpo nel 2003 e ora nel suo
quartiere, ribattezzato Raval, lo ricordano solo una brutta piazza e una
targa in quella che era la casa della sua infanzia. Con queste due
immagini si apre El niño del balcón. La Barcellona di Manuel Vázquez Montalbán,
il bel libro di Giuliano Malatesta (Giulio Perrone, pp.104, euro 12).
Di Montalbán si è scritto molto. Soprattutto in Spagna, ma anche in
Italia, paese a cui lo univa l’amore per la politica, la cucina e il
calcio. E pure l’amicizia con Inge Feltrinelli, Slow Food e il manifesto.
MALATESTA, PERÒ, ci offre un viaggio diverso e suggestivo che lega indissolubilmente lo scrittore alla sua città e ancora di più al suo Barrio Chino, un quartiere di operai e represaliados del franchismo che i «missili intelligenti lanciati dagli urbanisti» hanno distrutto con la scusa di mandare via «poveri e puttane». È una critica sagace quella di Malatesta ai troppi processi di riqualificazione urbana che sventrano i quartieri popolari e che nella Barcellona post-olimpica trovano uno dei suoi casi emblematici. Quelle che ci regala Malatesta sono «storie di altri tempi, di una Barcellona che non esiste più». Un vagabondaggio che ripercorre la Ciudad Condal di Manolo e ne recupera la memoria collettiva negata dal franchismo e «dall’autocompiaciuto post modernismo catalano».
Si susseguono così ricordi e immagini che dagli anni bui della dittatura del Generalísimo arrivano fino al nuovo millennio. I lunghi mesi passati da Montalbán nel carcere di Lerida per aver cantato Asturias, patria querida, quando era un giornalista ventitreenne militante del partito comunista. Lì, dietro le sbarre, conosce Biscuter, la persona che gli ispirerà il personaggio del futuro aiutante e cuoco di Carvalho. E poi gli ultimi infiniti anni della dittatura quando muove i primi passi nel mondo della letteratura e, criticato dalla gauche divine barcellonese che si riunisce in locali come il Bocaccio, sceglie il genere poliziesco per «portare avanti una critica sociale utilizzando un formato popolare». Al Bocaccio e alla borghese Calle Tusset, Montalbán preferiva le sordide strade del Raval, il bancone del Boadas, i tavoli di Casa Leopoldo e il mercato della Boquería. È in quel triangolo che si svolgono la maggior parte delle prime storie di Carvalho, cronache della Spagna che passa «dalla speranza pre-democratica all’inganno post-franchista».
MA NON C’È SOLO questo nel libro di Malatesta. C’è la Barcellona invasa dai grandi scrittori latinoamericani come Cortázar, Vargas Llosa o Gabo. La Barcellona della «super agente letteraria» Carmen Balcells, che seppe lanciare al firmamento delle lettere anche Montalbán. C’è quella Barcellona amata da Orwell o Genet, vuoi per il fermento politico, vuoi per la vita senza tempo dei cabaret e dei bordelli del Barrio Chino. C’è la Barcellona anarchica, la Rosa de fuego, e la Barcellona de La Criolla e di Madame Petite. Ma c’è anche il Barça, che per un «tifoso novecentesco» come Montalbán era «l’esercito simbolico, disarmato ma imponente, della catalanità». E, ovviamente, la gastronomia, rivendicata dal creatore di Carvalho come un oggetto letterario. C’è tutto questo, ma anche molto di più. Il tutto con un velo di saudade per una città in cui ora, come scrisse lo stesso Manolo ne Il pianista, «le farmacie sembrano i caffè e i caffè farmacie».
[Steven Forti 26/04/2017]
MALATESTA, PERÒ, ci offre un viaggio diverso e suggestivo che lega indissolubilmente lo scrittore alla sua città e ancora di più al suo Barrio Chino, un quartiere di operai e represaliados del franchismo che i «missili intelligenti lanciati dagli urbanisti» hanno distrutto con la scusa di mandare via «poveri e puttane». È una critica sagace quella di Malatesta ai troppi processi di riqualificazione urbana che sventrano i quartieri popolari e che nella Barcellona post-olimpica trovano uno dei suoi casi emblematici. Quelle che ci regala Malatesta sono «storie di altri tempi, di una Barcellona che non esiste più». Un vagabondaggio che ripercorre la Ciudad Condal di Manolo e ne recupera la memoria collettiva negata dal franchismo e «dall’autocompiaciuto post modernismo catalano».
Si susseguono così ricordi e immagini che dagli anni bui della dittatura del Generalísimo arrivano fino al nuovo millennio. I lunghi mesi passati da Montalbán nel carcere di Lerida per aver cantato Asturias, patria querida, quando era un giornalista ventitreenne militante del partito comunista. Lì, dietro le sbarre, conosce Biscuter, la persona che gli ispirerà il personaggio del futuro aiutante e cuoco di Carvalho. E poi gli ultimi infiniti anni della dittatura quando muove i primi passi nel mondo della letteratura e, criticato dalla gauche divine barcellonese che si riunisce in locali come il Bocaccio, sceglie il genere poliziesco per «portare avanti una critica sociale utilizzando un formato popolare». Al Bocaccio e alla borghese Calle Tusset, Montalbán preferiva le sordide strade del Raval, il bancone del Boadas, i tavoli di Casa Leopoldo e il mercato della Boquería. È in quel triangolo che si svolgono la maggior parte delle prime storie di Carvalho, cronache della Spagna che passa «dalla speranza pre-democratica all’inganno post-franchista».
MA NON C’È SOLO questo nel libro di Malatesta. C’è la Barcellona invasa dai grandi scrittori latinoamericani come Cortázar, Vargas Llosa o Gabo. La Barcellona della «super agente letteraria» Carmen Balcells, che seppe lanciare al firmamento delle lettere anche Montalbán. C’è quella Barcellona amata da Orwell o Genet, vuoi per il fermento politico, vuoi per la vita senza tempo dei cabaret e dei bordelli del Barrio Chino. C’è la Barcellona anarchica, la Rosa de fuego, e la Barcellona de La Criolla e di Madame Petite. Ma c’è anche il Barça, che per un «tifoso novecentesco» come Montalbán era «l’esercito simbolico, disarmato ma imponente, della catalanità». E, ovviamente, la gastronomia, rivendicata dal creatore di Carvalho come un oggetto letterario. C’è tutto questo, ma anche molto di più. Il tutto con un velo di saudade per una città in cui ora, come scrisse lo stesso Manolo ne Il pianista, «le farmacie sembrano i caffè e i caffè farmacie».
[Steven Forti 26/04/2017]
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