Non le risorse dell’immaginazione, con il gusto di inventare
intrecci, personaggi e contesti sui quali proiettare, magari, le proprie
ossessioni, sembrano alimentare i libri di V. S. Naipaul, bensì una
sorta di tropismo della mente che lo orienta a captare i dettagli di
quanto osserva, e tra tutti eleggere quelli che meglio si sintonizzano
con la sua malinconia di fondo, non di rado venata da una rabbia che
prende la strada dell’ipercriticismo, al quale non sfugge l’analisi
della sua persona, ripetutamente investita da un cupo dissenso.
Poi, quando i taccuini sono saturi di appunti e una scintilla arriva
ad accenderli, a volte si apre la strada del romanzo; ma è la estrema
flessibilità di questa forma della narrativa, la sua ribellione a ogni
velleità di stabilirle dei confini, a autorizzare l’iscrizione dei
resoconti dei viaggi o degli approdi di V.S. Naipaul sotto l’etichetta
«romanzo».
Somiglia più a un diario intimo, infatti, l’ultimo libro che Adelphi
ha appena aggiunto al progetto di ritraduzione delle opere di Naipaul,
L’enigma dell’arrivo, già pubblicato da Mondadori nel 1988, e ora
ritradotto da Marco e Dida Paggi (pp. 412, euro 24,00), che si presenta
appunto come un «Romanzo in cinque parti», sebbene sia più vicino a un
memoir, arbitrario nella sua scelta di non seguire il tempo cronologico
bensì quello dei ricordi, così come si avviluppano intorno a
associazioni contingenti di pensieri.
Solo sul finire del libro apprendiamo da quale pretesto partì l’idea
di scriverlo: nell’agosto del 1984, inviato dalla «New York Review of
Books» a seguire la Convention repubblicana di Dallas, quello che era
già l’autore affermato di alcuni mirabili romanzi – fra i quali
l’insuperato Alla curva del fiume, del 1979 – se ne tornò deluso dalla
scenografia dell’evento e non trovò nulla da scrivere che sfuggisse a
quanto era già stato predisposto perché i giornalisti ne facessero uso.
Tuttavia, una volta tornato nel Wiltshire, i contorni di ciò che
aveva osservato cominciarono a imporsi alla sua scrittura e Naipaul
sperimentò l’eccitazione di «trovare esperienza là dove credevo che non
ce ne fosse»: fu questo il movente dal quale si originò la possibilità
di recuperare alla sua narrativa il ricordo dei lunghi anni seguiti
all’approdo in Inghilterra, nel 1950.
Da Port of Spain, capitale dell’isola di Trinidad dove i suoi
antenati originari delle pianure del Gange si erano trasferiti nel 1845,
il diciottenne Naipaul aveva fatto tappa a Porto Rico, poi a New York e
finalmente in nave aveva raggiunto Southampton, sottopondosi a un lungo
viaggio che gli fornì preziosi materiali di scrittura, poi rielaborati
nella squallida pensione londinese di Earls Court dove era infine
approdato, o nella misera stanzuccia dove aveva passato qualche tempo a
Oxford. Anche una volta arrivato in Inghilterra, l’aspirante scrittore
tendeva tuttavia a riprodurre i confini angusti in cui si era svolta la
sua vita a Trinidad, lasciata bruscamente – avrebbe scritto poi – «quasi
in un accesso di isteria». Lì aveva vissuto circondato dalla pubblicità
di prodotti occidentali che non esistevano più, aveva studiato il
cinema francese e quello russo senza mai averne visto un film, aveva
sognato di ricongiungersi alla grandezza dell’impero britannico che le
piazze monumentali di Londra ora gli offrivano come un orizzonte
tramontato, suggerendogli di essere arrivato nell’epoca sbagliata,
troppo tardi per partecipare di una grandezza ormai irrecuperabile.
Così, i suoi vagabondaggi londinesi erano «ciechi e senza gioia»,
mentre la disillusione gli inibiva la fantasia e «la capacità di
sognare». Ma, intanto, si andava compiendo nella mente di Naipaul il
viaggio «dal non vedere al vedere», e insieme a una più raffinata
capacità di osservazione cresceva la consapevolezza di quanto ottuse
fossero state le sue ratifiche dell’esistente quando ancora viveva
sull’isola caraibica, dove i soprusi erano legge, e persino i bambini
venivano frustati; ma – scrive – «Nessuno nasce ribelle. La ribellione
va appresa».
Man mano che si allontana da Trinidad dove «nulla aveva sapore e
anche la luce aveva una qualità ostile alla vita», Naipaul sperimenta
uno stupefacente sdoppiamento della sua personalità: da una parte il
futuro scrittore, una persona istruita, con un alto concetto della
missione cui intende dedicarsi, dall’altra l’uomo «profondamente
ignorante», pieno di pregiudizi sulle comunità dell’isola dalla quale
era partito, che – fra l’altro – non essendo mai entrato in un
ristorante «trovava ripugnante l’idea di dover mangiare del cibo
cucinato da mani estranee».
Dopo avere vagheggiato per anni una nuova vita in Inghilterra, ora
Naipaul misurava le conseguenze della sua «insicurezza coloniale»,
l’angoscia del distacco da quanto aveva già scritto e la riluttanza a
affrontare un nuovo «travaglio». Disfece quanto aveva costruito,
vendette la casa londinese e ripartì.
Troppo angoscioso per esprimersi «con lacrime e rabbia», il dolore di
questa disfatta si presentò a Naipaul «nel sogno ricorrente della testa
che esplodeva». Ma l’Inghilterra aveva in serbo per lui una seconda
chance: vi tornò nel 1970 e si andò a insediare nel cottage di una villa
situata nelle campagne intorno a Salisbury, nel Wiltshire, dove restò
undici «anni felici», nonostante i vissuti di rovina e di abbandono,
insieme al perdurante sentimento di trovarsi fuori posto, trovassero un
riverbero non casuale nella decadenza di ciò che lo circondava: una
tenuta trascurata e malamente appesa al suo passato edoardiano, dove
Jack, il padrone del cottage, esibiva una intimità inquietante con il
ciarpame accumulato da quasi un secolo.
Pagine e pagine vengono impiegate per descrivere, senza alcuna
tentazione lirica (questa la buona notizia) un giardino che va in
malora, foglie che si posano, chiavi che si smarriscono, paesaggi che
mutano con la potatura, cancelli fuori squadra, chiavistelli
abbandonati, senza svelare (e questa è la cattiva notizia) nulla di
significativo. Nella villa vanno e vengono avventori i cui destini si
incrociano con le persone che ora ci lavorano: i Phillips, una coppia di
custodi austeri e soddisfatti del loro lavoro, la cui ambiguità
colpisce l’osservazione sospettosa di Naipaul, e poi il giardiniere
Pitton, non facile alla parola, dotato di «straordinaria compostezza», e
soprattutto di una bella moglie di cui Naipaul sottolinea la stupidità,
e che gratifica dello stesso apprezzamento che riserverebbe a un bel
capo di bestiame.
[Francesca Borrelli 27/11/2016]