Un estratto del nuovo libro di Simona Vinci, sulle persone che in 50 anni furono rinchiuse nel manicomio di Leros, in Grecia
Il romanzo di Simona Vinci – che è stata più volte a Leros, a raccogliere documenti e voci di testimoni – racconta la storia di Angela, una volontaria italiana che arriva nel manicomio e ne ricostruisce i segreti, le storie terribili di chi ci fu rinchiuso – al tempo della dittatura dei colonnelli anche molti dissidenti politici – come se dall’isola non se ne fosse mai andato nessuno: Basil il gigante, un mistico troppo incontrollabile per poter essere contenuto da un monastero, o il poeta Stefanos, ispirato allo scrittore Stefano Tassinari, a cui il libro è dedicato, e al poeta greco Ghiannis Ritsos – un suo verso dà il titolo al romanzo –, presenze che si ricollegano a quelle dei matti che Vinci vedeva da bambina per le strade di Budrio, il paese in cui è cresciuta. «Ogni storia è una storia di fantasmi, e questa non fa eccezione», scrive Simona Vinci all’inizio del libro.
I fantasmi che Simona Vinci ha cercato – oltre a quelli della sua vita – sono stati fotografati da Antonella Pizzamiglio nel 1989, e poi raccolti nella mostra Leros, anche il nulla ha un nome. Ma il fantasma da cui parte il romanzo è una bambina di sette anni legata nuda a un letto negli anni Sessanta in un centro per il disagio psichico di Grugliasco, vicino a Torino. La fotografia fu pubblicata dall’Espresso nel 1970 e ha accompagnato la scrittura del libro. Nell’estratto, Vinci la descrive.
Non ti scordar di me
Un lettino di ferro con le sbarre bianche e un corpo nudo, quello di una bambina tra i sette e i dieci anni. Che è una femmina, si capisce solo dal taglio tra le gambe unite e tenute ferme da una cinghia di contenzione. Anche le braccia sono legate alle sponde con due strisce di tela e tutto il peso del corpo si regge sui gomiti. Dietro la schiena, un cuscino macchiato e sotto il sedere, una tela cerata. Nell’angolo in fondo a destra si intravede un materasso a righe.
Poi c’è il buio.
La fotografia è in bianco e nero e non so se è questo a rendere tanto drammatica l’oscurità che sembra avanzare e gonfiarsi a inghiottire tutto come un vortice d’aria nera. Uno spazio infinito si estende da lí all’eternità e dentro quello spazio sono sicura che ci siano tutti i demoni del mondo.
Non saprò mai il nome di quella bambina.
Non saprò mai la sua data di nascita, né quella di morte. Non so nemmeno se sia effettivamente morta.
Se fosse viva, se è viva, oggi avrebbe circa sessant’anni. Li ha zittiti, i demoni, o sono stati i demoni a zittire lei? Quello che so è che questa fotografia fu scattata nella seconda metà degli anni Sessanta dentro il centro medico-pedagogico Villa Azzurra dell’ospedale psichiatrico di Grugliasco, in provincia di Torino, e venne pubblicata sul paginone centrale della rivista «l’Espresso» il 26 luglio 1970 con il titolo: Ma è per il suo bene. Non tardarono ad aggiungersi racconti e testimonianze di bambini legati, costretti da camicie di forza, sedati, sottoposti a elettromassaggi cerebrali ed elettrochoc ai genitali spacciati come cura d’urto per pipí notturne o per autoerotismi inopportuni, forse addirittura utilizzati per punirli. Ragazzini spinti a battersi gli uni contro gli altri come cani – tre round di tre minuti ciascuno – per imparare la dura legge della vita (vincere o essere sconfitti), e accuditi, si fa per dire, da infermiere e inservienti che non conoscevano i loro nomi né le loro storie e per indicarli li chiamavano «arnesi».
Scoppiò uno scandalo e il direttore dell’ospedale, il dottor Giorgio Coda – conosciuto come l’elettricista data la sua predilezione per l’utilizzo dell’elettrochoc – fu messo sotto inchiesta per il reato di abuso di correzione. Ci vollero quasi dieci anni, e la legge Basaglia di mezzo, prima che Villa Azzurra chiudesse definitivamente i battenti.
Si racconta che la bambina della fotografia, quando i testimoni si avvicinarono al suo letto di contenzione, cercò di allungare una mano verso di loro. Forse per sfiorarli, forse per afferrarli e farsi strappare via da quell’incubo nero di solitudine e terrore, ma riuscí soltanto a sollevare la testa e una parte del busto. Il tempo per il fotografo di scattare e la bambina ricadde all’indietro insieme alle mosche che se la mangiavano viva.
Ineducabile.
Pericolosa a sé e agli altri.
Come tutti i centocinquanta bambini reclusi nel padiglione B di Villa Azzurra, un nome delicato e vezzoso che evoca pareti tinteggiate color cielo e fiorellini pallidi appena sbocciati, i myosotis, o non ti scordar di me.
Sono anni che questa foto mi insegue. L’ho stampata su un foglio A4 e l’ho appesa con due pezzi di scotch strappati con i denti. L’ho appesa al muro, alla parete di un armadio, a uno specchio, a una porta, l’ho appesa in ogni stanza nella quale mi sono ritrovata a lavorare in questi ultimi anni. E l’ho fatto prima di sapere in quale angolo del mondo fosse stata scattata, in che anni, e quale fosse la sua storia.
Mi colpisce, adesso, che l’anno nel quale questa immagine vede la luce, cioè viene pubblicata su una rivista, sia proprio l’anno della mia nascita, cosí come mi colpisce il fatto che sia stata scattata proprio in Italia, perché io sono italiana.
Mi colpisce perché sono stata una bambina ineducabile. Sono stata una bambina pericolosa per sé e per gli altri. Mi è andata bene. Se fossi nata solo cinque anni prima del 1970, in un altro contesto sociale, avrei potuto essere io quella bambina nuda, legata con cinghie di contenzione a un lettino spinto contro i margini dell’abisso dove, se precipiti, non ci sarà nessuna mano ad afferrarti.
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