Accade di questi tempi di leggere la
storia terribile e meravigliosa del giovane sottotenente dell’Armata
rossa Lev A. Zasesckij, narrata dal famoso neuropsicologo Aleksandr
Lurija ne Un mondo perduto e ritrovato (pubblicato in
traduzione italiana da Adelphi, 2015) e pensare che essa sia metafora
del nostro presente. Durante la seconda guerra mondiale Zaseskij il 2
marzo 1943, mentre combatteva presso Smolensk, venne colpito da una
pallottola alla testa e si risvegliò immerso in una specie di nebbia, la
memoria vuota di tutto, se non di singole parti isolate che non avevano
ordine né costrutto, al punto di pensare di essere stato ucciso
veramente. «Gli è difficile credere di essere realmente vivo», annota
Lurija, che ne scrive intrecciando la propria scrittura a quella del suo
paziente che seguirà costantemente nel corso dei successivi trenta anni
in un percorso difficilissimo, impervio e ostico quant’altri mai, di
recupero sempre incerto della propria memoria, della cognizione dello
spazio e del tempo, della parola, della grammatica per leggere e
scrivere. Siamo di fronte a quello che nella prefazione Oliver Sacks,
che corrispose con Lurija proprio a proposito di questo libro, definisce
un «romanzo neurologico», un genere del tutto nuovo perché nello stesso
testo si alternano le pagine scritte da Zaseskij e le osservazioni di
Lurija, che con lui interloquisce e osserva, partecipe, la perdita di un
mondo e la volontà mai sconfitta a ricostruirne un altro, nonostante le
spaventose difficoltà.
Senza rimuovere le differenze di una
vita così segnata dalla guerra, la lotta che Zaseskij condusse scrivendo
costantemente ogni giorno righe faticosissimamente tracciate,
reimparando anche a tenere la penna in mano, appare strettamente
intrecciata all’immagine di un mondo sperato e perseguito con la
visionarità delle rivoluzioni, che sembra ormai perso alle nostre spalle
e che ha bisogno, per ritrovarsi, di reimparare un alfabeto di parole e
cose. Rispetto al mondo frammentato in cui viviamo e alla deriva
continentale in corso forse l’unica cosa che possiamo fare è volgere lo
sguardo verso chi ha fatto del proprio sentimento di solitudine e di
isolamento qualcosa di ben diverso dalla sconfitta: l’isola.
Tra il deserto e l’origine
In un testo manoscritto degli anni
Cinquanta Gilles Deleuze osserva come secondo i geografi due sono i tipi
di isole: le isole continentali, ovvero nate da una separazione dal
continente, da una sua disarticolazione; mentre le isole oceaniche,
scrive, «sono delle isole originarie, essenziali». Intitolato Cause e ragioni delle isole deserte
e pubblicato solo nel 2002 in edizione francese da Les Éditions de
Minuit (poi in traduzione italiana per le cure di Deborah Borca nel 2007
da Einaudi) si tratta, come nello stile di Deleuze, di un testo breve
ma densissimo, inizialmente scritto per un numero speciale della rivista
Nouveau Fémina sull’argomento delle isole deserte e vale
sottolineare la valenza particolare della committenza femminile, che
pone l’accento non solo e non tanto sull’isola, quanto proprio sulle
isole deserte. Deleuze osserva che entrambe le isole, quelle
continentali come quelle oceaniche, «testimoniano una profonda
opposizione tra l’oceano e la terra» e in questo non vi è nulla di
rassicurante, anche se l’uomo, per vivere, deve poter presupporre che
questa contrapposizione sia risolta e conclusa, e attribuisce così a
terra e acqua caratteri femminili e maschili, paterni e materni a
seconda della sua fantasia. Perché l’isola è anche l’origine, radicale e
assoluta, ed è a partire da lei e dalle sue acque che si può ricreare
il mondo: è il mare che la circonda il deserto intorno a sé, fuori di
sé, che occorre attraversare per raggiungere questo «uovo del mare»,
come lo definisce Deleuze.
L’isola che forse più corrisponde a
questa immaginifica descrizione deleuziana è la Sardegna, per
raggiungerla occorre attraversare il mare con un viaggio lungo e
impervio, sovente anche oggi. In un bellissimo saggio del 1998,
pubblicato nel volume dedicato alla Sardegna della Storia d’Italia
Einaudi, Salvatore Mannuzzu ha scritto che nonostante spesso al suo
interno il mare non si veda è sempre in mezzo, prova inoppugnabile di
una distanza, una separazione, un qui e un là. Le narrazioni
otto-novecentesche partono proprio da lì, dal tempo lungo per
raggiungere il continente o per tornare dal continente, questione
altrettanto importante per chi la abita o la desidera: sia che si tratti
del Vittorini di Sardegna come un’infanzia, diario del viaggio in nave
organizzato dall’«Italia letteraria » nel 1932, pubblicato nel 1936 con
il titolo Viaggio in Sardegna (solo l’edizione del 1952 avrà il
titolo con cui circola oggi), la cui pagina iniziale si apre proprio
sulle parole desiderio e deserto; fino al recentissimo Chirù di
Michela Murgia, in cui per raggiungere o lasciare la pur cosmopolita
Cagliari occorre comunque prendere un aereo e attraversare il mare,
anche nel deserto del presente.
Nonostante infatti il territorio
italiano si rappresenti in forma apparentemente compatta e lo si sia
rappresentato con una definizione di conio sostanzialmente ottocentesca e
risorgimentale in forma di stivale (quanto ce lo hanno insegnato alle
scuole elementari in geografia, accentuando e sottolineando il carattere
quasi bellico e assai virilista di quello stivale posto a calcare e
calciare gli stati occupanti da cacciare eroicamente, come da famosa
frase di Baretti sul primo numero della Frusta letteraria sui
tanti «Goti e Vandali che dal gelato settentrione dell’ignoranza sono
venuti a manomettere, a vituperare e a imbarbarire il nostro bellissimo e
gloriosissimo Stivale») in realtà ci dimentichiamo sovente che esso si
configura quasi in forma di arcipelago, grazie alla moltitudine di isole
che ne fanno parte, di cui la Sardegna rappresenta la più grande e
anche per molti versi lontana. Non che le altre isole non lo siano: meno
la Sicilia, per raggiungere la quale occorre comunque attraversare lo
stretto, ma geograficamente lontane le Tremiti, le Egadi, le Eolie,
Ustica, Lampedusa, al punto che sovente ci dimentichiamo quasi della
loro esistenza, anche quando non sarebbe il caso, anche quando non
vorremmo. Ognuna considerata ai margini, ognuna trattata come una
colonia fin dall’antichità al punto che per esse e in particolar modo
alla Sardegna si possono flettere le pagine introduttive di Edward Said a
Orientalismo e sostituire alla parola «Oriente» la parola «Sardegna»:
sarebbe così evidente che la Sardegna – e con lei tutti i territori
insulari cosiddetti italiani – è stata nel corso del tempo oggetto di un
colonialismo interno feroce e determinato nel sacrificarla alle forme
identitarie nazionali quando non nazionaliste, desertificandola tramite
l’emigrazione, la mancanza di lavoro e di prospettive.
Nonostante ciò la Sardegna ha avuto e ha
caratteristiche sue proprie di arte, cultura e letteratura tali da
mutare l’isolitudine, termine coniato con connotazione negativa da
Gesualdo Bufalino per la sua Sicilia, in qualcosa di vivo e prezioso per
l’Italia tutta: dai numerosi festival del libro e della lettura a
quelli del jazz e del cinema, da Antonio Gramsci, mai dimenticato almeno
nella sua isola, alla letteratura a firma di scrittrici e scrittori che
hanno narrato storie di sconfitte e di isolamento come Giuseppe Dessì (Paese d’ombre, 1972) e Salvatore Satta (Il giorno del giudizio, 1979) e lo stesso Salvatore Mannuzzu (magnifico e terribile il suo ultimo romanzo Snuff o l’arte di morire,
del 2013), e insieme di singolare forza e determinazione come Grazia
Deledda (splendidamente ripubblicata da Ilisso) e Maria Giacobbe (come
non ricordare il suo Diario di una maestrina, 1957), di migrazione come Mariangela Sedda (Oltremare, 2004, e Vincendo l’ombra, 2009, entrambi per le edizioni Il Maestrale), di canto dell’isola come il bellissimo Passavamo sulla terra leggeri
di Sergio Atzeni (1996), fino alle opere incandescenti di Savina
Dolores Massa, tutta l’isola è stata ed è laboratorio capace di
elaborare le proprie ferite per ricostruire un mondo nuovo, molto più di
quanto la letteratura e cultura nazionale sia riuscita a fare.
Il museo diffuso
Appare in tutta evidenza a Ulassai, dove Maria Lai nel 1981 è stata capace di coinvolgere l’intera comunità del paese nella sua proposta di Legarsi alla montagna (molte le foto e i video in rete e su questo giornale ne ha scritto a più riprese con appassionata partecipazione Arianna di Genova): cambiando così il destino apparentemente segnato del luogo e dei suoi abitanti, uniti allora da un nastro azzurro che andava da una casa all’altra fino alla montagna, con nodi e fiocchi a segnare amicizie e inimicizie, amori e dissapori, e che dura ancora oggi nel museo diffuso di Ulassai e nella sua Stazione dell’arte: memorabili i suoi libri di pane posti su una lunga tavola conviviale, mentre La scarpata, del 1993, costituisce esempio di come una discarica possa divenire qualcosa di potentemente altro, in forma di resti di dinosauro, di antiche epoche ormai perse nel tempo (quanto invece le discariche occupano il nostro presente) sparse sul territorio.
Lotto ancora! intitola il
proprio diario Zaseskij, storia di una terribile ferita che nella
scrittura trova il modo di vivere in un mondo di parole estranee e di
rigenerare la memoria e il linguaggio, le parole e i significati, anche
il significato della parola «differenza». Lottano ancora le donne e gli
uomini della Sardegna, da Porto Torres a Portovesme le operaie e gli
operai, minatori e minatrici (bellissimo il documentario di Valentina
Zucco Pedicini Dal profondo, 2013) del Sulcis e di Ottana hanno lottato e lottano ancora e questo fa la differenza.
Deleuze conclude il suo saggio sulle
isole deserte osservando come una seconda origine, dopo una prima
creazione, è affidata agli uomini, e le isole, quasi in sorta di uovo
fecondatore, sono spesso abitate da comunità femminili o meglio, si
vorrebbe aggiungere, nelle donne come Maria Lai e le altre tutte della
Sardegna si riconosce la differenza. Occorre ri-cominciare e l’isola
deserta è la materia per poterlo fare, parola dopo parola, pietra dopo
pietra, come nel canto delle pietre che l’artista Pinuccio Sciola, da
poco scomparso, riusciva a far risuonare nel suo giardino di San
Sperate: parola-pietra scabra ed essenziale proprio come la Sardegna,
uovo del mare.
5 – continua
SEPARARSI DALL’ISOLAMENTO E DISTACCARSI DALLA RIVA
A scrittrici e scrittori della Sardegna, Laura Fortini e Paola Pittalis hanno dedicato un libro dal titolo Isolitudine,
pubblicato per Iacobelli editore nel 2010. Diviso in quattro capitoli,
ciascuno è un focus dettagliato sulle scritture intese in senso ampio
come esperienze e saperi che hanno avuto origine in Sardegna. Dalle voci
delle maestre, crocevia di autoformazione e sperimentazione, alle
figure dello «straniero» come percorso tematico identitario in costante
apertura, fino ad arrivare alla linea critico-genealogica riconducibile a
Grazia Deledda, attraversando in particolare le narrazioni di Salvatore
Mannuzzu e Michela Murgia. A intersecarsi alcuni temi cruciali che, tra
percezione e rappresentazione, restituiscono la risorsa della
solitudine intesa come sapere di sé che si sottrae all’isolamento.
*
Domani si sbarca sui giardini
galleggianti, isole di coltivazioni che si raggiungono solo dall’acqua,
ecosistemi perfetti conosciuti già dagli Aztechi. Conduce, Michela
Pasquali[Laura Fortini 6/08/2016]
Nessun commento:
Posta un commento