«Fermatevi un momento a pensare alla vostra vita senza Wikipedia.
Dolce fonte di eterno confronto. Angelo dispensatore di informazioni.
Pensate alla vostra vita senza l’opzione di ricerca su Internet». Che la
reazione a questo invito sia il panico oppure il sollievo, il tema
appare di grande attualità, tanto più se affrontato attraverso un
linguaggio irriducibile all’eterno presente del mondo digitale qual è
quello del romanzo di formazione. Esce in questi giorni per Minimum Fax Una vita non mia
(traduzione di Chiara Baffa, pp. 472, € 18,50), opera di esordio della
scrittrice britannica Olivia Sudjic, acclamata dalla stampa anglofona
come il primo grande romanzo su Instagram.
Tra flânerie e mondo pubblico
In realtà, è una definizione inadeguata. Consapevole del ritardo con il quale la letteratura si è aperta all’universo di Internet, la giovane scrittrice – fresca di studi e, come la sua eroina, «dotata di Zeitgeist» – orchestra una storia della quale il mondo digitale non rappresenta soltanto il tema principale ma fornisce la vera e propria impalcatura discorsiva. Il risultato è un avvincente pot pourri di materiale romanzesco vecchio e nuovo, filtrato da una coscienza centrale dal sapore inconfondibilmente jamesiano, che arriva a plasmarsi sui modelli identitari messi in campo dai social network.
Alice Hare, neolaureata confusa e depressa, sbarca a New York da Londra per assistere la nonna malata di cancro, con il recondito desiderio di venire a capo di una storia familiare complessa. Alice è la figlia adottiva di una madre anaffettiva e di un padre misteriosamente scomparso dopo un trasferimento in Giappone. A convincerla ad attraversare l’oceano sono state le lunghe lettere nelle quali, per scuoterla dal torpore, la nonna paterna documentava i dettagli della sua infanzia, alimentando in lei l’illusione di poter ottenere «un unico racconto coerente che spiegasse chi ero e cosa avrei dovuto fare».
L’arrivo a New York è inebriante e riattiva il desiderio di contatto con il mondo, sopito dalla claustrofobica convivenza con la madre. Alice si abbandona alle strade di Manhattan con il gusto della flâneuse ottocentesca che si mescola alla folla assaporando la bellezza avvolgente della metropoli. «Sviluppai una dipendenza dalle passeggiate in città. La mia solitudine non mi sembrava più un fardello ma un dono. Mentre camminavo, i miei pensieri potevano abbandonare il mio corpo. Mi piaceva scivolare, come un robot sul fondale oceanico, da un punto all’altro del reticolo cittadino». Senonché, nel piacere della flânerie solitaria si annida quello ancor più sottile dell’esibizione pubblica, giacché i vagabondaggi consentono a Alice di animare «la tela nera» del suo account Instagram rimasto fino a quel momento privo di immagini: «volevo che il mondo sapesse che ero lì, non la persona che ero stata ma un’altra che avevo fabbricato con scampoli di New York. La mia visione si concentrò su una città fatta di piccoli quadrati. Cominciai a mandarli giù come le vitamine».
Nella spola compulsiva tra la realtà materiale e quella virtuale rinvigorita dallo scenario newyorkese, la novella Alice in Wonderland s’imbatte nel profilo di Mizuko, una scrittrice americana di origini giapponesi che presenta curiose corrispondenze con il suo. Dall’incontro tra due vite sospese tra Oriente e Occidente, e tra generazioni «nate ai due estremi di una spaccatura», si sviluppa una perturbante vicenda di amicizia, amore e ossessione dagli esiti tanto prevedibili quanto sconcertanti.
Il titolo inglese del romanzo è Sympathy, parola chiave dell’Illuminismo scozzese che Olivia Sudjic resuscita nel significato originario di meccanismo di trasmissione applicato «all’Era della connettività». In cosa consistono i social network se non in un portentoso laboratorio di vere o presunte simpatie universali attraverso le quali partecipare alle vite altrui, ridisegnando all’infinito il profilo della propria? L’intera storia ruota intorno all’ambiguità semantica della «simpatia»: concetto che, già all’epoca di Adam Smith, indicava una gamma di stati emozionali compresa tra il contagio empatico che si attiva automaticamente tra persone sofferenti, e quel dispositivo dell’immaginazione assai più sofisticato, nonché eticamente pregnante, che ci consente di partecipare alla vita degli altri identificandoci nelle loro circostanze e attivando comportamenti solidali. Non per niente, tra i motivi del fascino che Mizuko arriva a esercitare su Alice c’è un racconto, divenuto virale, scritto dopo lo tsunami del 2011 e intitolato Kizuna, termine giapponese che indica «i legami umani o le cose che ci legano».
Una terrifica oppressione
Dopodiché, come aveva ben compreso George Eliot – un’altra scrittrice cult che vedeva nella sympathy il dispositivo privilegiato della forma romanzo – «ci sono cose simpatiche che non sono affatto belle» (così scrive nel suo primo romanzo, Adam Bede), e Una vita non mia ci ricorda che Internet può diventare una di queste. Mentre la cinica Mizuko usa la rete per accalappiare followers e incrementare il proprio potere contrattuale presso la Columbia University, la fragile Alice precipita nel baratro della proiezione paranoide alimentata dalle molteplici identità digitali dell’amica, finendo per perdere il senso del limite tra se stessa e l’altra, tra realtà e finzione, tra onestà e disonestà. In ciò risiede l’aspetto più tradizionalmente didascalico del romanzo, sul quale aleggia un senso di oppressione degno del più smaliziato racconto del terrore. L’aspetto innovativo, invece, è una tecnica narrativa spiazzante, che accumula disordinatamente dati reali, mezze verità e connessioni fallaci, puntando così a riprodurre «l’impressionante volume di informazioni» che scaturisce dall’interazione bulimica con la rete.
Tuttavia, Una vita non mia va oltre il monito contro le trappole del Web, che suonerebbe oramai tanto banale quanto tardivo. A Olivia Sudjic interessa capire se Internet ucciderà il romanzo perché, come sostiene Mizuko, l’accessibilità delle informazioni «tende ad affossare la trama». A giudicare dal successo mondiale che sta ottenendo, si direbbe proprio di no.
[17/09/2017 Elena Spandri]
Tra flânerie e mondo pubblico
In realtà, è una definizione inadeguata. Consapevole del ritardo con il quale la letteratura si è aperta all’universo di Internet, la giovane scrittrice – fresca di studi e, come la sua eroina, «dotata di Zeitgeist» – orchestra una storia della quale il mondo digitale non rappresenta soltanto il tema principale ma fornisce la vera e propria impalcatura discorsiva. Il risultato è un avvincente pot pourri di materiale romanzesco vecchio e nuovo, filtrato da una coscienza centrale dal sapore inconfondibilmente jamesiano, che arriva a plasmarsi sui modelli identitari messi in campo dai social network.
Alice Hare, neolaureata confusa e depressa, sbarca a New York da Londra per assistere la nonna malata di cancro, con il recondito desiderio di venire a capo di una storia familiare complessa. Alice è la figlia adottiva di una madre anaffettiva e di un padre misteriosamente scomparso dopo un trasferimento in Giappone. A convincerla ad attraversare l’oceano sono state le lunghe lettere nelle quali, per scuoterla dal torpore, la nonna paterna documentava i dettagli della sua infanzia, alimentando in lei l’illusione di poter ottenere «un unico racconto coerente che spiegasse chi ero e cosa avrei dovuto fare».
L’arrivo a New York è inebriante e riattiva il desiderio di contatto con il mondo, sopito dalla claustrofobica convivenza con la madre. Alice si abbandona alle strade di Manhattan con il gusto della flâneuse ottocentesca che si mescola alla folla assaporando la bellezza avvolgente della metropoli. «Sviluppai una dipendenza dalle passeggiate in città. La mia solitudine non mi sembrava più un fardello ma un dono. Mentre camminavo, i miei pensieri potevano abbandonare il mio corpo. Mi piaceva scivolare, come un robot sul fondale oceanico, da un punto all’altro del reticolo cittadino». Senonché, nel piacere della flânerie solitaria si annida quello ancor più sottile dell’esibizione pubblica, giacché i vagabondaggi consentono a Alice di animare «la tela nera» del suo account Instagram rimasto fino a quel momento privo di immagini: «volevo che il mondo sapesse che ero lì, non la persona che ero stata ma un’altra che avevo fabbricato con scampoli di New York. La mia visione si concentrò su una città fatta di piccoli quadrati. Cominciai a mandarli giù come le vitamine».
Nella spola compulsiva tra la realtà materiale e quella virtuale rinvigorita dallo scenario newyorkese, la novella Alice in Wonderland s’imbatte nel profilo di Mizuko, una scrittrice americana di origini giapponesi che presenta curiose corrispondenze con il suo. Dall’incontro tra due vite sospese tra Oriente e Occidente, e tra generazioni «nate ai due estremi di una spaccatura», si sviluppa una perturbante vicenda di amicizia, amore e ossessione dagli esiti tanto prevedibili quanto sconcertanti.
Il titolo inglese del romanzo è Sympathy, parola chiave dell’Illuminismo scozzese che Olivia Sudjic resuscita nel significato originario di meccanismo di trasmissione applicato «all’Era della connettività». In cosa consistono i social network se non in un portentoso laboratorio di vere o presunte simpatie universali attraverso le quali partecipare alle vite altrui, ridisegnando all’infinito il profilo della propria? L’intera storia ruota intorno all’ambiguità semantica della «simpatia»: concetto che, già all’epoca di Adam Smith, indicava una gamma di stati emozionali compresa tra il contagio empatico che si attiva automaticamente tra persone sofferenti, e quel dispositivo dell’immaginazione assai più sofisticato, nonché eticamente pregnante, che ci consente di partecipare alla vita degli altri identificandoci nelle loro circostanze e attivando comportamenti solidali. Non per niente, tra i motivi del fascino che Mizuko arriva a esercitare su Alice c’è un racconto, divenuto virale, scritto dopo lo tsunami del 2011 e intitolato Kizuna, termine giapponese che indica «i legami umani o le cose che ci legano».
Una terrifica oppressione
Dopodiché, come aveva ben compreso George Eliot – un’altra scrittrice cult che vedeva nella sympathy il dispositivo privilegiato della forma romanzo – «ci sono cose simpatiche che non sono affatto belle» (così scrive nel suo primo romanzo, Adam Bede), e Una vita non mia ci ricorda che Internet può diventare una di queste. Mentre la cinica Mizuko usa la rete per accalappiare followers e incrementare il proprio potere contrattuale presso la Columbia University, la fragile Alice precipita nel baratro della proiezione paranoide alimentata dalle molteplici identità digitali dell’amica, finendo per perdere il senso del limite tra se stessa e l’altra, tra realtà e finzione, tra onestà e disonestà. In ciò risiede l’aspetto più tradizionalmente didascalico del romanzo, sul quale aleggia un senso di oppressione degno del più smaliziato racconto del terrore. L’aspetto innovativo, invece, è una tecnica narrativa spiazzante, che accumula disordinatamente dati reali, mezze verità e connessioni fallaci, puntando così a riprodurre «l’impressionante volume di informazioni» che scaturisce dall’interazione bulimica con la rete.
Tuttavia, Una vita non mia va oltre il monito contro le trappole del Web, che suonerebbe oramai tanto banale quanto tardivo. A Olivia Sudjic interessa capire se Internet ucciderà il romanzo perché, come sostiene Mizuko, l’accessibilità delle informazioni «tende ad affossare la trama». A giudicare dal successo mondiale che sta ottenendo, si direbbe proprio di no.
[17/09/2017 Elena Spandri]
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