Il 2017 ha segnato il ritorno in grande stile di alcuni tra i
maestri del romanzo americano contemporaneo che, prendendo le mosse
dalla postmoderna reinvenzione e mescolanza di forme narrative, hanno
saputo proporre nuove strategie di racconto, lontane dall’ambizione
totalizzante di autori come Pynchon o DeLillo e pronte a strizzare
l’occhio alle esigenze e alle aspettative dei lettori. È il caso di Paul
Auster, che dopo una serie di opere nelle quali sulla ricerca formale –
spesso felice – dei suoi primi libri sembrava ormai prevalere una
preoccupante tendenza all’autocitazione, ha prodotto con 4321, di
prossima pubblicazione anche in Italia per Einaudi, il suo romanzo più
ambizioso e, secondo buona parte della critica, forse il più riuscito.
Comiche stravaganze
Ed è tanto più il caso di Michael Chabon, che con il suo nuovo libro, Sognando la luna (in uscita da Rizzoli nell’ottima traduzione di Matteo Colombo, pp. 528, euro 22,00) si lancia, a distanza di più di quindici anni da quello che rimane il suo capolavoro, Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay, in un altro, grande affresco storico, che abbraccia eventi cruciali della storia americana (dagli anni trenta a oggi) da una prospettiva idiosincratica e interessantissima nella quale confluiscono romanzo, memoir e tall tale.
A enunciare con chiarezza lo statuto radicalmente «misto» della sua nuova impresa narrativa è lo stesso Chabon, e direttamente all’interno del libro. «Ecco come l’hanno raccontata a me»: questo l’incipit di Sognando la luna, nel quale l’io narrante – che al tempo stesso è e non è Michael Chabon – spiega fin da subito quale sia l’obiettivo che perseguirà: non raccontare la propria storia, ma farsi collettore delle storie altrui per come gli sono state raccontate.
Si comincia allora con l’arresto del nonno del narratore, il quale, licenziato dalla Feathercombs, Inc., «una ditta di New York che fabbricava e vendeva una specie di elaborata molletta per capelli ricavata da anelli di corde per pianoforte», per far posto a Alger Hiss – la presunta spia comunista che, uscita di prigione dopo una condanna per falsa testimonianza, aveva pubblicato un’autobiografia «di una noia bestiale» e di scarso successo – ha aggredito il presidente della Feathercombs in una scena di una comicità irresistibile.
E la stessa comicità, spesso venata di stravaganza scandisce, quasi tutte le vicende che lo vedono protagonista: le sue gesta giovanili, da autentica pecora nera della famiglia (ma anche il fratello Ray, dopo un periodo d’oro da rabbino, si trasformerà in un piccolo criminale, giocatore d’azzardo e imprenditore senza scrupoli), capace di gettare un gatto dalla finestra di casa per pura «curiosità»; l’addestramento militare (di stanza a Washington, mina un ponte a scopo dimostrativo, per provare quanto fragili siano le difese americane in caso di attacco tedesco); il corteggiamento e il matrimonio con una donna che nasconde nel proprio passato un retaggio di dolore e persecuzione antisemita e che precipiterà progressivamente nella follia. E ancora, la lunga passione per i razzi e l’odio per Werner Von Braun, responsabile di aver progettato i missili V2 lanciati su Londra, traghettato in America dopo la guerra e artefice del Saturn V, il propulsore che avrebbe reso possibile la prima spedizione sulla luna.
Le memorie del nonno emergono dal letto cui è inchiodato – malato terminale di cancro – «senza un ordine discernibile», e traboccano di ironia, ma anche di disincanto. «Sono deluso da me stesso. Dalla mia vita. Ogni volta che ho provato a fare qualcosa, sono sempre e solo arrivato a metà», dice al nipote. E quando Mike Chabon gli risponde, «Io di te non mi vergogno» e aggiunge, «E comunque è una gran bella storia. Devi ammetterlo», al nonno non resta che dichiarare: «E allora prenditela. Te la regalo. Quando non ci sarò più scrivi tutto. Spiega. Trova un significato. Usa tante belle metafore come piace a te. Metti tutto in un bell’ordine cronologico, senza mescolarlo a casaccio come faccio io».
Un invito che l’io narrante accoglie solo in parte. Sull’ordine cronologico prevale un gioco di incastri temporali costruiti sul filo della memoria e dell’associazione. Le spiegazioni sono poche e spesso contraddittorie. Le metafore, pur presenti, non abbondano e non dettano legge. E però, quella di Sognando la luna è veramente «una gran bella storia», in perenne e creativa oscillazione tra verosimile e assurdo, misura e eccesso, commedia e tragedia.
È la storia di un uomo e di una donna, del loro amore strambo quanto intenso, dei loro conflitti che sembrano racchiudere quasi per intero il Novecento, le sue glorie e i suoi orrori. La distinzione tra romanzo e memoir, finzione e resoconto storico, viene sistematicamente disattesa e obliterata, e in tal senso non ha tutti i torti chi ha collocato il libro di Chabon nel quadro di quella tendenza all’ibridazione tra fiction e nonfiction che, da Carrère a Knausgard, attraversa tanta parte della prosa contemporanea.
Sognando la luna è però anche un nuovo e prezioso passo in un percorso d’autore che della varietà, della reinvenzione costante, del lavoro metodico sulle forme narrative ha fatto, in fondo, il proprio marchio di fabbrica. Dall’epica del fumetto di Kavalier e Clay ai calchi ottocenteschi e dickensiani di Telegraph Avenue, alla distopia «gialla» del Sindacato dei poliziotti yiddish, per non parlare delle ripetute incursioni nella letteratura pulp, Chabon ha privilegiato una prospettiva plurale e un effetto moltiplicativo, al centro del quale esiste sempre e prima di tutto il piacere di raccontare una storia, e di raccontarla bene.
Quando, in un’intervista seguita al boom di Kavalier e Clay, si era sentito paragonare a Pynchon (del quale, in Sognando la luna, viene espressamente citato L’arcobaleno della gravità) e soprattutto a DeLillo, si era espresso con una modestia e una consapevolezza ammirevoli: «DeLillo sta facendo qualcosa di totalmente differente, molto più analitico e critico, nel senso che si propone come un vero e proprio interprete della Storia americana, mentre a me interessa molto di più raccontare semplicemente una storia».
Un impasto di tradizioni
Raccontare storie è quanto Chabon ha continuato a fare, in una carriera ormai quasi trentennale: senza la consapevolezza programmatica del suo coetaneo Jonathan Franzen, e senza il sottile intellettualismo e l’ostentata brillantezza del più giovane Jonathan Safran Foer. È possibile che la sua scarsa propensione a teorizzare, il suo eclettismo di narratore, la capacità quasi miracolosa di fondere in un nuovo impasto creativo tradizioni a lungo separate, dal pulp al postmoderno, dalla fantascienza alla grande narrativa ebraica, abbiano contribuito, nell’immediato, a renderne più incerto lo status nel quadro della narrativa contemporanea, americana e non. Per le stesse ragioni è però ragionevole ipotizzare che, al netto delle mode e delle fascinazioni di breve durata, saranno proprio le storie di Chabon, Kavalier e Clay e Sognando la luna su tutte, a salire al rango di classici contemporanei.
[Luca Briasco 24/09/2017]
Comiche stravaganze
Ed è tanto più il caso di Michael Chabon, che con il suo nuovo libro, Sognando la luna (in uscita da Rizzoli nell’ottima traduzione di Matteo Colombo, pp. 528, euro 22,00) si lancia, a distanza di più di quindici anni da quello che rimane il suo capolavoro, Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay, in un altro, grande affresco storico, che abbraccia eventi cruciali della storia americana (dagli anni trenta a oggi) da una prospettiva idiosincratica e interessantissima nella quale confluiscono romanzo, memoir e tall tale.
A enunciare con chiarezza lo statuto radicalmente «misto» della sua nuova impresa narrativa è lo stesso Chabon, e direttamente all’interno del libro. «Ecco come l’hanno raccontata a me»: questo l’incipit di Sognando la luna, nel quale l’io narrante – che al tempo stesso è e non è Michael Chabon – spiega fin da subito quale sia l’obiettivo che perseguirà: non raccontare la propria storia, ma farsi collettore delle storie altrui per come gli sono state raccontate.
Si comincia allora con l’arresto del nonno del narratore, il quale, licenziato dalla Feathercombs, Inc., «una ditta di New York che fabbricava e vendeva una specie di elaborata molletta per capelli ricavata da anelli di corde per pianoforte», per far posto a Alger Hiss – la presunta spia comunista che, uscita di prigione dopo una condanna per falsa testimonianza, aveva pubblicato un’autobiografia «di una noia bestiale» e di scarso successo – ha aggredito il presidente della Feathercombs in una scena di una comicità irresistibile.
E la stessa comicità, spesso venata di stravaganza scandisce, quasi tutte le vicende che lo vedono protagonista: le sue gesta giovanili, da autentica pecora nera della famiglia (ma anche il fratello Ray, dopo un periodo d’oro da rabbino, si trasformerà in un piccolo criminale, giocatore d’azzardo e imprenditore senza scrupoli), capace di gettare un gatto dalla finestra di casa per pura «curiosità»; l’addestramento militare (di stanza a Washington, mina un ponte a scopo dimostrativo, per provare quanto fragili siano le difese americane in caso di attacco tedesco); il corteggiamento e il matrimonio con una donna che nasconde nel proprio passato un retaggio di dolore e persecuzione antisemita e che precipiterà progressivamente nella follia. E ancora, la lunga passione per i razzi e l’odio per Werner Von Braun, responsabile di aver progettato i missili V2 lanciati su Londra, traghettato in America dopo la guerra e artefice del Saturn V, il propulsore che avrebbe reso possibile la prima spedizione sulla luna.
Le memorie del nonno emergono dal letto cui è inchiodato – malato terminale di cancro – «senza un ordine discernibile», e traboccano di ironia, ma anche di disincanto. «Sono deluso da me stesso. Dalla mia vita. Ogni volta che ho provato a fare qualcosa, sono sempre e solo arrivato a metà», dice al nipote. E quando Mike Chabon gli risponde, «Io di te non mi vergogno» e aggiunge, «E comunque è una gran bella storia. Devi ammetterlo», al nonno non resta che dichiarare: «E allora prenditela. Te la regalo. Quando non ci sarò più scrivi tutto. Spiega. Trova un significato. Usa tante belle metafore come piace a te. Metti tutto in un bell’ordine cronologico, senza mescolarlo a casaccio come faccio io».
Un invito che l’io narrante accoglie solo in parte. Sull’ordine cronologico prevale un gioco di incastri temporali costruiti sul filo della memoria e dell’associazione. Le spiegazioni sono poche e spesso contraddittorie. Le metafore, pur presenti, non abbondano e non dettano legge. E però, quella di Sognando la luna è veramente «una gran bella storia», in perenne e creativa oscillazione tra verosimile e assurdo, misura e eccesso, commedia e tragedia.
È la storia di un uomo e di una donna, del loro amore strambo quanto intenso, dei loro conflitti che sembrano racchiudere quasi per intero il Novecento, le sue glorie e i suoi orrori. La distinzione tra romanzo e memoir, finzione e resoconto storico, viene sistematicamente disattesa e obliterata, e in tal senso non ha tutti i torti chi ha collocato il libro di Chabon nel quadro di quella tendenza all’ibridazione tra fiction e nonfiction che, da Carrère a Knausgard, attraversa tanta parte della prosa contemporanea.
Sognando la luna è però anche un nuovo e prezioso passo in un percorso d’autore che della varietà, della reinvenzione costante, del lavoro metodico sulle forme narrative ha fatto, in fondo, il proprio marchio di fabbrica. Dall’epica del fumetto di Kavalier e Clay ai calchi ottocenteschi e dickensiani di Telegraph Avenue, alla distopia «gialla» del Sindacato dei poliziotti yiddish, per non parlare delle ripetute incursioni nella letteratura pulp, Chabon ha privilegiato una prospettiva plurale e un effetto moltiplicativo, al centro del quale esiste sempre e prima di tutto il piacere di raccontare una storia, e di raccontarla bene.
Quando, in un’intervista seguita al boom di Kavalier e Clay, si era sentito paragonare a Pynchon (del quale, in Sognando la luna, viene espressamente citato L’arcobaleno della gravità) e soprattutto a DeLillo, si era espresso con una modestia e una consapevolezza ammirevoli: «DeLillo sta facendo qualcosa di totalmente differente, molto più analitico e critico, nel senso che si propone come un vero e proprio interprete della Storia americana, mentre a me interessa molto di più raccontare semplicemente una storia».
Un impasto di tradizioni
Raccontare storie è quanto Chabon ha continuato a fare, in una carriera ormai quasi trentennale: senza la consapevolezza programmatica del suo coetaneo Jonathan Franzen, e senza il sottile intellettualismo e l’ostentata brillantezza del più giovane Jonathan Safran Foer. È possibile che la sua scarsa propensione a teorizzare, il suo eclettismo di narratore, la capacità quasi miracolosa di fondere in un nuovo impasto creativo tradizioni a lungo separate, dal pulp al postmoderno, dalla fantascienza alla grande narrativa ebraica, abbiano contribuito, nell’immediato, a renderne più incerto lo status nel quadro della narrativa contemporanea, americana e non. Per le stesse ragioni è però ragionevole ipotizzare che, al netto delle mode e delle fascinazioni di breve durata, saranno proprio le storie di Chabon, Kavalier e Clay e Sognando la luna su tutte, a salire al rango di classici contemporanei.
[Luca Briasco 24/09/2017]
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