Gli ultimi due romanzi di Marco Franzoso, Il bambino indaco in particolare, ma anche Gli invincibili
(entrambi pubblicati per Einaudi), hanno indicato un percorso inedito
per il narratore veneziano, un salto in parte ancora sospeso all’interno
delle dinamiche famigliari. Un discorso intimo e pubblico tutto
italiano che nel suo ultimo poderoso lavoro, Mi piace camminare sui tetti
(Rizzoli, pp. 348, euro 19) sembra risolversi con un taglio che per
certi versi ribalta la retorica famigliare denunciandone sì i soffocanti
confini, ma liberandola – finalmente – di quell’ottundimento tutto
novecentesco che poco rilievo e forma ha oggi nella società italiana.
La famiglia è nella narrazione di Marco
Franzoso l’assente perenne, l’ostacolo invisibile capace di tramutare
relazioni e dinamiche amorose in un luogo indicibile, segnato dalla
scomparsa come filo conduttore di un’esistenza che da inquieta si fa
piatta.
Ed è partendo dalla vita dei due figli,
con continui slittamenti temporali e spostamenti quasi da macchina
cinematografica, che Franzoso realizza una brillante congiunzione fra
passato e presente ricostruendo con sapienza il senso più profondo di
una contemporaneità che vive le tracce del tempo con un dominio spesso
assoluto della nostalgia. Un romanzo sociale per una presunta epoca
post-ideologica che sconta a tratti il limite di contorni e di
definizioni troppo rigide per una liquidità impalpabile.
Alle volte la costruzione dei personaggi
risente di un’eccessiva bidimensionalità che già si poteva ritrovare
nei romanzi precedenti. La differenza, e non da poco, in Mi piace camminare sui tetti
la fa il tempo che viene a completare finemente la struttura narrativa
donandole nuovo slancio. Un tempo che si fa protagonista e non più
semplicemente sfondo o banale luogo degli accadimenti. Un vero e proprio
oggetto percettivo ad uso dei personaggi.
Marco Franzoso innova brillantemente il
concetto di famiglia, senza cadere nei tranelli di un Novecento oggi
improponibile se non in forma macchiettistica o peggio ancora cercando
di imitare dinamiche storiche che spesso hanno infestato una letteratura
italiana troppo debole per camminare sulle proprie gambe e quindi
bisognosa spesso di pezze d’appoggio.
Siamo nel 1980 il benessere non è più
un’aspirazione, ma una necessità, una strada obbligata che tutto
attraversa comprese le fragilità relazionali. Siamo alla vigilia di un
mondo in disfacimento che però nonostante le mille avvisaglie si crede
fortemente legato ad un’idea progressiva di successo e di ovvia
felicità. Un tempo però compreso istintivamente proprio dai corpi che da
assenti si fanno compulsivamente presenti con il loro malessere. Marco
Franzoso ricostruisce le linee di un’intima inquietudine che diviene
affettiva e poi sociale. Un’espansione che tracima nella quotidianità di
gesti che divengono antiquati e inadatti al tempo stesso.
La famiglia finisce così sullo sfondo
mentre a permanere è un sentimento agrodolce di vicinanza. Ciò che resta
è l’incapacità di stare uniti su quello che sembra sempre più una barca
alla deriva. Un naufragio contemporaneo in cui i legami perdono la
forma consueta e si liberano da nomi desueti e ormai privi di senso.
Romanzo nodale che affronta il disfacimento intimo e sociale del nostro
tempo non nelle sue conseguenze ancora ben lungi dall’essere del tutto
rivelate, ma nel suo movimento, una corsa emotivamente vibrante che
Franzoso persegue con mestiere e godibile semplicità.
[Giacomo Giossi 22/12/2016]
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