È arrivato il momento di chiedersi sul piano personale se
sappiamo cosa sia la povertà. Sarà che sono cresciuto in montagna, in
una zona priva di industrie, la povertà l’ho sempre vista molto
prossima, quasi uno spauracchio familiare. Sia nel paese dove ho fatto
le elementari, Collegiove, che a Collalto, dove ho frequentato le medie
in provincia di Rieti, molti dei miei compagni di classe non
appartenevano di certo alla categoria dei ricchi, ma non erano poveri,
qualcuno forse sì, in silenzio, quasi di nascosto.
Ad Avezzano, in Abruzzo, nel collegio del Don Orione dove ho vissuto un anno e mezzo, c’erano invece ragazzi poverissimi, veri diseredati. Poi a Roma, a Pietralata, dove ho vissuto 25 anni. Anche li di poveri ce n’erano, vite grame in famiglie sfarinate da tutti i tipi di disagio, dispersione scolastica al 30%, disoccupazione cronica. Ma rarissime volte ho visto persone dormire a terra o chiedere l’elemosina, a dire il vero alla stazione Tiburtina sì. Da pochi anni mi sono trasferito in zona San Giovanni, un bel quartiere medioborghese. Qui ho intercettato un paio di prof. con i quali ho fatto qualche esame a Lettere e Filosofia. Alcuni giorni fa, prima del fatidico referendum, compravo in edicola uno degli ultimi numeri di MicroMega affascinato dal titolo «Ritorno alla realtà o fughe metafisiche?» e un signore che prendeva il giornale mi ha detto: «Mi fa piacere che lei compri questa rivista». Era Paolo Flores D’Arcais, un incontro piacevole. Ma non ci sono soltanto prof da queste parti. Ci sono molti «bangla», con i loro negozi alimentari, uno lavora al forno Ceccacci, tre o quattro alle bancarelle di vestiti; molti gli arabi che hanno una sorta di “monopolio” delle frutterie; i cinesi che hanno cartolerie e parrucchieri. È gente che lavora tante ore, come mia madre fin da quando, ventenne, era emigrante in Svizzera, o mio padre che lavorava anche 18 ore al giorno, e non era cinese.
Queste persone sono povere? Non so, certamente lavorano allo sfinimento per non esserlo. Ma intorno al «Mercato Latino» non è raro vedere pensionati italianissimi che raccolgono scarti di frutta e verdura. Un giorno li ho fotografati, una signora mi ha visto, così ho cancellato le foto, vergognandomi. Sempre più spesso in giro in questo bel quartiere ci sono persone che chiedono l’elemosina, non solo migranti, ma anche “indigeni”, italiani doc. L’altro ieri, davanti la farmacia Etruria, in via Britannia, una signora distinta, ben vestita e ordinata mi si è avvicinata: mi perdoni, potrei chiederle qualche spicciolo? Avevo ancora in mano il resto dell’acquisto di un farmaco, due euro, e glieli ho lasciati con gesto irriflesso. Lei li ha guardati incredula e si è messa a piangere. Mi sono sentito una merda, perché magari l’ho aiutata ma l’ho anche umiliata in un qualche modo che mi sfugge. Ecco, temo che quella donna fosse povera. Non mi piace fare l’elemosina, ho un rapporto conflittuale con le pratiche “caritatevoli”, ho sempre pensato che contribuiscano a perpetuare la condizione miserevole delle persone che la ricevono… in teoria. In pratica anche la ragazza africana che staziona davanti al bar De Montis, in via Satrico, vive d’elemosina, magari ha un figlio, penso, quindi fanculo la teoria.
Man mano che ho imparato a conoscere questa zona, piena tra l’altro di ragazzotti ben rasati che incollano ovunque manifesti «virili e quadrati», ho imparato a guardare oltre le facce dei possibili “colleghi” che fanno cinema, dei vecchi prof. o dei negozianti che vengono ogni giorno dalle zone popolari e sono le persone più simpatiche del posto. Così ho cominciato a vedere quelle dei molti giovani che tentano invano di lavorare all’università, assistenti “a gratis”, che non possono permettersi nemmeno il cinema. Come giornalisti cosiddetti “precari”, aspiranti attori e attrici in perenne attesa, che stazionano in bar e baretti senza prendere niente, o si siedono sulla sedia che Stefano, il pizzaiolo, ha messo generosamente fuori dal suo locale.
I primi tempi, quando mi sono trasferito qui, non percepivo tanta povertà. Avevo invece la sensazione di essere in un luogo ricco, al confronto Pietralata mi sembrava una periferia estrema. Ma lentamente la povertà che si annida nelle pieghe dei palazzotti medio-borghesi, è emersa prepotentemente. C’è una povertà che non è facile vedere. Due o tre settimane fa, dopo aver preso il caffè da De Montis (un bravo pasticcere), ho salutato un uomo che conosco di vista, con lui c’era un trentenne riccioluto, molto preparato, uno che ha studiato. Dopo qualche mattina l’ho di nuovo incontrato sotto le Mura Aureliane e abbiamo parlato un po’ di più. Guadagna 600 euro al mese, scrive di tutto per riviste on-line, ma non percepisce alcun reddito con questa attività giornalistica, pochi spiccioli. E come campi? Faccio il commesso part-time in un negozio «fai-da-te». Interessante, dico, ma quando scrivi? Di notte. Ma perché scrivi così tanto senza percepire un reddito? Perché quello è il mio vero lavoro, non voglio fare il commesso per sempre, o l’operaio, il mio mondo è il giornalismo.
Chiunque al mondo vorrebbe genitori così. E ce ne sono in Italia, mantengono i figli più che trentenni magari non disoccupati, ma con un reddito insufficiente. Questi non più giovani sono poveri, diciamocelo per favore, ma le loro famiglie “calmierano” la loro povertà. Poi arrivano i moralisti un tanto al chilo e li definiscono «mammoni». Che dire poi delle persone che lavorano 10 ore al giorno sette giorni su sette, per 8 o 900 euro, che vengono a lavorare nei baretti qua intorno da fuori Roma tutti i giorni, sempre con l’acqua alla gola per bollette e tasse scolastiche. Poveri, di sicuro.
Molti di questi nuovi poveri hanno studiato, magari hanno genitori appartenenti alla (ex) classe media, quindi non sentono di appartenere al «proletariato», non vogliono, come il riccioluto aspirante giornalista. Milioni di famiglie della classe media hanno educato i figli a sentirsi fuori dal «proletariato», con un piede fuori dalla cacca. Perché «proletario» è una definizione svilente, superata, ce la possono fare da soli, loro. Una tragedia.
Grazie a questo insegnamento nei miei 15/20 anni di precarietà «vera» non mi sono mai sentito perduto, ho fatto ogni tipo di attività. Anche quel ragazzo riccioluto non sta fermo a piangersi addosso, lavora, ma non vuole essere un lavoratore, lui è un giornalista, vuole appartenere a un mondo, che come quello del cinema è minuscolo. Un mondo, tra l’altro, non solo di vincenti, ma sempre di più anche di «fallenti».
L’incontro con questo ragazzo mi ha psicanalizzato, e sono andato a casa con la coda tra le gambe, a scriverne. Ha fatto riemergere in me prepotentemente quel ventennio di difficoltà e fatica esistenziale. Mi sono chiesto: ma che ci fa lui qua? E io che ci faccio? Questo però, è un periodo così, nessuno è dove dovrebbe o vorrebbe essere, e nessuno è ciò che vorrebbe essere. Ecco forse perché, anche quando si è effettivamente poveri, se capita la disgrazia di esserlo, non lo si accetta. Eppure (dice il gruppettaro che è in me) se lo ammettessimo, e se poi lo gridassimo, altri poveri ci sentirebbero, e un povero da solo è un uomo in pericolo ma tanti poveri insieme possono diventare un pericolo per chi prospera sulla povertà.
È una questione percettiva, percepirsi per quello che si è, può essere un punto di partenza, magari per sentirsi meno soli, non dico (per carità!) per ribellarsi, visto che sembra una cosa difficile da farsi. Se dovesse diventare facile, però, ne vedremmo delle belle.
[Daniele Vicari 20/12/2016]
Ad Avezzano, in Abruzzo, nel collegio del Don Orione dove ho vissuto un anno e mezzo, c’erano invece ragazzi poverissimi, veri diseredati. Poi a Roma, a Pietralata, dove ho vissuto 25 anni. Anche li di poveri ce n’erano, vite grame in famiglie sfarinate da tutti i tipi di disagio, dispersione scolastica al 30%, disoccupazione cronica. Ma rarissime volte ho visto persone dormire a terra o chiedere l’elemosina, a dire il vero alla stazione Tiburtina sì. Da pochi anni mi sono trasferito in zona San Giovanni, un bel quartiere medioborghese. Qui ho intercettato un paio di prof. con i quali ho fatto qualche esame a Lettere e Filosofia. Alcuni giorni fa, prima del fatidico referendum, compravo in edicola uno degli ultimi numeri di MicroMega affascinato dal titolo «Ritorno alla realtà o fughe metafisiche?» e un signore che prendeva il giornale mi ha detto: «Mi fa piacere che lei compri questa rivista». Era Paolo Flores D’Arcais, un incontro piacevole. Ma non ci sono soltanto prof da queste parti. Ci sono molti «bangla», con i loro negozi alimentari, uno lavora al forno Ceccacci, tre o quattro alle bancarelle di vestiti; molti gli arabi che hanno una sorta di “monopolio” delle frutterie; i cinesi che hanno cartolerie e parrucchieri. È gente che lavora tante ore, come mia madre fin da quando, ventenne, era emigrante in Svizzera, o mio padre che lavorava anche 18 ore al giorno, e non era cinese.
Queste persone sono povere? Non so, certamente lavorano allo sfinimento per non esserlo. Ma intorno al «Mercato Latino» non è raro vedere pensionati italianissimi che raccolgono scarti di frutta e verdura. Un giorno li ho fotografati, una signora mi ha visto, così ho cancellato le foto, vergognandomi. Sempre più spesso in giro in questo bel quartiere ci sono persone che chiedono l’elemosina, non solo migranti, ma anche “indigeni”, italiani doc. L’altro ieri, davanti la farmacia Etruria, in via Britannia, una signora distinta, ben vestita e ordinata mi si è avvicinata: mi perdoni, potrei chiederle qualche spicciolo? Avevo ancora in mano il resto dell’acquisto di un farmaco, due euro, e glieli ho lasciati con gesto irriflesso. Lei li ha guardati incredula e si è messa a piangere. Mi sono sentito una merda, perché magari l’ho aiutata ma l’ho anche umiliata in un qualche modo che mi sfugge. Ecco, temo che quella donna fosse povera. Non mi piace fare l’elemosina, ho un rapporto conflittuale con le pratiche “caritatevoli”, ho sempre pensato che contribuiscano a perpetuare la condizione miserevole delle persone che la ricevono… in teoria. In pratica anche la ragazza africana che staziona davanti al bar De Montis, in via Satrico, vive d’elemosina, magari ha un figlio, penso, quindi fanculo la teoria.
Man mano che ho imparato a conoscere questa zona, piena tra l’altro di ragazzotti ben rasati che incollano ovunque manifesti «virili e quadrati», ho imparato a guardare oltre le facce dei possibili “colleghi” che fanno cinema, dei vecchi prof. o dei negozianti che vengono ogni giorno dalle zone popolari e sono le persone più simpatiche del posto. Così ho cominciato a vedere quelle dei molti giovani che tentano invano di lavorare all’università, assistenti “a gratis”, che non possono permettersi nemmeno il cinema. Come giornalisti cosiddetti “precari”, aspiranti attori e attrici in perenne attesa, che stazionano in bar e baretti senza prendere niente, o si siedono sulla sedia che Stefano, il pizzaiolo, ha messo generosamente fuori dal suo locale.
I primi tempi, quando mi sono trasferito qui, non percepivo tanta povertà. Avevo invece la sensazione di essere in un luogo ricco, al confronto Pietralata mi sembrava una periferia estrema. Ma lentamente la povertà che si annida nelle pieghe dei palazzotti medio-borghesi, è emersa prepotentemente. C’è una povertà che non è facile vedere. Due o tre settimane fa, dopo aver preso il caffè da De Montis (un bravo pasticcere), ho salutato un uomo che conosco di vista, con lui c’era un trentenne riccioluto, molto preparato, uno che ha studiato. Dopo qualche mattina l’ho di nuovo incontrato sotto le Mura Aureliane e abbiamo parlato un po’ di più. Guadagna 600 euro al mese, scrive di tutto per riviste on-line, ma non percepisce alcun reddito con questa attività giornalistica, pochi spiccioli. E come campi? Faccio il commesso part-time in un negozio «fai-da-te». Interessante, dico, ma quando scrivi? Di notte. Ma perché scrivi così tanto senza percepire un reddito? Perché quello è il mio vero lavoro, non voglio fare il commesso per sempre, o l’operaio, il mio mondo è il giornalismo.
Molti di questi nuovi poveri hanno studiato, magari hanno genitori appartenenti alla (ex) classe media, quindi non sentono di appartenere al «proletariato», non voglionoUn proletario a tempo, scherzo. Ma no, papà è un impiegato figlio di impiegati, da me le fabbriche non ci sono. Si è risentito, il termine proletario non gli piace, è chiaro. Ha una famiglia monoreddito che vive in una media città del sud, madre casalinga padre impiegato, spendono poco, hanno casa, e ciò che avanza lo danno al figlio unico emigrato a Roma.
Chiunque al mondo vorrebbe genitori così. E ce ne sono in Italia, mantengono i figli più che trentenni magari non disoccupati, ma con un reddito insufficiente. Questi non più giovani sono poveri, diciamocelo per favore, ma le loro famiglie “calmierano” la loro povertà. Poi arrivano i moralisti un tanto al chilo e li definiscono «mammoni». Che dire poi delle persone che lavorano 10 ore al giorno sette giorni su sette, per 8 o 900 euro, che vengono a lavorare nei baretti qua intorno da fuori Roma tutti i giorni, sempre con l’acqua alla gola per bollette e tasse scolastiche. Poveri, di sicuro.
Molti di questi nuovi poveri hanno studiato, magari hanno genitori appartenenti alla (ex) classe media, quindi non sentono di appartenere al «proletariato», non vogliono, come il riccioluto aspirante giornalista. Milioni di famiglie della classe media hanno educato i figli a sentirsi fuori dal «proletariato», con un piede fuori dalla cacca. Perché «proletario» è una definizione svilente, superata, ce la possono fare da soli, loro. Una tragedia.
…quando si è effettivamente poveri, se capita la disgrazia di esserlo, non lo si accetta. Eppure (dice il gruppettaro che è in me) se lo ammettessimo, e se poi lo gridassimo, altri poveri ci sentirebbero, e un povero da solo è un uomo in pericolo ma tanti poveri insieme possono diventare un pericolo per chi prospera sulla povertàQuando rifletto su queste cose, mi trovo a ringraziare il mio povero padre, morto di mesotelioma pleurico (il cancro dell’amianto), che mi ha insegnato a fare il muratore, il pittore, il contadino, e mia madre che mi ha insegnato a cucinare. Grazie a loro sono e sarò sempre un lavoratore, qualunque mestiere faccia per vivere, al massimo un mezzo anarchico che fa cinema, finché posso.
Grazie a questo insegnamento nei miei 15/20 anni di precarietà «vera» non mi sono mai sentito perduto, ho fatto ogni tipo di attività. Anche quel ragazzo riccioluto non sta fermo a piangersi addosso, lavora, ma non vuole essere un lavoratore, lui è un giornalista, vuole appartenere a un mondo, che come quello del cinema è minuscolo. Un mondo, tra l’altro, non solo di vincenti, ma sempre di più anche di «fallenti».
L’incontro con questo ragazzo mi ha psicanalizzato, e sono andato a casa con la coda tra le gambe, a scriverne. Ha fatto riemergere in me prepotentemente quel ventennio di difficoltà e fatica esistenziale. Mi sono chiesto: ma che ci fa lui qua? E io che ci faccio? Questo però, è un periodo così, nessuno è dove dovrebbe o vorrebbe essere, e nessuno è ciò che vorrebbe essere. Ecco forse perché, anche quando si è effettivamente poveri, se capita la disgrazia di esserlo, non lo si accetta. Eppure (dice il gruppettaro che è in me) se lo ammettessimo, e se poi lo gridassimo, altri poveri ci sentirebbero, e un povero da solo è un uomo in pericolo ma tanti poveri insieme possono diventare un pericolo per chi prospera sulla povertà.
È una questione percettiva, percepirsi per quello che si è, può essere un punto di partenza, magari per sentirsi meno soli, non dico (per carità!) per ribellarsi, visto che sembra una cosa difficile da farsi. Se dovesse diventare facile, però, ne vedremmo delle belle.
[Daniele Vicari 20/12/2016]
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