venerdì 14 ottobre 2016

Bob Dylan Premio Nobel



Lo scorso maggio è stato pubblicato Fallen Angels, con una dozzina di grandi classici della canzone americana riletti, interpretati e riarrangiati da Bob Dylan. Mentre il suo primo album, nel 1961, titolo Bob Dylan, era costituito da brani rielaborati della tradizione popolare, con un brano inedito, Song for Woody, muovendosi nell’orbita di Woody Guthrie, già allora con voce nasale e appuntita.
75 anni, da 55 anni in attività, 125 milioni di dischi venduti in tutto il mondo, inizialmente il folksinger più acclamato in patria. Lo pseudonimo l’ha scelto in omaggio al suo poeta preferito Dylan Thomas.
Un percorso ellittico per Bob Dylan – all’anagrafe Robert Allen Zimmermann, nato a Duluth, nel Minnesota, nel 1941, da un venditore d’elettrodomestici d’origine tedesca e religione ebraica -, il musicista/menestrello che ha cambiato la storia della musica popolare, coi suoi successi stellari, da Blowing in the wind a Masters of war, Mr.Tambourine man e With God on our side e, naturalmente, The times they are a-changin’, Like a rolling stone, Knocking on heaven’s door e poi gli album della svolta elettrica Highway 61 revisited, Blonde on blonde o quelli dalle sonorità più morbide e arrotondate, Nashville Skyline e Selfportrait, e ancora Blood on the tracks, Desire, Infidels fino ad arrivare agli ultimi, Tempest e Shadows in the night dell’anno scorso, senza dimenticare i concerti dal vivo, i cofanetti, la caterva di bootleg (a novembre la Cbs pubblicherà un box set di 36 cd, Live Recordings 1966, con tutte le registrazioni dei concerti di quell’anno, negli Stati uniti, nel Regno unito, in Europa e Australia).
Ma Bob Dylan ha lasciato il segno anche col suo costante rifiuto della retorica, con le sue liriche misteriose, coi suoi riferimenti occulti, con testi che non sono poesie perché devono adattarsi alla metrica del verso musicale, come ha spiegato più volte, ma che grondano di riferimenti colti, dal Talmud alla Bibbia, da Walt Whitman a Ezra Pound, e di slang gergale, di espressioni del parlato quotidiano e di complicati giochi di parole. Le sue canzoni vengono studiate e analizzate sia all’università che alle scuole superiori, andando a caccia di significati reconditi, metafore e doppisensi.
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Con Joan Baez, 1965
Mefistofelico e sibillino, il cantastorie del XX secolo partito abbracciando la chitarra e soffiando nell’armonica ha cambiato più volte immagine, arrangiamenti e repertorio (persino con una svolta cattolica, da cristiano «rinato», fortunatamente poi svanita) lasciando perplessi i suoi fan che hanno imparato a non fermarsi al significato letterale, a non cullarsi sugli allori, a non voltarsi indietro, ad accettare le sfide della contemporaneità (Dylan ha rappresentato in maniera estremamente personale e certamente un po’ criptica anche gli avvenimenti del recente presente, dall’11 settembre alla distruzione di New Orleans, la guerra in Afghanistan e in Iraq e persino i deportati di Guantanamo. Del resto era partito dalle cause umanitarie degli anni ’60 fino alla battaglia per la liberazione di Rubin «Hurricane» Carter).
E anche i suoi scritti – a cominciare dalle prose enigmatiche e creative di Tarantula, il suo romanzo del 1970, fino a Writings and Drawings (ovviamente è un brillante pittore) e all’autobiografia di Chronicles, un solo volume uscito che tratteggia solo gli anni ’60 – riflettono complessità, diversi livelli di lettura, oscurità.
In giro a fare concerti da anni tanto che il suo Neverending tour non è stato fermato nemmeno da svariati malori che l’hanno colpito negli anni, e la scorsa settimana ha suonato al Desert Trip, il festival musicale di Coachella in California, dove si sono esibiti altre superstar come Paul McCartney e Rolling Stones.
I giornali statunitensi hanno scritto di lui che «solo una leggenda poteva misurarsi con le tradizionali strutture del rock e del folk ma interpretandole con uno spirito nuovo».
Ma Dylan continua a mischiare le carte, a giocherellare col passato lanciandolo nel futuro, a reinventare generi e standard, a suo agio tra polverosi e languidi banjo, acque profonde da Mississippi e archi di violini come tra schitarrate lancinanti e melodie parodistiche.
Del resto si presenta in scena con cappello e abiti western da perfetto signorotto southern man, con quella cantilena sferzante che incanta l’uditorio e gli permette di sorprenderlo, di non voler cercare adulazione o simpatia ma semplicemente di rinnovare quel patto musicale e restare forever young.
[Flaviano De Luca 14/10/2016]



«Ma chi sei?» chiede Pat Garrett. «Questa è una bella domanda», risponde Alias, timido e taciturno, ma micidiale al lancio del coltello. Già ben prima di indossare i panni di quel ragazzo dal nome così emblematico nel capolavoro di Sam Peckinpah, Pat Garrett e Billy The Kid, Bob Dylan amava il cinema. Il mistero fantasmatico della luce proiettata sullo schermo così vicino all’elusività e all’inafferrabilità del suo personaggio, magnificamente catturata nel film che gli ha dedicato Todd Haynes, I Am Not There (2007), e che Martin Scorsese ha cercato invano di intrappolare nel suo documentario fiume su Dylan, No Direction Home (2005).
Dal leggendario Don’t Look Back, girato da D. A. Pennebaker, nel 1965, durante il tour inglese di un Dylan, che, davanti ai nostri occhi, cambia personalità come cappelli, in un fantastico rimpiattino con l’idea stessa di cinema-verità incarnata dal grande documentarista americano; al personaggio vagamente mefistofelico nello spot per la Angel Collection di Victoria Secret, nel 2004, Dylan è fluttuato spesso sullo schermo, e ha usato il cinema per esplorare alcune delle sue ossessioni più profonde. Masked and Anonymous mascherato e anonimo, non a caso, è il titolo dell’ultimo lungometraggio che ha scritto (la regia è di Larry Charles), nel 2003, e in cui – sotto le spoglie della rock star Jack Fate – ci guida in un paesaggio di Frontiera post-apocalittica, devastato dal consumismo e sotto il controllo di un governo totalitario. Sgangheratissima ballata che mixa controcultura, Bunuel (uno dei suoi registi preferiti, insieme a Kurosawa) e una qualità deadpan tra il megacinema dei fratelli Coen e la purezza di Buster Keaton, il film è accompagnato dalla presenza di Jeff Bridges, Bruce Dern, Ed Harris, John Goodman, Penelope Cruz, Jessica Lange, Val Kilmer…, docilmente assoggettati all’inspiegabilità del tutto – come i seguaci di un culto.
Ricordo come un momento completamente surreale e altrettanto magico, quando autore, regista e cast sono apparsi in massa sul palcoscenico dell’Eccles Theater al Sundance Film Festival, dove il film ha avuto la sua prima mondiale di fronte a un pubblico esterrefatto.
Come Neil Young, d’altra parte, quando è dietro alla macchina da presa, Bob Dylan parla il linguaggio del cinema sperimentale; in continua dialettica con sé stesso, già da Eat the Document (1972), un film girato da Pennebaker ma che Dylan trovò troppo tradizionale e rimontò personalmente (in una versione di 60 minuti, che include un duetto al piano con Johnny Cash e una gita in limousine con John Lennon) e, più compiutamente, con Renaldo e Clara, un’avventura cubista, scritta e diretta a Dylan. E in cui si specchiano tra di loro identità / personaggi (Dylan e il suo alias, interpretato da Ronnie Hawkins, sua moglie Sara, Joan Baez, Allen Ginsberg davanti alla tomba di Kerouac, Sam Shepard, Rubin «Hurricane» Carter..) realtà e fiction, realizzata nel 1975 prima e durante il tour Rolling Thunder Review.
In una lunga intervista con la rivista Rolling Stones, Dylan lo aveva definito così: «Un film sull’alienazione dell’interiorità umana in rapporto alla sua esteriorità – un’alienazione portata all’estremo. E sull’integrità».
[Giulia d'Agnolo Vallan 14/10/2016]

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Commenti

il 12/08 SR ha commentato Non credo che D'Avenia possa far parte del nostro blog. Certo i suoi libri sono best-sellers tra gli adolescenti, e probabilmente hanno il merito di avviare qualche giovane alla lettura, ma la banalità delle situazioni e del linguaggio non permettono di considerare questi testi letteratura. Diciamo che sono testi "di servizio", nella migliore delle ipotesi. su Prossimamente
il 14/05 SR ha commentato Purtroppo J.K.J. non sembra più funzionare con le ultime generazioni: un tentativo di leggere a scuola Three Men In a Boat è finito miseramente in noia. I ragazzi non capivano cosa c'era da ridere e io non capivo perché non capivano. Tristissimo. Jerome per me è finito in quell'armadio dove tengo gli autori speciali che voglio proteggere dagli studenti... su Jerome K. Jerome, fare ridere l’uomo moderno, spaventato
il 29/02 Ida ha commentato A proposito di classifiche: "Oggi se vai al cinema devi entrare a un’ora fissa, quando il film incomincia, e appena incomincia qualcuno ti prende per così dire per mano e ti dice cosa succede. Ai miei tempi si poteva entrare al cinema a ogni momento, voglio dire anche a metà dello spettacolo, si arrivava mentre stavano succedendo alcune cose e si cercava di capire che cosa era accaduto prima (poi, quando il film ricominciava dall’inizio, si vedeva se si era capito tutto bene - a parte il fatto che se il film ci era piaciuto si poteva restare e rivedere anche quello che si era già visto). Ecco, la vita è come un film dei tempi miei. Noi entriamo nella vita quando molte cose sono già successe, da centinaia di migliaia di anni, ed è importante apprendere quello che è accaduto prima che noi nascessimo; serve per capire meglio perché oggi succedono molte cose nuove." Anch'io,come U.ECO sono andata al cinema nel modo ricordato e quindi io amo ricordare e vorrei tanto poter fare liste di su Chi siamo
il 28/02 Ida ha commentato Grazie Roberta per aver riaperto il blog.Trovo che è un modo per uscire dalla solitudine delle letture personali.Scrivere e leggere accanto, trovo che è un bel modo per parlarci e parlarmi. su Chi siamo