Lo scorso maggio è stato pubblicato Fallen Angels, con una dozzina di grandi classici della canzone americana riletti, interpretati e riarrangiati da Bob Dylan. Mentre il suo primo album, nel 1961, titolo Bob Dylan, era costituito da brani rielaborati della tradizione popolare, con un brano inedito, Song for Woody, muovendosi nell’orbita di Woody Guthrie, già allora con voce nasale e appuntita.
75 anni, da 55 anni in attività, 125 milioni di dischi venduti in tutto il mondo, inizialmente il folksinger più acclamato in patria. Lo pseudonimo l’ha scelto in omaggio al suo poeta preferito Dylan Thomas.
Un percorso ellittico per Bob Dylan – all’anagrafe Robert Allen Zimmermann, nato a Duluth, nel Minnesota, nel 1941, da un venditore d’elettrodomestici d’origine tedesca e religione ebraica -, il musicista/menestrello che ha cambiato la storia della musica popolare, coi suoi successi stellari, da Blowing in the wind a Masters of war, Mr.Tambourine man e With God on our side e, naturalmente, The times they are a-changin’, Like a rolling stone, Knocking on heaven’s door e poi gli album della svolta elettrica Highway 61 revisited, Blonde on blonde o quelli dalle sonorità più morbide e arrotondate, Nashville Skyline e Selfportrait, e ancora Blood on the tracks, Desire, Infidels fino ad arrivare agli ultimi, Tempest e Shadows in the night dell’anno scorso, senza dimenticare i concerti dal vivo, i cofanetti, la caterva di bootleg (a novembre la Cbs pubblicherà un box set di 36 cd, Live Recordings 1966, con tutte le registrazioni dei concerti di quell’anno, negli Stati uniti, nel Regno unito, in Europa e Australia).
Ma Bob Dylan ha lasciato il segno anche col suo costante rifiuto della retorica, con le sue liriche misteriose, coi suoi riferimenti occulti, con testi che non sono poesie perché devono adattarsi alla metrica del verso musicale, come ha spiegato più volte, ma che grondano di riferimenti colti, dal Talmud alla Bibbia, da Walt Whitman a Ezra Pound, e di slang gergale, di espressioni del parlato quotidiano e di complicati giochi di parole. Le sue canzoni vengono studiate e analizzate sia all’università che alle scuole superiori, andando a caccia di significati reconditi, metafore e doppisensi.
E anche i suoi scritti – a cominciare dalle prose enigmatiche e creative di Tarantula, il suo romanzo del 1970, fino a Writings and Drawings (ovviamente è un brillante pittore) e all’autobiografia di Chronicles, un solo volume uscito che tratteggia solo gli anni ’60 – riflettono complessità, diversi livelli di lettura, oscurità.
In giro a fare concerti da anni tanto che il suo Neverending tour non è stato fermato nemmeno da svariati malori che l’hanno colpito negli anni, e la scorsa settimana ha suonato al Desert Trip, il festival musicale di Coachella in California, dove si sono esibiti altre superstar come Paul McCartney e Rolling Stones.
I giornali statunitensi hanno scritto di lui che «solo una leggenda poteva misurarsi con le tradizionali strutture del rock e del folk ma interpretandole con uno spirito nuovo».
Ma Dylan continua a mischiare le carte, a giocherellare col passato lanciandolo nel futuro, a reinventare generi e standard, a suo agio tra polverosi e languidi banjo, acque profonde da Mississippi e archi di violini come tra schitarrate lancinanti e melodie parodistiche.
Del resto si presenta in scena con cappello e abiti western da perfetto signorotto southern man, con quella cantilena sferzante che incanta l’uditorio e gli permette di sorprenderlo, di non voler cercare adulazione o simpatia ma semplicemente di rinnovare quel patto musicale e restare forever young.
[Flaviano De Luca 14/10/2016]
«Ma chi sei?» chiede Pat Garrett. «Questa è una bella domanda»,
risponde Alias, timido e taciturno, ma micidiale al lancio del coltello.
Già ben prima di indossare i panni di quel ragazzo dal nome così
emblematico nel capolavoro di Sam Peckinpah, Pat Garrett e Billy The Kid,
Bob Dylan amava il cinema. Il mistero fantasmatico della luce
proiettata sullo schermo così vicino all’elusività e all’inafferrabilità
del suo personaggio, magnificamente catturata nel film che gli ha
dedicato Todd Haynes, I Am Not There (2007), e che Martin Scorsese ha cercato invano di intrappolare nel suo documentario fiume su Dylan, No Direction Home (2005).
Dal leggendario Don’t Look Back, girato da D. A. Pennebaker, nel 1965, durante il tour inglese di un Dylan, che, davanti ai nostri occhi, cambia personalità come cappelli, in un fantastico rimpiattino con l’idea stessa di cinema-verità incarnata dal grande documentarista americano; al personaggio vagamente mefistofelico nello spot per la Angel Collection di Victoria Secret, nel 2004, Dylan è fluttuato spesso sullo schermo, e ha usato il cinema per esplorare alcune delle sue ossessioni più profonde. Masked and Anonymous mascherato e anonimo, non a caso, è il titolo dell’ultimo lungometraggio che ha scritto (la regia è di Larry Charles), nel 2003, e in cui – sotto le spoglie della rock star Jack Fate – ci guida in un paesaggio di Frontiera post-apocalittica, devastato dal consumismo e sotto il controllo di un governo totalitario. Sgangheratissima ballata che mixa controcultura, Bunuel (uno dei suoi registi preferiti, insieme a Kurosawa) e una qualità deadpan tra il megacinema dei fratelli Coen e la purezza di Buster Keaton, il film è accompagnato dalla presenza di Jeff Bridges, Bruce Dern, Ed Harris, John Goodman, Penelope Cruz, Jessica Lange, Val Kilmer…, docilmente assoggettati all’inspiegabilità del tutto – come i seguaci di un culto.
Ricordo come un momento completamente surreale e altrettanto magico, quando autore, regista e cast sono apparsi in massa sul palcoscenico dell’Eccles Theater al Sundance Film Festival, dove il film ha avuto la sua prima mondiale di fronte a un pubblico esterrefatto.
Come Neil Young, d’altra parte, quando è dietro alla macchina da presa, Bob Dylan parla il linguaggio del cinema sperimentale; in continua dialettica con sé stesso, già da Eat the Document (1972), un film girato da Pennebaker ma che Dylan trovò troppo tradizionale e rimontò personalmente (in una versione di 60 minuti, che include un duetto al piano con Johnny Cash e una gita in limousine con John Lennon) e, più compiutamente, con Renaldo e Clara, un’avventura cubista, scritta e diretta a Dylan. E in cui si specchiano tra di loro identità / personaggi (Dylan e il suo alias, interpretato da Ronnie Hawkins, sua moglie Sara, Joan Baez, Allen Ginsberg davanti alla tomba di Kerouac, Sam Shepard, Rubin «Hurricane» Carter..) realtà e fiction, realizzata nel 1975 prima e durante il tour Rolling Thunder Review.
In una lunga intervista con la rivista Rolling Stones, Dylan lo aveva definito così: «Un film sull’alienazione dell’interiorità umana in rapporto alla sua esteriorità – un’alienazione portata all’estremo. E sull’integrità».
[Giulia d'Agnolo Vallan 14/10/2016]
Dal leggendario Don’t Look Back, girato da D. A. Pennebaker, nel 1965, durante il tour inglese di un Dylan, che, davanti ai nostri occhi, cambia personalità come cappelli, in un fantastico rimpiattino con l’idea stessa di cinema-verità incarnata dal grande documentarista americano; al personaggio vagamente mefistofelico nello spot per la Angel Collection di Victoria Secret, nel 2004, Dylan è fluttuato spesso sullo schermo, e ha usato il cinema per esplorare alcune delle sue ossessioni più profonde. Masked and Anonymous mascherato e anonimo, non a caso, è il titolo dell’ultimo lungometraggio che ha scritto (la regia è di Larry Charles), nel 2003, e in cui – sotto le spoglie della rock star Jack Fate – ci guida in un paesaggio di Frontiera post-apocalittica, devastato dal consumismo e sotto il controllo di un governo totalitario. Sgangheratissima ballata che mixa controcultura, Bunuel (uno dei suoi registi preferiti, insieme a Kurosawa) e una qualità deadpan tra il megacinema dei fratelli Coen e la purezza di Buster Keaton, il film è accompagnato dalla presenza di Jeff Bridges, Bruce Dern, Ed Harris, John Goodman, Penelope Cruz, Jessica Lange, Val Kilmer…, docilmente assoggettati all’inspiegabilità del tutto – come i seguaci di un culto.
Ricordo come un momento completamente surreale e altrettanto magico, quando autore, regista e cast sono apparsi in massa sul palcoscenico dell’Eccles Theater al Sundance Film Festival, dove il film ha avuto la sua prima mondiale di fronte a un pubblico esterrefatto.
Come Neil Young, d’altra parte, quando è dietro alla macchina da presa, Bob Dylan parla il linguaggio del cinema sperimentale; in continua dialettica con sé stesso, già da Eat the Document (1972), un film girato da Pennebaker ma che Dylan trovò troppo tradizionale e rimontò personalmente (in una versione di 60 minuti, che include un duetto al piano con Johnny Cash e una gita in limousine con John Lennon) e, più compiutamente, con Renaldo e Clara, un’avventura cubista, scritta e diretta a Dylan. E in cui si specchiano tra di loro identità / personaggi (Dylan e il suo alias, interpretato da Ronnie Hawkins, sua moglie Sara, Joan Baez, Allen Ginsberg davanti alla tomba di Kerouac, Sam Shepard, Rubin «Hurricane» Carter..) realtà e fiction, realizzata nel 1975 prima e durante il tour Rolling Thunder Review.
In una lunga intervista con la rivista Rolling Stones, Dylan lo aveva definito così: «Un film sull’alienazione dell’interiorità umana in rapporto alla sua esteriorità – un’alienazione portata all’estremo. E sull’integrità».
[Giulia d'Agnolo Vallan 14/10/2016]
Nessun commento:
Posta un commento