Una scrittrice dagli occhi intensi e e che per le sue parole
taglienti è stata minacciata di morte dai fondamentalisti del suo paese;
un attore radical americano che dona parte del suo cachet a
associazioni per i diritti civili; un giornalista fedele alla mission di
denunciare gli abusi del potere costituito. Infine, un fuggiasco,
costretto a rifugiarsi nella poco democratica Russia. È la strana
compagnia che si riunisce per alcuni giorni in una Mosca fredda.
La scrittrice è Arundhati Roy, l’attore è John Cusack, il giornalista è Daniel Ellsberg, noto per aver tirato fuori i paper del Pentagono per preparare il clima adatto a legittimare l’intervento delle truppe americane in Vietnam. Il giovane esiliato è Edward Snowden, cioè l’agente che ha tirato fuori le prove sul capillare spionaggio svolto dalla National Security Agency su milioni di cittadini americani e non solo.
QUESTO INCONTRO e le conversazioni ravvicinate tra la scrittrice e l’attore che lo procedono è lo sfondo del libro Cose che si possono e non si possono dire (Guanda, pp. 164, traduzione di Federica Oddera. Il libro sarà in libreria da domani).
Pagine che si leggono tutte di un fiato. Incalzanti, ironiche e piene di quella leggerezza necessaria a volte per parlare di «cose» complicate.
John Cusack usa le parole con parsimonia. Poco concede alla retorica anti-establishment dei movimenti dei diritti civili made in Usa. Mette subito in chiaro che la politica estera del suo paese non gli piace. Ma è ostile anche a chi taglia le gole del proprio paese perché bisogna disinfettarlo dai virus occidentali. Le truppe mandate in Iraq hanno raggiunto un solo obiettivo – la caduta di Saddam Hussein – ma poi il paese ha conosciuto e conosce una guerra civile feroce e sanguinosa, che ha visto centinaia di migliaia di civili morti. I militari Usa hanno pensato solo di difendere il petrolio, uno dei motivi per i quali sono stati mandati lì. Nel frattempo, il fondamentalismo politico-religioso ha assunto le sembianze proprio dei tagliatori di gola dell’Isis. Che non esitano a scagliarsi contro chi il potere non lo ama, colpevole però di amare la libertà.
La scelta di Snowden di rendere pubblici i materiali dello spionaggio su larga scala della Nsa non risolve il pantano iracheno, né quello siriano o libico, ma ha alzato il velo sull’esercizio antidemocratico del potere Usa.
L’attore deve però vedersela con lo scetticismo della scrittrice indiana. Ad Arundhati Roy Edward Snowden non piace da quando si è fatto fotografare con una bandiera americana stretta al petto. Le è sembrato un gesto incoerente rispetto alle denunce dell’ex-agente americano. Obietta, con le lacrime agli occhi, ricordando che il patriottismo un giovane americano lo ha servito a pranzo e a cena. Alla fine diviene una seconda pelle. Solo quando avverti la contraddizione tra l’inno nazionale che parla dei liberi e coraggiosi e le orrende cose compiute provi a toglierti quella seconda pelle. Fa male, ma il patriottismo è anche un abito mentale difficile da dismettere.
Arundhati Roy è un torrente in piena quando mette in rilievo come il potere non ami chi è in disaccordo. In India, il partito indù al governo fa propaganda a colpi di massacri di musulmani e di civili, che si oppongono alla loro cacciata dalle terre dove vivono per far posto a una diga o una miniera. Il potere ha sempre un doppio standard etico: se qualcuno uccide, ma è tuo nemico è una bestia, ma se i massacri e gli stupri sono compiuti in difesa di uno stile di vita, ecco che diventano atti di eroismo.
Il radicalismo etico di Arundhati Roy è scandito dall’ironia. Si prende cioè amabilmente in giro. Dice che è stata nutrita di marxismo fin da piccola, ma poi usa parole sferzanti verso il partito comunista del Kerala e il socialismo reale. Ma ha ragione l’autrice del Dio delle piccole cose. il nodo da sciogliere non è quanti grammi di comunismo ci siano in un ragionamento.
UN INTELLETTUALE non può che essere un dissidente, echeggiando altri autori, non ultimo l’amato Edward Said. Essere dissidenti nel mondo e in casa propria è dunque il primo passo per dare forma alla risposta alla vera domanda che ancora in molti non vogliono porsi, rifugiandosi nel culto di una identità priva di ogni attrattiva: cosa significa infatti essere comunisti dopo il socialismo reale e i gulag? Difficile domanda e risposta ancora da là a venire
Esercitare la dissidenza, non fare sconti a nessuno, senza però mai dimenticare che la sua scelta è di stare a fianco con chi resiste al neoliberismo. John Cusack annuisce. E annuisce anche Edward Snowden. Pure lui ha fatto una scelta di campo. Ironia della sorte è ospite di un oligarca che la democrazia la piega ai suoi voleri.
Sa che non potrà mai tornare in patria, ma è il prezzo che ha deciso di pagare affinché le parole che non si ciano più parole ostili al potere che non si possono dire.
[Benedetto Vecchi 19/10/2016]
La scrittrice è Arundhati Roy, l’attore è John Cusack, il giornalista è Daniel Ellsberg, noto per aver tirato fuori i paper del Pentagono per preparare il clima adatto a legittimare l’intervento delle truppe americane in Vietnam. Il giovane esiliato è Edward Snowden, cioè l’agente che ha tirato fuori le prove sul capillare spionaggio svolto dalla National Security Agency su milioni di cittadini americani e non solo.
QUESTO INCONTRO e le conversazioni ravvicinate tra la scrittrice e l’attore che lo procedono è lo sfondo del libro Cose che si possono e non si possono dire (Guanda, pp. 164, traduzione di Federica Oddera. Il libro sarà in libreria da domani).
Pagine che si leggono tutte di un fiato. Incalzanti, ironiche e piene di quella leggerezza necessaria a volte per parlare di «cose» complicate.
John Cusack usa le parole con parsimonia. Poco concede alla retorica anti-establishment dei movimenti dei diritti civili made in Usa. Mette subito in chiaro che la politica estera del suo paese non gli piace. Ma è ostile anche a chi taglia le gole del proprio paese perché bisogna disinfettarlo dai virus occidentali. Le truppe mandate in Iraq hanno raggiunto un solo obiettivo – la caduta di Saddam Hussein – ma poi il paese ha conosciuto e conosce una guerra civile feroce e sanguinosa, che ha visto centinaia di migliaia di civili morti. I militari Usa hanno pensato solo di difendere il petrolio, uno dei motivi per i quali sono stati mandati lì. Nel frattempo, il fondamentalismo politico-religioso ha assunto le sembianze proprio dei tagliatori di gola dell’Isis. Che non esitano a scagliarsi contro chi il potere non lo ama, colpevole però di amare la libertà.
La scelta di Snowden di rendere pubblici i materiali dello spionaggio su larga scala della Nsa non risolve il pantano iracheno, né quello siriano o libico, ma ha alzato il velo sull’esercizio antidemocratico del potere Usa.
L’attore deve però vedersela con lo scetticismo della scrittrice indiana. Ad Arundhati Roy Edward Snowden non piace da quando si è fatto fotografare con una bandiera americana stretta al petto. Le è sembrato un gesto incoerente rispetto alle denunce dell’ex-agente americano. Obietta, con le lacrime agli occhi, ricordando che il patriottismo un giovane americano lo ha servito a pranzo e a cena. Alla fine diviene una seconda pelle. Solo quando avverti la contraddizione tra l’inno nazionale che parla dei liberi e coraggiosi e le orrende cose compiute provi a toglierti quella seconda pelle. Fa male, ma il patriottismo è anche un abito mentale difficile da dismettere.
Arundhati Roy è un torrente in piena quando mette in rilievo come il potere non ami chi è in disaccordo. In India, il partito indù al governo fa propaganda a colpi di massacri di musulmani e di civili, che si oppongono alla loro cacciata dalle terre dove vivono per far posto a una diga o una miniera. Il potere ha sempre un doppio standard etico: se qualcuno uccide, ma è tuo nemico è una bestia, ma se i massacri e gli stupri sono compiuti in difesa di uno stile di vita, ecco che diventano atti di eroismo.
Il radicalismo etico di Arundhati Roy è scandito dall’ironia. Si prende cioè amabilmente in giro. Dice che è stata nutrita di marxismo fin da piccola, ma poi usa parole sferzanti verso il partito comunista del Kerala e il socialismo reale. Ma ha ragione l’autrice del Dio delle piccole cose. il nodo da sciogliere non è quanti grammi di comunismo ci siano in un ragionamento.
UN INTELLETTUALE non può che essere un dissidente, echeggiando altri autori, non ultimo l’amato Edward Said. Essere dissidenti nel mondo e in casa propria è dunque il primo passo per dare forma alla risposta alla vera domanda che ancora in molti non vogliono porsi, rifugiandosi nel culto di una identità priva di ogni attrattiva: cosa significa infatti essere comunisti dopo il socialismo reale e i gulag? Difficile domanda e risposta ancora da là a venire
Esercitare la dissidenza, non fare sconti a nessuno, senza però mai dimenticare che la sua scelta è di stare a fianco con chi resiste al neoliberismo. John Cusack annuisce. E annuisce anche Edward Snowden. Pure lui ha fatto una scelta di campo. Ironia della sorte è ospite di un oligarca che la democrazia la piega ai suoi voleri.
Sa che non potrà mai tornare in patria, ma è il prezzo che ha deciso di pagare affinché le parole che non si ciano più parole ostili al potere che non si possono dire.
[Benedetto Vecchi 19/10/2016]
Nessun commento:
Posta un commento