Riprendiamo dopo la pausa estiva i nostri incontri mensili iniziando da un classico, Ossi di seppia di Eugenio Montale.
Ci troviamo mercoledì 8 ottobe alle ore 21.00
Questo blog accoglie la nuova avventura di quelli di Sguardi d’Altrove, e il Reverendo Dogdson, con i suoi dubbi sulla realtà, si aggiunge al nostro olimpo di numi tutelari. Non dimentichiamo gli autori che più spesso ci hanno accompagnati nel viaggio di Sguardi d’Altrove, anzi, da loro ripartiamo. Quindi, un pensiero affettuoso e ammirato, in particolare, ad Alan Bennet a alla sua Sovrana Lettrice, mantenendo ben fermo il principio che ragguagliare non è leggere.
1 commento:
Difficile parlare di Montale per una non specialista, ma il tema della serata era scegliere una poesia da Ossi di Seppia, quindi mi butto e racconto cosa ho scelto io e perché, in attesa che qualcuno più competente di me fornisca un quadro più completo, ricordando sempre che non siamo un gruppo di critici professionisti, ma solo di lettori curiosi e testardi. Allora, io ho scelto Falsetto, perché la trovo bella e perché mi ricorda alcuni testi a cui sono molto affezionata.
Alla prima lettura mi è piaciuta questa figura femminile così vitale, a contatto con la natura in modo spontaneo, sportivo direi, moderno, non dannunziano, malgrado l’identificazione mitica con Diana e il fatto che le influenze dannunziane mi sembrano abbastanza evidenti. Non è un a figura salvifica, non è un angelo. È un’immagine di forza e indipendenza, una flapper degli Anni Ruggenti, insolita nella rappresentazione femminile italiana -anche politica- del tempo, è proiettata verso il futuro.
Poi, rileggendo, ho notato l’accento malinconico: il poeta non ha più vent’anni come Esterina. Montale ha tradotto vari sonetti di Shakespeare, e si sente. Tre mi sono venuti subito alla mente: 18 (che tutti conoscete), 60 e 74, anche questi molto famosi, ma forse un po’ meno sfruttati. Non sono i sonetti che Montale ha tradotto (quelli sono il 22, il 33 e il 48), ma sono quelli che trovo più vicini a Falsetto.
Il tema della vecchiaia è fondamentale: questo non è un paese per vecchi è il famosissimo incipit della poesia. Ma, a differenza dei Romantici, e in parte anche di Montale, il poeta vuole evitare la fusione con la natura, perché la natura, per quanto ciclica, rappresenta il passare del tempo e la morte. Il poeta, invece, chiede di diventare un’opera d’arte esso stesso, un oggetto che non sembra avere un grande valore -è parte di un giocattolo dell’imperatore- ma allo stesso tempo è un simbolo potente dell’immaginario collettivo, quindi molto umano.
La Bisanzio immaginata da Yeats è al colmo del suo splendore e molto amata dal Decadentismo: è un luogo simbolico dove l’arte ha superato la natura e dove anche i vecchi hanno diritto alla gioia perché i monumenti dell’eterno intelletto contano eccome.
Quello che questi testi hanno in comune, secondo me, Montale, lo Yeats tradotto, Keats e Shakespeare è che in tutti il male di vivere è (almeno in buona parte) sconfitto dalla poesia stessa.
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