Dopo l’esordio di Chiara cantante e altre capraie. Saga di donne strette tra le montagne e il cielo (Pentàgora, 2017), Doris Femminis dà alle stampe il suo secondo romanzo. Fuori per sempre
(Marcos y Marcos, pp. 348, euro 18), conferma l’originalità letteraria
della scrittrice ticinese a cui si confà il tono definitivo del titolo,
sentenza ma anche promessa di uno sguardo capace di svettare oltre i
luoghi, anche quelli comuni. A essere fuori è dunque una certa forma di discorso escludente, un logos
che non tiene conto delle vicende degli ultimi e non comprende la
sofferenza, soprattutto quella mentale, che attraversa la Storia più
grande.
L’INTERESSE speciale di Doris Femminis verso narrazioni corali che volteggiano lungo i margini parte dalla sua vicenda biografica, ovvero da un’infanzia nella Svizzera italiana, a Cavergno, da cui poi transita per lavorare a Mandrisio, giungendo dapprima a Ginevra e infine nel Canton Vaud. Negli occhi ha l’intermittenza dei sogni di sua nonna, capraia di cui per alcuni anni avrebbe voluto seguire la sorte; con il primo stipendio Doris compra un agnello e per qualche tempo, mentre intraprende la professione infermieristica, alleva un piccolo gregge. È il contatto con la comunità contadina, quella piccola del paese natale, dura e tuttavia semplice, che le dà la misura di una parola asciutta, splendente maestra di nominazioni e visioni. Nel presagio di una physis colma di trappole e mai compiuta, Femminis costruisce un posto parlante che è proprio il suo. Ha filastrocche popolari e rime baciate dalla sfortuna a cui ci si rivolta.
Dallo sprofondo di un crollo psichico, Giulia, una delle protagoniste di Fuori per sempre, per scappare dalla propria angoscia fa qualsiasi cosa fino ad arrendersi all’evidenza del rammendo genealogico, grazie alla iniziale relazione di fiducia con la dottoressa Sortelli; conosciamo in tal modo sua sorella Annalisa, bambina e poi ragazzina tra i boschi limitrofi a Giusello. Rompe rami, lancia sassi, si riposa dentro anfratti cavernosi uscendone dopo ore, scorticata e piena di terra. Ma soprattutto allestisce l’esatto perimetro del fuori, chiudendo tra le pietre il paesino di Giusello e chi lo abita, con case osterie pascoli panetterie chiesa compresa. Attorno le foglie, una per ogni emozione, quelle di betulla sono gentili, di faggio invece spiacevoli, di quercia indicano malumori, con quelle di castagno si può nominare l’ipocrisia del prossimo. La parabola di Annalisa riemerge nella contraddizione insanabile di Giulia, è a lei che rimane la conseguenza di una sintomatologia abbandonica secondo cui esiste il fuori che si può controllare e quello invece che amplifica i sensi tanto da allucinarli. Esiste il frastuono delle ambulanze, serate in cui guardare il cielo non è una romanticheria occasionale ma la conseguenza quasi fatale della schiena che si inarca per gli effetti di una pera.
POI L’AZZARDO di una fuga vera, di corpi reali che esplodono, scardina la contenzione e diventa esercizio rocambolesco di un futuro possibile, di fuoriuscita dal martirio della istituzione totale. Una prova generale di ciò che significa varcare la soglia. E uscire, andare via. Zaini in spalla. E via. Si tratti di Giulia, Annalisa o Alex, di Esteban, Daniele o Michele poco importa. Con disinvoltura, il gesto di Doris Femminis segue l’allarme imminente e irrimediabile di una guarigione che è difficile sperimentare quando è l’altra faccia dell’internamento.
Il manicomio abitato dagli indifesi, da una afflizione esiziale di cui il romanzo ci fa sentire odori, sapori e colori, è allora l’esito di contesti materiali frequentati dalla scrittrice per ragioni di lavoro, non solo nei reparti ma anche a domicilio, quando cioè Doris, che dà vita a creature affezionate all’utopia e ai licheni, deve andare a sincerarsi dello stato di salute psichica di chi ha in cura. Sono incontri, relazioni di storie che si toccano e si mescolano nell’abbraccio di un tempo che, oltrepassando i confini più di quarant’anni fa, ha nominato la libertà come rivoluzionaria. E terapeutica.
[Alessandra Pigliaru 21/06/2019]
L’INTERESSE speciale di Doris Femminis verso narrazioni corali che volteggiano lungo i margini parte dalla sua vicenda biografica, ovvero da un’infanzia nella Svizzera italiana, a Cavergno, da cui poi transita per lavorare a Mandrisio, giungendo dapprima a Ginevra e infine nel Canton Vaud. Negli occhi ha l’intermittenza dei sogni di sua nonna, capraia di cui per alcuni anni avrebbe voluto seguire la sorte; con il primo stipendio Doris compra un agnello e per qualche tempo, mentre intraprende la professione infermieristica, alleva un piccolo gregge. È il contatto con la comunità contadina, quella piccola del paese natale, dura e tuttavia semplice, che le dà la misura di una parola asciutta, splendente maestra di nominazioni e visioni. Nel presagio di una physis colma di trappole e mai compiuta, Femminis costruisce un posto parlante che è proprio il suo. Ha filastrocche popolari e rime baciate dalla sfortuna a cui ci si rivolta.
Dallo sprofondo di un crollo psichico, Giulia, una delle protagoniste di Fuori per sempre, per scappare dalla propria angoscia fa qualsiasi cosa fino ad arrendersi all’evidenza del rammendo genealogico, grazie alla iniziale relazione di fiducia con la dottoressa Sortelli; conosciamo in tal modo sua sorella Annalisa, bambina e poi ragazzina tra i boschi limitrofi a Giusello. Rompe rami, lancia sassi, si riposa dentro anfratti cavernosi uscendone dopo ore, scorticata e piena di terra. Ma soprattutto allestisce l’esatto perimetro del fuori, chiudendo tra le pietre il paesino di Giusello e chi lo abita, con case osterie pascoli panetterie chiesa compresa. Attorno le foglie, una per ogni emozione, quelle di betulla sono gentili, di faggio invece spiacevoli, di quercia indicano malumori, con quelle di castagno si può nominare l’ipocrisia del prossimo. La parabola di Annalisa riemerge nella contraddizione insanabile di Giulia, è a lei che rimane la conseguenza di una sintomatologia abbandonica secondo cui esiste il fuori che si può controllare e quello invece che amplifica i sensi tanto da allucinarli. Esiste il frastuono delle ambulanze, serate in cui guardare il cielo non è una romanticheria occasionale ma la conseguenza quasi fatale della schiena che si inarca per gli effetti di una pera.
POI L’AZZARDO di una fuga vera, di corpi reali che esplodono, scardina la contenzione e diventa esercizio rocambolesco di un futuro possibile, di fuoriuscita dal martirio della istituzione totale. Una prova generale di ciò che significa varcare la soglia. E uscire, andare via. Zaini in spalla. E via. Si tratti di Giulia, Annalisa o Alex, di Esteban, Daniele o Michele poco importa. Con disinvoltura, il gesto di Doris Femminis segue l’allarme imminente e irrimediabile di una guarigione che è difficile sperimentare quando è l’altra faccia dell’internamento.
Il manicomio abitato dagli indifesi, da una afflizione esiziale di cui il romanzo ci fa sentire odori, sapori e colori, è allora l’esito di contesti materiali frequentati dalla scrittrice per ragioni di lavoro, non solo nei reparti ma anche a domicilio, quando cioè Doris, che dà vita a creature affezionate all’utopia e ai licheni, deve andare a sincerarsi dello stato di salute psichica di chi ha in cura. Sono incontri, relazioni di storie che si toccano e si mescolano nell’abbraccio di un tempo che, oltrepassando i confini più di quarant’anni fa, ha nominato la libertà come rivoluzionaria. E terapeutica.
[Alessandra Pigliaru 21/06/2019]
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