Tra il 1890, anno del suo arrivo a Yokohama, e la morte,
sopraggiunta nel 1904, Lafcadio Hearn scrisse sul Giappone sia opere
dall’impianto rapsodico e impressionistico, sia testi di grande rigore
analitico. Non si è forse mai esaurito il dibattito intorno alla
validità delle immagini che ci ha consegnato, e la recente pubblicazione
di Ombre giapponesi (Adelphi, pp. 302, € 15,00),
curata da Ottavio Fatica e arricchita da uno scritto di Hugo von
Hofmannsthal, è anche un invito a riconsiderare questo importante
personaggio e il suo instancabile lavoro di traduzione e di scrittura.
La sua era la visione romantica di un paese ideale, un paese che non
esiste, come ebbe a dire Wilde con parole ricordate da Fatica nella
postfazione, o fu uno sguardo accurato sul contesto giapponese, come
riteneva Basil Chamberlain?
Fatica osserva nel suo testo come gli scritti di Hearn siano di prezioso ausilio alla comprensione di un paese che egli amava perché partecipe della sua vita interiore, il kokoro. Slancio romantico e acume intellettuale coesistono nella sua produzione, dove l’interesse per la spiritualità orientale si lega a convinzioni scientifico-filosofiche (in primo luogo il pensiero di Spencer) e la frammentarietà delle intuizioni e la fugacità degli sguardi trovano un complemento in analisi attente e irreprensibili. In gioco, infatti, non sono alternanze né contrasti, bensì una composizione perfetta che riflette la profonda conoscenza dell’oggetto sul quale Hearn scriveva.
Pregevole, nella raccolta, è la scelta con cui i testi si succedono: non subordinati alla scansione cronologica (i trentanove scritti provengono da undici libri pubblicati tra il 1894 e il 1918), ma affrancati da ogni necessità di ordine e sistema, privilegiando un processo per associazioni che fa emergere, attraverso ombre, sequenze, affinità, una rappresentazione fedele e al tempo stesso inedita del Giappone di Hearn.
Di particolare rilievo il tema del sogno, che ha connotazioni mitiche, filosofiche, fantasmatiche, poetiche. Hearn si rifà a incanti e inquietudini dell’esperienza personale come alla letteratura, e il mondo onirico è come un velo di nubi quasi mai dissipato se non per mostrare, attraverso improvvisi spiragli, l’arcano e il perturbante.
Del resto, il Giappone era per Hearn «la terra dei sogni», come scrisse in una lettera del novembre 1890: «Eccomi nella terra dei sogni, circondato da strani dèi. Mi pare di averli già conosciuti e amati da qualche parte». Queste parole, che sembrano tornare in quella Constatazione di Caproni che dice «Non c’ero mai stato./ M’accorgo che c’ero nato», raccontano il piacere del ritorno nella scoperta, l’affinità che trascende la retorica della nazione e oppone la verità dello spirito all’arbitrarietà dei confini.
Non a caso, il libro si apre con la rivisitazione del mito del monte Horai, chiamato anche «Miraggio – la Visione dell’Intangibile. E la Visione stinge – per non più riapparire fuorché nei dipinti, nelle poesie, nei sogni…». Hearn attinge alla storia, alla mitologia, all’epica, ai racconti popolari, e affida a una lingua vibrante racconti che uniscono il rigore della ricostruzione al piacere delle suggestioni, in un dedalo di generi, forme e suoni.
Il volume si chiude con la storia di una giovane che osserva nello specchio la propria immagine credendola l’ombra della madre morta, e provando la certezza di un contatto: è un richiamo all’atmosfera di Horai, composta non d’aria, ma «della sostanza di generazioni d’anime a quintilioni, circonfuse di un’unica immensa traslucidità», che al mortale basta inalare perché quegli spiriti trasmutino i suoi sensi, «talché quegli vedrà soltanto come essi vedevano, e sentirà soltanto come essi sentivano, e penserà soltanto come essi pensavano».
Quella di Hearn fu una visione estetizzante, romantica? Risponde al vero la sua rappresentazione del Giappone? Domandarselo è probabilmente fuori luogo. La sua opera riflette le proiezioni dell’io in uno spazio dell’altrove, allude a un continuo sconfinamento, a inabissamenti e emersioni. E, in definitiva, testimonia di un lungo e appassionato incontro.
[Gala Maria Follaco 17/06/2018]
Fatica osserva nel suo testo come gli scritti di Hearn siano di prezioso ausilio alla comprensione di un paese che egli amava perché partecipe della sua vita interiore, il kokoro. Slancio romantico e acume intellettuale coesistono nella sua produzione, dove l’interesse per la spiritualità orientale si lega a convinzioni scientifico-filosofiche (in primo luogo il pensiero di Spencer) e la frammentarietà delle intuizioni e la fugacità degli sguardi trovano un complemento in analisi attente e irreprensibili. In gioco, infatti, non sono alternanze né contrasti, bensì una composizione perfetta che riflette la profonda conoscenza dell’oggetto sul quale Hearn scriveva.
Pregevole, nella raccolta, è la scelta con cui i testi si succedono: non subordinati alla scansione cronologica (i trentanove scritti provengono da undici libri pubblicati tra il 1894 e il 1918), ma affrancati da ogni necessità di ordine e sistema, privilegiando un processo per associazioni che fa emergere, attraverso ombre, sequenze, affinità, una rappresentazione fedele e al tempo stesso inedita del Giappone di Hearn.
Di particolare rilievo il tema del sogno, che ha connotazioni mitiche, filosofiche, fantasmatiche, poetiche. Hearn si rifà a incanti e inquietudini dell’esperienza personale come alla letteratura, e il mondo onirico è come un velo di nubi quasi mai dissipato se non per mostrare, attraverso improvvisi spiragli, l’arcano e il perturbante.
Del resto, il Giappone era per Hearn «la terra dei sogni», come scrisse in una lettera del novembre 1890: «Eccomi nella terra dei sogni, circondato da strani dèi. Mi pare di averli già conosciuti e amati da qualche parte». Queste parole, che sembrano tornare in quella Constatazione di Caproni che dice «Non c’ero mai stato./ M’accorgo che c’ero nato», raccontano il piacere del ritorno nella scoperta, l’affinità che trascende la retorica della nazione e oppone la verità dello spirito all’arbitrarietà dei confini.
Non a caso, il libro si apre con la rivisitazione del mito del monte Horai, chiamato anche «Miraggio – la Visione dell’Intangibile. E la Visione stinge – per non più riapparire fuorché nei dipinti, nelle poesie, nei sogni…». Hearn attinge alla storia, alla mitologia, all’epica, ai racconti popolari, e affida a una lingua vibrante racconti che uniscono il rigore della ricostruzione al piacere delle suggestioni, in un dedalo di generi, forme e suoni.
Il volume si chiude con la storia di una giovane che osserva nello specchio la propria immagine credendola l’ombra della madre morta, e provando la certezza di un contatto: è un richiamo all’atmosfera di Horai, composta non d’aria, ma «della sostanza di generazioni d’anime a quintilioni, circonfuse di un’unica immensa traslucidità», che al mortale basta inalare perché quegli spiriti trasmutino i suoi sensi, «talché quegli vedrà soltanto come essi vedevano, e sentirà soltanto come essi sentivano, e penserà soltanto come essi pensavano».
Quella di Hearn fu una visione estetizzante, romantica? Risponde al vero la sua rappresentazione del Giappone? Domandarselo è probabilmente fuori luogo. La sua opera riflette le proiezioni dell’io in uno spazio dell’altrove, allude a un continuo sconfinamento, a inabissamenti e emersioni. E, in definitiva, testimonia di un lungo e appassionato incontro.
[Gala Maria Follaco 17/06/2018]
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