Il titolo di un libro è, il più delle volte, indicativo del
contenuto del lavoro stesso. Se ci si trova, quindi, davanti ad un
lavoro intitolato Gramsci per la scuola. Conoscere è vivere, di
Giuseppe Benedetti e Donatella Coccoli (L’Asino d’oro, pp. 300, euro
18), si dovrebbe essere predisposti alla lettura di un testo che
affronti il problema della mancata conoscenza di Gramsci nelle scuole
italiane. Chiusa l’ultima pagina, ripercorso l’indice, arrivati al punto
di tirare le somme, si nota che su dieci capitoli soltanto quelli fra
il sesto e il nono sono dedicati al rapporto fra Gramsci e la scuola, o
meglio agli scritti da Gramsci dedicati alla scuola.
Alcune questioni che, nella pedagogia gramsciana, occupano un posto di primo piano, come «la scuola disinteressata» e lo stesso fondamentale concetto di «für ewig», vengono affrontati nel contesto di un’analisi che, per voler essere onnicomprensiva, corre il rischio di rivelarsi insoddisfacente. Infatti, pur affrontando in modo ponderoso i pensieri del grande sardo sulla scuola e proponendo quegli aspetti della sua riflessione che, se presi in considerazione, potrebbero invertire la tendenza delle sorti, ahinoi!, purtroppo poco «magnifiche e progressive» della stessa istituzione, il libro manca di quel furore «eroico» capace di porre al centro dell’attenzione quello che, nella scuola, è il problema, ossia il rapporto fra docenti e discenti che si configura ancora nei termini del dominio e, conseguentemente, della subalternità a dispetto del nesso dialettico di cui scriveva Gramsci (basti pensare al Club di vita morale oppure alle note carcerarie sul principio educativo). Gramsci, perciò, pone al centro del circuito docente-discente il ruolo dirigente del primo che, nella sua posizione, dovrebbe assicurare la centralità dell’obiettivo dell’apprendimento non nel valore pratico-professionale delle nozioni acquisite bensì nella proposta di uno studio che sia disinteressato proprio perché mirato allo sviluppo dell’interesse. Educare ergo istruire, ossia portare a compimento la prometeica impresa di porre le premesse di una formazione che, in modo spontaneo e non indotto, avendo la storia come riferimento, consenta l’apprendimento di quelle nozioni concrete che, uniche, riescono anche ad istruire. In una parola, la formazione.
Va notata en passant, come peraltro mette in evidenza Marco Revelli nella sua Prefazione, la presenza del nono capitolo «inessenziale e in qualche misura ingiusto verso una figura che ha rappresentato molto per la mia generazione e la nostra rivolta giovanile»: si tratta di don Lorenzo Milani, definito un «anti-Gramsci nella scuola».
La parte finale del lavoro è dedicata alle letture su Gramsci, in specie in relazione al suo pensiero pedagogico. Gli strali polemici degli autori vanno a colpire Togliatti e il Pci che, secondo loro, hanno sempre usato Gramsci a fini partitici (con particolare riferimento alla religione e all’articolo 7 della Costituzione). Fra i tanti contributi citati non compare, a sostenere lo stretto legame fra pedagogia e politica, quello dell’ultimo segretario comunista, Alessandro Natta, che riflettendo intorno ai problemi della scuola in Gramsci, faceva presente che la «scuola è lo strumento dell’egemonia». Inoltre c’è un altro aspetto di incompletezza nel lavoro di Benedetti e Coccoli; si tratta dei riferimenti alle ultime edizioni delle opere gramsciane.
Pur citandola continuamente, dimenticano di ricordare che l’edizione più completa delle lettere carcerarie è quella del 1996 edita da Sellerio, ripubblicata nel 2013 dalla stessa casa editrice, e curata da Antonio A. Santucci.
Se è vero che conoscere è vivere, bisogna individuare quale sia il Gramsci per la scuola: mi sembra che il più adatto allo stato presente delle nostre scuole sia il maestro di metodo comunicato attraverso il lavoro di chi insegna. Il maestro di rigore, di diligenza, di compostezza, di concentrazione, di libertà; per questo serve far leggere Gramsci nelle scuole agli studenti, far leggere gli scritti di Gramsci per le scuole agli studenti e non riassumere il suo pensiero pedagogico ad uso degli addetti ai lavori.
[Lelio La Porta 12/05/2018]
Alcune questioni che, nella pedagogia gramsciana, occupano un posto di primo piano, come «la scuola disinteressata» e lo stesso fondamentale concetto di «für ewig», vengono affrontati nel contesto di un’analisi che, per voler essere onnicomprensiva, corre il rischio di rivelarsi insoddisfacente. Infatti, pur affrontando in modo ponderoso i pensieri del grande sardo sulla scuola e proponendo quegli aspetti della sua riflessione che, se presi in considerazione, potrebbero invertire la tendenza delle sorti, ahinoi!, purtroppo poco «magnifiche e progressive» della stessa istituzione, il libro manca di quel furore «eroico» capace di porre al centro dell’attenzione quello che, nella scuola, è il problema, ossia il rapporto fra docenti e discenti che si configura ancora nei termini del dominio e, conseguentemente, della subalternità a dispetto del nesso dialettico di cui scriveva Gramsci (basti pensare al Club di vita morale oppure alle note carcerarie sul principio educativo). Gramsci, perciò, pone al centro del circuito docente-discente il ruolo dirigente del primo che, nella sua posizione, dovrebbe assicurare la centralità dell’obiettivo dell’apprendimento non nel valore pratico-professionale delle nozioni acquisite bensì nella proposta di uno studio che sia disinteressato proprio perché mirato allo sviluppo dell’interesse. Educare ergo istruire, ossia portare a compimento la prometeica impresa di porre le premesse di una formazione che, in modo spontaneo e non indotto, avendo la storia come riferimento, consenta l’apprendimento di quelle nozioni concrete che, uniche, riescono anche ad istruire. In una parola, la formazione.
Va notata en passant, come peraltro mette in evidenza Marco Revelli nella sua Prefazione, la presenza del nono capitolo «inessenziale e in qualche misura ingiusto verso una figura che ha rappresentato molto per la mia generazione e la nostra rivolta giovanile»: si tratta di don Lorenzo Milani, definito un «anti-Gramsci nella scuola».
La parte finale del lavoro è dedicata alle letture su Gramsci, in specie in relazione al suo pensiero pedagogico. Gli strali polemici degli autori vanno a colpire Togliatti e il Pci che, secondo loro, hanno sempre usato Gramsci a fini partitici (con particolare riferimento alla religione e all’articolo 7 della Costituzione). Fra i tanti contributi citati non compare, a sostenere lo stretto legame fra pedagogia e politica, quello dell’ultimo segretario comunista, Alessandro Natta, che riflettendo intorno ai problemi della scuola in Gramsci, faceva presente che la «scuola è lo strumento dell’egemonia». Inoltre c’è un altro aspetto di incompletezza nel lavoro di Benedetti e Coccoli; si tratta dei riferimenti alle ultime edizioni delle opere gramsciane.
Pur citandola continuamente, dimenticano di ricordare che l’edizione più completa delle lettere carcerarie è quella del 1996 edita da Sellerio, ripubblicata nel 2013 dalla stessa casa editrice, e curata da Antonio A. Santucci.
Se è vero che conoscere è vivere, bisogna individuare quale sia il Gramsci per la scuola: mi sembra che il più adatto allo stato presente delle nostre scuole sia il maestro di metodo comunicato attraverso il lavoro di chi insegna. Il maestro di rigore, di diligenza, di compostezza, di concentrazione, di libertà; per questo serve far leggere Gramsci nelle scuole agli studenti, far leggere gli scritti di Gramsci per le scuole agli studenti e non riassumere il suo pensiero pedagogico ad uso degli addetti ai lavori.
[Lelio La Porta 12/05/2018]
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