Daniel Defoe fu giornalista geniale, uomo d’affari fallimentare,
perseguitato dai debiti, biografo di banditi famosi, dissidente, fuori
dalla chiesa anglicana anzi da ogni chiesa, che si accendeva anche
prendendo parte a diatribe sociali e politiche. Swift lo ricordava come
quel tizio messo alla gogna per debiti – la giustizia inglese era a quei
tempi pronta e spietata. Malgrado le sue alterne fortune, Defoe
produceva instant books sul commercio, la religione, l’educazione, la
povertà, la peste, interventi a sostegno prima dei whig, poi dei tory.
Uno straordinario esempio di giornalismo è The Journal of the Plague Year (del 1722), raccolta di osservazioni, ricordi pubblici o privati della grande peste del 1665 che aveva fatto di Londra un inferno in terra, insomma il moderno documentario di quel tragico evento, che facilmente avrebbe potuto scadere nel sentimentalismo o nella pietas puritana. Ma Defoe fondò saldamente su tanti fact e misurata fiction la narrazione realistica, diretta, orale in origine, priva di metafore e lumi trascendentali.
«Oggi più o meno tutti hanno imparato a scrivere badando alle circostanze – notò Mario Praz nella sua famosa Storia della letteratura inglese – ma quanti lo facevano prima di Defoe? Egli trovò un modo di dare l’ impressione della realtà , della cosa vissuta, insistendo sui minuti particolari, e proprio su certi minuti dettagli che non erano essenziali all’intelligenza del racconto, ma che contribuivano potentemente a creare ‘un’atmosfera’». Praz si riferiva a quelle minutaglie inutili, quell’ effet de réel che anni dopo Roland Barthes avrebbe considerato essenziali a fondare il senso di verità della scrittura naturalistica. «Questo è il realismo di Defoe: una sorta di pacata allucinazione, la cui credibilità è infinitamente ampliata dalla casualità del discorso – commentò Giorgio Manganelli – Tendenzialmente, quindi, è un documento, una serie di “prove”, di “testimonianze”, che mirano alla credibilità … Le pagine, gli episodi si giustappongono in un disordine vitale, e quel tanto di unità che vi si ritrova nasce da certe qualità del personaggio, della “voce recitante”, qualità più spesso tipiche, mitiche che individuali.»
All’età di sessant’anni Defoe divenne, con Robinson Crusoe, il primo, non solo cronologicamente, dei grandi romanzieri del Settecento inglese: Fielding, Richardson, Sterne. I suoi successori non riuscirono a estrarre dalla sua cava tutto l’oro che lui, artista inconscio, vi aveva sepolto – secondo Virginia Woolf. Quel Robinson che aveva fatto naufragio in una situazione sconosciuta (l’isola), ancora tutta da capire, ma ricca di futuro, resta il campione dell’ homo oeconomicus; e tuttora ci chiama a confronto.
Moll Flanders, pubblicata nel 1722, doveva essere la controparte femminile di Robinson, ma l’intrusione del curatore nel diario della famosa ladra, un anonimo puritano che taglia ogni licenziosità o frivolezza, dimentica di dar ragione dei numerosi figli, e della conclamata debolezza femminile – qui esercitata come arte manipolatoria – conferisce alla protagonista una prontezza di pensiero e di azione che è quasi virile. In ogni confronto coi suoi cinque mariti, è lei a dominare e decidere. Nell’ottima traduzione appena uscita da Feltrinelli di Antonio Bibbò (pp. 410, € 9,00) la voce di Moll risuona forte e chiara, le sue penitenze sono nubi passeggere, i suoi stratagemmi sempre vincenti. Ogni scena di sesso – che il premuroso curatore ci risparmia – è stata silenziosamente decisa a priori da lei, che la giustifica con la solita, ottima scusa: la minaccia della povertà presente o imminente. Per ogni furto che compie sempre con destrezza, c’è il diavolo che, invisibile, l’ha manovrata contro la sua esplicita volontà. E la sua volontà morale è così forte e esigente che si ritorce contro la vittima e l’accusa di aver colpevolmente provocato e assistito il furto con la propria oltraggiosa noncuranza o peggio.
Oltre alla assenza delle metafore e delle similitudini, il linguaggio di Defoe è svelto e convenzionale come richiedevano la prosa scientifica e il nuovo pubblico di lettori (artigiani, commercianti, donne, fanatici di vario tipo ) che Defoe non dimentica mai – avidi di cronaca nera ma anche di sentenziosa virtù. Un puro godimento sono i dialoghi di Moll con i suoi gentiluomini, ricchi borghesi che lei riesce ad alleggerire di grosse parrucche, spade, orologi, bastoni oltre al portafoglio; a volte un intero baule o un cavallo. La domanda dell’uomo è diretta e si aspetta che anche la risposta lo sia anch’essa. Ma Moll dà inizio a una argomentazione ondulatoria che nega e promette al tempo stesso, attirando il richiedente verso l’obiettivo che lei ha in mente.
La resa di lui è convalidata da un contratto. Moll esige un contratto non solo per lo scambio in danaro, ma anche per assicurarsi di favori, promesse, comportamenti. Una schematica didascalia arreda la scena, e all’improvviso balena un sorriso sul volto di lei, e più raramente di lui. I sorrisi sono comunque in numero assai minore dei contratti. Più numerose sono le occasioni per fare i conti in tasca a Moll: quelle somme possedute o sperate o rubate o perse scandiscono crudamente le fortune e le sfortune della protagonista e l’ansia del lettore. Ci sono scene magistrali, poche ma indimenticabili.
Se fosse vissuto oggi, Defoe avrebbe girato il grande film su Londra: malavita organizzata vs ricca borghesia, con scorci rabbiosi in bianco e nero, attori di strada, e come colonna sonora un Haydn corretto al jazz. Sei anni dopo, nel 1728, ci pensò John Gay che trasportò sulle scene londinesi l’intero mondo di Moll Flanders in uno spassoso, irriverente musical, recitato da una compagnia di straccioni, su accompagnamento di canzoni popolari e ouverture d’opera: The Beggar’s Opera appunto. Ladre, prostitute, mezzane, borseggiatori, ricettatori, carcerieri, banditi, applauditissimi nel maggior teatro di Londra, il Lincon’s Inn Fields, furono riprodotti in stampe, ventagli, tazzine, stoffe. Fu uno dei primi eventi di cultura popolare a fare incassi straordinari.
[Viola Papetti 09/07/2017]
Uno straordinario esempio di giornalismo è The Journal of the Plague Year (del 1722), raccolta di osservazioni, ricordi pubblici o privati della grande peste del 1665 che aveva fatto di Londra un inferno in terra, insomma il moderno documentario di quel tragico evento, che facilmente avrebbe potuto scadere nel sentimentalismo o nella pietas puritana. Ma Defoe fondò saldamente su tanti fact e misurata fiction la narrazione realistica, diretta, orale in origine, priva di metafore e lumi trascendentali.
«Oggi più o meno tutti hanno imparato a scrivere badando alle circostanze – notò Mario Praz nella sua famosa Storia della letteratura inglese – ma quanti lo facevano prima di Defoe? Egli trovò un modo di dare l’ impressione della realtà , della cosa vissuta, insistendo sui minuti particolari, e proprio su certi minuti dettagli che non erano essenziali all’intelligenza del racconto, ma che contribuivano potentemente a creare ‘un’atmosfera’». Praz si riferiva a quelle minutaglie inutili, quell’ effet de réel che anni dopo Roland Barthes avrebbe considerato essenziali a fondare il senso di verità della scrittura naturalistica. «Questo è il realismo di Defoe: una sorta di pacata allucinazione, la cui credibilità è infinitamente ampliata dalla casualità del discorso – commentò Giorgio Manganelli – Tendenzialmente, quindi, è un documento, una serie di “prove”, di “testimonianze”, che mirano alla credibilità … Le pagine, gli episodi si giustappongono in un disordine vitale, e quel tanto di unità che vi si ritrova nasce da certe qualità del personaggio, della “voce recitante”, qualità più spesso tipiche, mitiche che individuali.»
All’età di sessant’anni Defoe divenne, con Robinson Crusoe, il primo, non solo cronologicamente, dei grandi romanzieri del Settecento inglese: Fielding, Richardson, Sterne. I suoi successori non riuscirono a estrarre dalla sua cava tutto l’oro che lui, artista inconscio, vi aveva sepolto – secondo Virginia Woolf. Quel Robinson che aveva fatto naufragio in una situazione sconosciuta (l’isola), ancora tutta da capire, ma ricca di futuro, resta il campione dell’ homo oeconomicus; e tuttora ci chiama a confronto.
Moll Flanders, pubblicata nel 1722, doveva essere la controparte femminile di Robinson, ma l’intrusione del curatore nel diario della famosa ladra, un anonimo puritano che taglia ogni licenziosità o frivolezza, dimentica di dar ragione dei numerosi figli, e della conclamata debolezza femminile – qui esercitata come arte manipolatoria – conferisce alla protagonista una prontezza di pensiero e di azione che è quasi virile. In ogni confronto coi suoi cinque mariti, è lei a dominare e decidere. Nell’ottima traduzione appena uscita da Feltrinelli di Antonio Bibbò (pp. 410, € 9,00) la voce di Moll risuona forte e chiara, le sue penitenze sono nubi passeggere, i suoi stratagemmi sempre vincenti. Ogni scena di sesso – che il premuroso curatore ci risparmia – è stata silenziosamente decisa a priori da lei, che la giustifica con la solita, ottima scusa: la minaccia della povertà presente o imminente. Per ogni furto che compie sempre con destrezza, c’è il diavolo che, invisibile, l’ha manovrata contro la sua esplicita volontà. E la sua volontà morale è così forte e esigente che si ritorce contro la vittima e l’accusa di aver colpevolmente provocato e assistito il furto con la propria oltraggiosa noncuranza o peggio.
Oltre alla assenza delle metafore e delle similitudini, il linguaggio di Defoe è svelto e convenzionale come richiedevano la prosa scientifica e il nuovo pubblico di lettori (artigiani, commercianti, donne, fanatici di vario tipo ) che Defoe non dimentica mai – avidi di cronaca nera ma anche di sentenziosa virtù. Un puro godimento sono i dialoghi di Moll con i suoi gentiluomini, ricchi borghesi che lei riesce ad alleggerire di grosse parrucche, spade, orologi, bastoni oltre al portafoglio; a volte un intero baule o un cavallo. La domanda dell’uomo è diretta e si aspetta che anche la risposta lo sia anch’essa. Ma Moll dà inizio a una argomentazione ondulatoria che nega e promette al tempo stesso, attirando il richiedente verso l’obiettivo che lei ha in mente.
La resa di lui è convalidata da un contratto. Moll esige un contratto non solo per lo scambio in danaro, ma anche per assicurarsi di favori, promesse, comportamenti. Una schematica didascalia arreda la scena, e all’improvviso balena un sorriso sul volto di lei, e più raramente di lui. I sorrisi sono comunque in numero assai minore dei contratti. Più numerose sono le occasioni per fare i conti in tasca a Moll: quelle somme possedute o sperate o rubate o perse scandiscono crudamente le fortune e le sfortune della protagonista e l’ansia del lettore. Ci sono scene magistrali, poche ma indimenticabili.
Se fosse vissuto oggi, Defoe avrebbe girato il grande film su Londra: malavita organizzata vs ricca borghesia, con scorci rabbiosi in bianco e nero, attori di strada, e come colonna sonora un Haydn corretto al jazz. Sei anni dopo, nel 1728, ci pensò John Gay che trasportò sulle scene londinesi l’intero mondo di Moll Flanders in uno spassoso, irriverente musical, recitato da una compagnia di straccioni, su accompagnamento di canzoni popolari e ouverture d’opera: The Beggar’s Opera appunto. Ladre, prostitute, mezzane, borseggiatori, ricettatori, carcerieri, banditi, applauditissimi nel maggior teatro di Londra, il Lincon’s Inn Fields, furono riprodotti in stampe, ventagli, tazzine, stoffe. Fu uno dei primi eventi di cultura popolare a fare incassi straordinari.
[Viola Papetti 09/07/2017]
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