L’idea di recinzione si incontra con quella di confine che, a sua
volta, rimanda a quella di contenimento. In un moderno Stato nazionale
contenere implica il selezionare: qualcosa ma, anche e soprattutto, chi
possa essere parte della comunità (di popolo, di stirpe, di razza, di
«destino»), idea competitiva, nella moderna esperienza della politica, a
quella di cittadinanza. Allora, il primo punto da cui partire è la
ristampa, arricchita di nuovi suggerimenti di lettura, di un volume di
Olivier Razac, Storia politica del filo spinato. Genealogia di un dispositivo di potere (ombre corte, pp. 158, euro 14). L’autore, maître de conférences
in filosofia presso l’Università di Grenoble, ricostruisce
letteralmente il reticolo storico del reticolato. Il filo spinato,
infatti, non è solo uno strumento materiale per spezzare, dividere,
infine separare per sempre i corpi ma anche un dispositivo simbolico che
ha un fortissimo impatto sulle coscienze dei contemporanei.
NEL MEDESIMO TEMPO delimita il campo della protezione da quello del rifiuto, l’habitat di ciò che va tutelato dal contesto di quanto deve essere annientato.
Il filo spinato non vale solo per quanti sono trattenuti dentro gli spazi da esso rigidamente contrassegnati ma anche e soprattutto per coloro che lo osservano da fuori, celebrandone in tale modo la sua invalicabilità. Non è quindi un caso se esso compaia, sinistramente, in tre catastrofi della contemporaneità, quasi a volerne definire i lineamenti di fondo: i processi di colonizzazione dello spazio americano, a partire dal superamento della frontiera orientale; la parossistica recinzione dell’interminabile teoria di trincee, disegnata sui campi di battaglia immobili della Prima guerra mondiale; la tragica linea di delimitazione dei campi di concentramento e di sterminio nazisti. La questione alla quale il filo spinato rimanda da subito è la rottura della linea di continuità, nel diritto alla vita, tra ciò che è considerato umano e quanto, invece, viene ridotto a mero oggetto animato. Olivier Razac ci restituisce quindi il nesso tra controllo dello spazio attraverso la sua interruzione e il legame tra discontinuità e reificazione dell’umanità.
Un percorso parallelo è quello svolto da Götz Aly in Zavorre. Storia dell’Aktion T4: l’«eutanasia» nella Germania nazista, 1939-1945 (Einaudi, Torino 2017, pp. 261, euro 30), laddove la «selezione» delle vite «non degne di essere vissute» è ricostruita dall’autore, docente al Fritz Bauer Institut dell’Università di Francoforte, come percorso di ingegneria sociale e, nel medesimo tempo, manifestazione di rimozione della responsabilità all’atto stesso della sua esecuzione.
L’ASSASSINIO SISTEMATICO di duecentomila cittadini tedeschi, considerati un peso per lo Stato tedesco, perlopiù in ragione della loro condizione psichica, ritenuta irrecuperabile, fu parte integrante del percorso di disintegrazione della varietà umana che stava al nocciolo del progetto nazista. Aly ne ricostruisce i diversi passaggi: l’impostazione politica del «problema» del trattamento degli «incurabili», la dimensione burocratica dell’azione, l’intervento sistematico degli ordini professionali e della sanità pubblica, l’opera di comunicazione con le famiglie, la feroce e infelice dialettica tra abbandono, indifferenza, rimozione ma anche il fatalismo e il pudore che connotarono una parte dei congiunti, le famiglie, in generale il pubblico tedesco. Tra il 1939 e il 1945 una macchina di distruzione collettiva operò attivamente in tal senso, colpendo non solo le vittime ma adoperandosi in un complesso processo di desensibilizzazione e anestetizzazione collettiva.
A VOLERE RIBADIRE un principio fondamentale nella fascistizzazione delle società, dove la repressione e poi l’annientamento delle minoranze, ricondotte in questo caso alla condizione di minorati irrecuperabili, viene pensata e organizzata come strumento riordinativo della maggioranza, quella composta dai «sani». Questi ultimi non sono tali solo perché esenti da degenerazioni ereditarie o da patologie ritenute incurabili, esclusivo onere economico per la collettività, ma per la loro totale adesione ad un corpo collettivo, quello della nazione intesa come comunità di stirpe. Il dispositivo ideologico che sovraintendeva all’Azione T4 era solo uno degli anelli terminali di un ampio processo di radicalizzazione dell’azione biopolitica, portata ai suoi estremi risultati. E ne costituiva quindi la vera essenza.
All’autore non interessa la denuncia morale in sé ma la ricostruzione dei meccanismi che facevano parte di una macchina sterminazionista nel quale l’omicidio di massa veniva presentato dalle autorità pubbliche in quanto atto di «misericordia», coniugato alla necessaria «selezione» dei caratteri positivi della collettività. In altre parole, la morte dell’impuro, e del degenerato, come garanzia di vita dei «migliori».
Aly ci restituisce uno spaccato sia del sistema criminale di Stato sia del mondo delle vittime, molto presenti all’interno delle pagine del suo libro. Si concentra invece sull’ideologia antiebraica il volume di Steven Beller dedicato a L’antisemitismo (il Mulino, pp. 150, euro 13,50). Lo studioso, già Fellow del Peterhouse College di Cambridge e culturalmente attivo nel mondo anglosassone, si cimenta nel lavoro di definire e circoscrivere la cogenza interpretativa, e la funzionalità analitica, delle riflessioni sull’antisemitismo in età contemporanea.
CIÒ FACENDO, davanti alla messe gigantesca di studi così come ai diversi indirizzi interpretativi, Beller cerca di trovare una linea di equilibrio che storicizzi il pregiudizio antisemitico. Il problema, per qualsiasi studioso, al giorno d’oggi, non è infatti il difetto ma, piuttosto, l’eccesso di stimoli euristici. Non di meno, una questione di fondo è se l’esito sterminazionista sia stato in qualche modo già configurato, o comunque implicato, dalle forme precedenti di avversione antigiudaica oppure costituisca una frattura a sé, in quanto tale propria del Novecento.
Le riflessioni dell’autore non offrono risposte conclusive, assestandosi semmai sul versante della rassegna dei diversi contributi. Al riguardo la silloge delle sue riflessioni si raccoglie nell’affermazione per cui: «l’antisemitismo non è più un fenomeno isolato ma piuttosto è sostanzialmente una forma estrema di pensiero esclusivista moderno, con una logica condivisa da fondamentalismi e nazionalismi ».
Per integrare queste e altre considerazioni è anche utile un non meno recente volume del sociologo francese Pierre-André Taguieff, anch’esso intitolato L’antisemitismo (Raffaello Cortina, pp. 139, euro 13). Infine, Luca Peloso, studioso di filosofia, con L’esperienza dell’estremo. Vita e pensiero nei campi di concentramento (ombre corte, pp. 172, euro 15), lavorando sulla comparazione tra Lager nazisti e Gulag staliniani cerca di coinvolgere la riflessione filosofica nell’indagine storica e sociologica.
PIÙ CHE UN INTENTO storiografico l’autore in questo caso cerca di soddisfare alcune esigenze che hanno ad oggetto la narrabilità della prigionia in quelle condizioni estreme, soprattutto se dalla sua memoria derivano esigenze sia di comunicazione pubblica che di pedagogia civile.
La sfida, che rimanda direttamente all’oggi, e quindi ai sistemi analogici che adottiamo nell’interpretare quei passati non meno che alle categorie di razionalizzazione alle quali facciamo ricorso per ricondurre a senso ciò che altrimenti rischia di rimanere un’infinita insensatezza, invita alla rilettura dell’esperienza concentrazionaria attraverso diverse angolazioni disciplinari. Dalle quali, ancora una volta, ne deriva per il lettore il senso della incompiutezza, trattandosi di una storia che letteralmente precipita nel vuoto.
[Claudio Vercelli 25/03/2017]
NEL MEDESIMO TEMPO delimita il campo della protezione da quello del rifiuto, l’habitat di ciò che va tutelato dal contesto di quanto deve essere annientato.
Il filo spinato non vale solo per quanti sono trattenuti dentro gli spazi da esso rigidamente contrassegnati ma anche e soprattutto per coloro che lo osservano da fuori, celebrandone in tale modo la sua invalicabilità. Non è quindi un caso se esso compaia, sinistramente, in tre catastrofi della contemporaneità, quasi a volerne definire i lineamenti di fondo: i processi di colonizzazione dello spazio americano, a partire dal superamento della frontiera orientale; la parossistica recinzione dell’interminabile teoria di trincee, disegnata sui campi di battaglia immobili della Prima guerra mondiale; la tragica linea di delimitazione dei campi di concentramento e di sterminio nazisti. La questione alla quale il filo spinato rimanda da subito è la rottura della linea di continuità, nel diritto alla vita, tra ciò che è considerato umano e quanto, invece, viene ridotto a mero oggetto animato. Olivier Razac ci restituisce quindi il nesso tra controllo dello spazio attraverso la sua interruzione e il legame tra discontinuità e reificazione dell’umanità.
Un percorso parallelo è quello svolto da Götz Aly in Zavorre. Storia dell’Aktion T4: l’«eutanasia» nella Germania nazista, 1939-1945 (Einaudi, Torino 2017, pp. 261, euro 30), laddove la «selezione» delle vite «non degne di essere vissute» è ricostruita dall’autore, docente al Fritz Bauer Institut dell’Università di Francoforte, come percorso di ingegneria sociale e, nel medesimo tempo, manifestazione di rimozione della responsabilità all’atto stesso della sua esecuzione.
L’ASSASSINIO SISTEMATICO di duecentomila cittadini tedeschi, considerati un peso per lo Stato tedesco, perlopiù in ragione della loro condizione psichica, ritenuta irrecuperabile, fu parte integrante del percorso di disintegrazione della varietà umana che stava al nocciolo del progetto nazista. Aly ne ricostruisce i diversi passaggi: l’impostazione politica del «problema» del trattamento degli «incurabili», la dimensione burocratica dell’azione, l’intervento sistematico degli ordini professionali e della sanità pubblica, l’opera di comunicazione con le famiglie, la feroce e infelice dialettica tra abbandono, indifferenza, rimozione ma anche il fatalismo e il pudore che connotarono una parte dei congiunti, le famiglie, in generale il pubblico tedesco. Tra il 1939 e il 1945 una macchina di distruzione collettiva operò attivamente in tal senso, colpendo non solo le vittime ma adoperandosi in un complesso processo di desensibilizzazione e anestetizzazione collettiva.
A VOLERE RIBADIRE un principio fondamentale nella fascistizzazione delle società, dove la repressione e poi l’annientamento delle minoranze, ricondotte in questo caso alla condizione di minorati irrecuperabili, viene pensata e organizzata come strumento riordinativo della maggioranza, quella composta dai «sani». Questi ultimi non sono tali solo perché esenti da degenerazioni ereditarie o da patologie ritenute incurabili, esclusivo onere economico per la collettività, ma per la loro totale adesione ad un corpo collettivo, quello della nazione intesa come comunità di stirpe. Il dispositivo ideologico che sovraintendeva all’Azione T4 era solo uno degli anelli terminali di un ampio processo di radicalizzazione dell’azione biopolitica, portata ai suoi estremi risultati. E ne costituiva quindi la vera essenza.
All’autore non interessa la denuncia morale in sé ma la ricostruzione dei meccanismi che facevano parte di una macchina sterminazionista nel quale l’omicidio di massa veniva presentato dalle autorità pubbliche in quanto atto di «misericordia», coniugato alla necessaria «selezione» dei caratteri positivi della collettività. In altre parole, la morte dell’impuro, e del degenerato, come garanzia di vita dei «migliori».
Aly ci restituisce uno spaccato sia del sistema criminale di Stato sia del mondo delle vittime, molto presenti all’interno delle pagine del suo libro. Si concentra invece sull’ideologia antiebraica il volume di Steven Beller dedicato a L’antisemitismo (il Mulino, pp. 150, euro 13,50). Lo studioso, già Fellow del Peterhouse College di Cambridge e culturalmente attivo nel mondo anglosassone, si cimenta nel lavoro di definire e circoscrivere la cogenza interpretativa, e la funzionalità analitica, delle riflessioni sull’antisemitismo in età contemporanea.
CIÒ FACENDO, davanti alla messe gigantesca di studi così come ai diversi indirizzi interpretativi, Beller cerca di trovare una linea di equilibrio che storicizzi il pregiudizio antisemitico. Il problema, per qualsiasi studioso, al giorno d’oggi, non è infatti il difetto ma, piuttosto, l’eccesso di stimoli euristici. Non di meno, una questione di fondo è se l’esito sterminazionista sia stato in qualche modo già configurato, o comunque implicato, dalle forme precedenti di avversione antigiudaica oppure costituisca una frattura a sé, in quanto tale propria del Novecento.
Le riflessioni dell’autore non offrono risposte conclusive, assestandosi semmai sul versante della rassegna dei diversi contributi. Al riguardo la silloge delle sue riflessioni si raccoglie nell’affermazione per cui: «l’antisemitismo non è più un fenomeno isolato ma piuttosto è sostanzialmente una forma estrema di pensiero esclusivista moderno, con una logica condivisa da fondamentalismi e nazionalismi ».
Per integrare queste e altre considerazioni è anche utile un non meno recente volume del sociologo francese Pierre-André Taguieff, anch’esso intitolato L’antisemitismo (Raffaello Cortina, pp. 139, euro 13). Infine, Luca Peloso, studioso di filosofia, con L’esperienza dell’estremo. Vita e pensiero nei campi di concentramento (ombre corte, pp. 172, euro 15), lavorando sulla comparazione tra Lager nazisti e Gulag staliniani cerca di coinvolgere la riflessione filosofica nell’indagine storica e sociologica.
PIÙ CHE UN INTENTO storiografico l’autore in questo caso cerca di soddisfare alcune esigenze che hanno ad oggetto la narrabilità della prigionia in quelle condizioni estreme, soprattutto se dalla sua memoria derivano esigenze sia di comunicazione pubblica che di pedagogia civile.
La sfida, che rimanda direttamente all’oggi, e quindi ai sistemi analogici che adottiamo nell’interpretare quei passati non meno che alle categorie di razionalizzazione alle quali facciamo ricorso per ricondurre a senso ciò che altrimenti rischia di rimanere un’infinita insensatezza, invita alla rilettura dell’esperienza concentrazionaria attraverso diverse angolazioni disciplinari. Dalle quali, ancora una volta, ne deriva per il lettore il senso della incompiutezza, trattandosi di una storia che letteralmente precipita nel vuoto.
[Claudio Vercelli 25/03/2017]
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