Enzo Scandurra, aveva già dato prova
del suo talento narrativo con un libro su Roma, Vite periferiche
(2012). Un testo che combinava originalmente descrizioni e riflessioni
su quartieri e spaccati urbani della capitale con frammenti intensi e
sorprendenti di racconti vita. Ora ritorna più decisamente sul versante
letterario con una sorta di diario pubblico, che mescola sapientemente
autobiografia con la storia della sua generazione, rivissuta attraverso
alcuni flashback particolarmente significativi.
FUORI SQUADRA
(Castelvecchi, pp. 118, euro 17,50), il titolo del nuovo lavoro, è anche
la chiave di tutta la storia, una espressione che rinvia alla
condizione di disadattamento e di spiazzamento vissuta dal protagonista
per tutta una vita. L’immagine, spiega l’autore, ha origine dal compito
di disegno nella facoltà di Ingegneria che imponeva agli allievi di
squadrare il foglio prima di elaborarvi all’interno il disegno proposto
dal docente. Ma l’espressione «il tempo è fuori squadra» è sulla bocca
di Amleto, allorché scopre l’uccisione del padre ad opera dello zio. Il
tempo fuori squadra è il corso naturale delle cose uscito dai cardini,
precipitato in un disordine imprevisto.
«ESPRESSIONE quella di
Amleto – scrive Scandurra – adeguata allo stato d’animo che provavo
quasi quotidianamente di fronte al processo di imbarbarimento del
presente: che tutto il mondo procedesse in un vortice di autodistruzione
senza che nessuna autorevole voce gridasse alla vergogna, allo scandalo
planetario». In questo «diario», tuttavia, il fuori squadra è
innanzitutto una condizione psicologica del protagonista, una costante
esistenziale che costituisce la traccia profonda di confessione e di
verità messa sotto gli occhi del lettore. È la sensazione persistente di
disagio, un sentirsi fuori posto, che ha origini nell’infanzia, vissuta
in un quartiere periferico di Roma e che continua nell’adolescenza e
nella prima giovinezza, quando i rapporti con gli amici si sentono
sbagliati, estranei alla propria sensibilità e vocazione. Un fuori posto
che ha un avvio istituzionale, destinato a influenzare la futura vita
professionale e dunque tutta la vita: l’iscrizione all’Istituto tecnico
industriale. Per un adolescente che amava le letture solitarie di
Proust, Kafka, Dostoevskij instradarsi a quel tipo di studi per volontà
paterna era qualcosa di più che fare uscire di squadra il proprio tempo.
UNA CONDIZIONE di
estraneità e disadattamento continuata anche con l’iscrizione e la
frequenza a Ingegneria, che, pur affrontata con successo e coronata
infine con la docenza, era vissuta come una impresa estranea al fondo
più genuino del proprio sentire e della propria vocazione. È con gli
ultimi decenni che il fuori squadra privato si fonde con quello
pubblico, con un sentirsi fuori posto rispetto alla comune storia del
mondo che abbiamo sotto gli occhi.
Il libro non è un racconto lineare, c’è un andirivieni temporale che tuttavia non impedisce al lettore di seguire una storia coerente. Anche perché esso si compone, quasi cinematograficamente, per quadri. Sono rievocazioni molto vivide di persone, luoghi, eventi: la conoscenza fortuita di Pasolini nel suo quartiere e poi a Fiumicino, il processo a Braibanti, momenti del ’68 e il volantinaggio davanti alle fabbriche, gli amori della giovinezza, un ritratto per drammatico di Carla Ravaioli, i funerali di Ingrao. Tutti fatti, persone, vicende che Scandurra – con la naturalezza dell’urbanista insopprimibile che è in lui – riesce sempre a raccontare negli scorci sontuosi o degradati (palazzi, vie, piazze) di quella scena senza uguali che è la città di Roma.
Il libro non è un racconto lineare, c’è un andirivieni temporale che tuttavia non impedisce al lettore di seguire una storia coerente. Anche perché esso si compone, quasi cinematograficamente, per quadri. Sono rievocazioni molto vivide di persone, luoghi, eventi: la conoscenza fortuita di Pasolini nel suo quartiere e poi a Fiumicino, il processo a Braibanti, momenti del ’68 e il volantinaggio davanti alle fabbriche, gli amori della giovinezza, un ritratto per drammatico di Carla Ravaioli, i funerali di Ingrao. Tutti fatti, persone, vicende che Scandurra – con la naturalezza dell’urbanista insopprimibile che è in lui – riesce sempre a raccontare negli scorci sontuosi o degradati (palazzi, vie, piazze) di quella scena senza uguali che è la città di Roma.
QUESTI QUADRI non
costituiscono, tuttavia, un mosaico in disordine. Non solo perché sono
tenuti insieme dal «fuori squadra», da questo sentimento costante di
inadeguatezza che dà il colore a buona parte delle esperienze
raccontate. C’è un altro filo rosso che tiene insieme le vicende
disparate della biografia: è l’ombra della malattia, l’onnipresenza del
cancro.
È con questo evento che ha inizio l’autobiografia di Scandurra, raccontata con doloroso coraggio nella sua portata di mutilazioni e di sofferenze, negli stati d’animo della paura e dell’angoscia. In queste, pagine scritte come in una estraniata confessione, c’è in fondo la ragione di tutto il libro. La minaccia della morte costringe a guardarsi indietro e intorno, a fare bilanci, a valutare il senso di un percorso personale dentro la grande storia che abbiamo attraversato.
È con questo evento che ha inizio l’autobiografia di Scandurra, raccontata con doloroso coraggio nella sua portata di mutilazioni e di sofferenze, negli stati d’animo della paura e dell’angoscia. In queste, pagine scritte come in una estraniata confessione, c’è in fondo la ragione di tutto il libro. La minaccia della morte costringe a guardarsi indietro e intorno, a fare bilanci, a valutare il senso di un percorso personale dentro la grande storia che abbiamo attraversato.
E in questo bilancio non c’è nessun
autocompiacimento introspettivo e nessuna autoassoluzione, c’è il
racconto di un continuo sforzo di entrare nel quadro, di mettersi in
sintoia con gli altri e con il proprio tempo.
Perciò, malgrado l’incombere costante della malattia, a emergere nel libro è in fondo la strenua volontà di farla rientrare negli accidenti temporanei di un percorso, all’interno di una tensione più generale, che è la mai dismessa lotta per dare il proprio contributo solidale, un qualche frammento di senso alla propria e alla nostra comune storia.
Perciò, malgrado l’incombere costante della malattia, a emergere nel libro è in fondo la strenua volontà di farla rientrare negli accidenti temporanei di un percorso, all’interno di una tensione più generale, che è la mai dismessa lotta per dare il proprio contributo solidale, un qualche frammento di senso alla propria e alla nostra comune storia.
[Piero Bevilacqua 7/02/2017]
Nessun commento:
Posta un commento