Georgi Gospodinov
CRONORIFUGIO
Una delle prime cose che ci siamo chiesti quasi tutti leggendo le prime pagine è se Gospodinov sta descrivendo una realtà storica, il realismo letterario, l’invenzione pura, addirittura il fantasy o un miscuglio di tutto questo. Se lo chiede anche il suo personaggio, a volte, ma l’autore (lo scrittore Gospodinov o, più probabilmente l’autore implicito) ci da subito le istruzioni per l’uso in epigrafe: In questo romanzo tutti i veri personaggi sono inventati, solo quelli inventati sono veri. Quindi, non preoccupiamoci troppo di scegliere un’etichetta: la risposta è che questo non è un romanzo realistico tradizionale, anche se contiene elementi di realtà storica, è più quello che definirei un romanzo di idee.
Il narratore passa dalla cosa ricordata a quella puramente immaginaria senza soluzione di continuità: non è importante cosa è storia e cosa è fiction.
Non è importante che il narratore si chiami come l’autore, che sia bulgaro come lui e abbia la stessa età.
Certo il signor Gospodinov nella vita reale non ha mai votato in un referendum per tornare al passato: quella è una cosa cha ha fatto solo una grossa percentuale di inglesi creduloni (per essere gentili) con la Brexit.
La Brexit appunto, è una fonte di ispirazione di questo libro. Infatti c’è un sacco di politica nel romanzo, a partire dalla nascita del capitalismo e dell’imperialismo moderno, visti come l’inizio della perdita di umanità:
DeFoe vs Donne (p.136). Daniel DeFoe costruisce il suo personaggio come l’eroe borghese che si è fatto da sè, il mercante, l’esploratore, il colonizzatore che diventa ricco con le piantagioni coltivate dagli schiavi. Robinson è lui stesso coinvolto nella tratta degli schiavi e quando naufraga sull’isola deserta usa tutti i suoi talenti per ricostruire il suo piccolo impero e riesce perfino a procurarsi uno schiavo. La Meditazione XVII di John Donne che parla di umanità e solidarietà, non ha speranze di vittoria contro la pratica modernità dei soldi.
Poi ci sono le guerre del ‘900, M.L. King e altro sparso qua e là, ma soprattutto, mentre vai avanti con il libro senti che si avvicina la realtà contemporanea, con il risveglio di nazionalismi e populismi vari: la Brexit, appunto, la Russia che somiglia sempre di più all’URSS (finanziamenti, p. 182; hacker, p. 218 - e il libro è stato scritto prima dell’invasione dell’Ucraina...).
Ci sono altri eventi politici, veri o inventati, ma sono sempre raccontati attraverso la lente del grottesco.
Infatti, quello che ti fa arrivare vivo in fondo al romanzo è che c’è un sacco di umorismo, anche se nero. Un sacco di dark humour, come lo spettacolo del mausoleo (pp.184-5) o a p. 212 la descrizione delle sinistre moderne (PD?).
A parte la politica in senso stretto, io ho riso moltissimo, sicuramente in modo puerile (colpa dei ricordi di liceo...): ho riso moltissimo a p. 174 con Kant e la legge morale che “si rotola per strada da qualche parte”. Naturalmente, devo ammettere che ripensandoci, si tratta di una immagine agghiacciante, e mi passa la voglia di ridere abbastanza in fretta (come per i disastri della sinistra di cui sopra).
Anche nella rappresentazione del privato, per quanto spesso sia tristissimo, lo humour non manca (per esempio, p.211: supereroi e limonata)
STRUTTURA
Il libro ha una forma circolare: si comincia con la perdita di memoria individuale, che poi diventa generale, pubblica, per tornare alla fine alla disgregazione mentale del narratore stesso.
Il libro racconta, quindi, la doppia tragedia della perdita di memoria personale e universale, la demenza del singolo e quella globale (pp.99-100).
Come si affronta il problema, secondo il narratore, se si può affrontare? L’individuo sopravvive solo nella memoria, la propria e quella degli altri; ma la memoria dura solo fino a quando ne hai il controllo; inoltre, memoria e nostalgia si mescolano e si confondono: nella vecchiaia, e poi nella demenza, la nostalgia più che ricordo è rimpianto (quello che si potrebbe aver fatto, ma ...invece no).
“Dove va a finire poi tutto questo passato individuale?” (p.61)
A volte dimenticare sembra buffo (p.282: My name escapes me è anche il titolo dell’autobiografia dell’attore Alec Guinness, uno dei libri più divertenti che abbia mai letto).
Ma a volte dimenticare è volontario e necessario (la signora sopravvissuta al lager che ha paura della doccia / Primo Levi citato più volte: lui ricorda e racconta, ma non lo sopporta per sempre).
La morte non è il mostro, la vecchiaia lo è (p.64); “una lotta epica senza epos”. Alla fine del capitoletto, però, io vedo un filo di speranza nel riferimento a Munch, che di solito di speranza ne comunica poca: se guardi bene il quadro, la memoria è tutta intorno, è un quadro di quadri. C’è molto da riflettere su questo, andando noi stessi incontro alla tarda età e vedendo attorno a noi in questo momento persone che conoscevamo bene e che adesso si stanno sbriciolando, letteralmente.
Il finale è tristissimo e senza speranza (p.309): “Domani era il 1° settembre” (1939) e risponde alla domanda di p. 135, la citazione da Auden: We must love one another or die, Dobbiamo amarci l’un l’altro o morire. Anche qui si chiude un cerchio, con il ritorno alla Seconda Guerra Mondiale.
In realtà, la struttura stessa del libro fornisce una chiave per la salvezza, almeno personale, almeno per noi lettori. Il cronorifugio per eccellenza è la biblioteca (dal lato opposto, la decadenza mentale del narratore viene concretizzata nell’impossibilità di leggere e visualizzata nelle lettere che sfuggono dalle pagine e cadono a terra).
Allora, questo romanzo è un romanzo-biblioteca, è un intreccio continuo di citazioni e riferimenti ad altri libri, sia espliciti che impliciti. Abbiamo visto DeFoe e John Donne, Primo Levi e Kant. C’è il vecchio insegnante del narratore, Kafka (quanto kafkiana è la situazione descritta???)
Poi ci sono gli autori in esergo: Thomas Mann, Philip Larkin, T.S. Eliot (La montagna magica, Days, The Boston Evening Transcript). E poi ancora Eliot a p. 52, memory and desire, dalla Waste Land.
E ancora W.H. Auden, più volte da 1° settembre 1939 in modo esplicito, ma anche con echi di Funeral Blues (p.296); la citazione di Mallarmé a p. 297: “Tutto, prima o poi, si trasforma in libri”. C’è anche la mitologia greca, Cronos che mangia i suoi figli (p. 296: “Noi siamo il cibo del tempo”). Poi la musica di Messiaen suonata nel campo di concentramento (p.298), con il riferimento al canto degli uccelli, che ti porta direttamente dentro a Mattatoio n. 5 di Vonnegut: “Gli uccelli cantavano anche durante la guerra. In questo sta tutto l’orrore...e il conforto”. Chissà quanti altri riferimenti ci sono nel romanzo: questi sono solo quelli che ho sentito risuonare dentro di me, ma sono abbastanza per dire che allora la chiave è questa: la chiave è un altro libro, un poema fatto di citazioni e rimandi, un poema che descrive i disastri della Prima Guerra Mondiale. E’, dunque, la già citata Terra Desolata di Eliot, non da The Burial of the Dead, La Sepoltura dei Morti che apre il poema, ma dal finale di What the Thunder Said, Ciò che disse il tuono:
These fragments I have shored against my ruins
I frammenti sono di testi letterari e filosofici, citazioni sparse per tutto il poema, frammenti della tradizione, della cultura, frammenti di umanità.
Con questi frammenti ho puntellato la mia rovina
Allora, teniamoci stretti i libri e speriamo in qualche sprazzo di umana intelligenza, perché mi sembra di essere tanto vicino alla conclusione del romanzo :
”Ripetiamo questa guerra perché non si ripeta mai più, dirà qualcuno per radio e questa assurda tautologia sbloccherà tutto”.
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