Avrebbe compiuto 80 anni Paolo Gioli, ma già da qualche
tempo aveva smesso di lavorare e di sperimentare, reduce da un male che
lo aveva colpito qualche anno fa. Isolato con sua moglie Carla e con i
suoi numerosi gatti, a pochi metri dal fiume Adige in provincia di
Rovigo, questo artista cineasta ha sempre condotto una vita ritirata.
Lontano dal mondo e dal sistema dell’arte che, da parte sua, lo ha
ignorato per decenni, salvo riscoprirlo tardivamente in una Biennale
veneziana di qualche anno fa.
Del resto, Gioli era una figura piuttosto inclassificabile: pittore
prima, cineasta e fotografo a partire dalla fine degli anni ’60: Commutazioni con mutazione e Tracce di tracce sono i suoi primi esperimenti filmici, mentre gli ultimi, Quando i corpi si toccano o Natura obscura
risalgono a pochi anni fa. In totale, i suoi film sono poco meno di
quaranta, tutti in 16mm (a parte un paio di video) poiché è rimasto,
fino alla fine, un artista profondamente analogico.
MA FOTOGRAFO E CINEASTA Gioli non lo è mai stato nel
senso classico del termine, poiché ha sempre innovato i dispositivi,
inventandosi modi inediti di realizzare polaroid, ricorrendo a
procedimenti che rendevano le sue immagini, in molti casi, fortemente
pittoriche: dal foro stenopeico al fotofinish, dalla stampa a contatto
ai trasferimenti da un supporto all’altro. E per fare questo non si
stancava di creare macchine duchampianamente «celibi», che esercitavano
un loro fascino anche come oggetti: lo schermo multiplo con pannelli
lignei scorrevoli su cui proiettava le immagini, le cinecamere
stenopeiche, gli otturatori manuali per scattare fotografie e girare
film assolutamente personali. Ma che contengono riferimenti al passato e
ai suoi pionieri: Marey, Muybridge, Cameron, Eakins, Nièpce, Talbot e
Bayard vengono citati e ripensati all’interno delle sue polaroid e dei
suoi film, per il loro incessante lavorio di trasformazione
dell’immagine e del movimento insito in esso.
Gioli è stato spesso protagonista più all’estero che in Italia. Per
diverso tempo unico artista italiano ad avere i propri film in pellicola
nella collezione del Pompidou (dove gli è stata dedicata una mostra nel
1983), mentre negli Stati Uniti il suo cinema è stato spesso proiettato
in festival e rassegne e, qualche anno fa, l’università di Harvard gli
ha tributato un importante omaggio. Ma anche per quanto riguarda le
pubblicazioni: un importante volume, Impressions sauvages, costellato di testi critici di studiosi internazionali, è uscito un paio di anni fa in Francia, pubblicato da La Sorbone.
Non sarebbe tuttavia neppure giusto attribuire a Gioli l’antico adagio
nemo profeta in patria. Negli ultimi tempi si sono susseguite in Italia
mostre a lui dedicate, iniziative editoriali (tra cui la pubblicazione
in un triplice dvd della sua opera filmica integrale). E altre ne
sarebbero seguite, grazie soprattutto all’impegno di quello che in molti
considerano il suo alter-ego, ovvero Paolo Vampa, l’amico e il
finanziatore-collezionista di quasi tutta la sua opera, la metà
«imprenditoriale» di un artista che si è sempre dedicato alla creazione,
lasciando all’amico il compito di occuparsi della diffusione e della
valorizzazione della sua arte. Vampa, in questo momento, è il primo a
piangerne la scomparsa, dopo aver attraversato con lui oltre mezzo
secolo di vita e carriera.
SINTETIZZARE L’ESTETICA di un artista come Paolo
Gioli risulta difficile, per la complessità e la ricchezza del suo
immaginario, anche se – ed è forse una delle peculiarità che salta agli
occhi – non sempre si possono ripartire cronologicamente fasi e periodi
del suo lavoro. Anche a distanza di decenni, infatti, Gioli ritornava su
un tema, perfino su uno stesso materiale, producendo nuove opere, sia
fotografiche che filmiche. Pensiamo solo alle polaroid su corpi e volti,
a serie come le Vessazioni, alle Maschere, ai torsi, ai nudi, agli omaggi a san Sebastiano.
Certo, nei primi anni ’70 ha per esempio realizzato cartelle
litografiche (Ispezione e tracciamento sul rettangolo, Immagini
disturbate da un intenso parassita) o tele serigrafate (una sessantina
circa), tecniche e supporti che ha poi abbandonato. Così come si è
dedicato nel 1985 a una serie sugli etruschi in occasione di una mostra
curata da Fagone a Volterra. Ma per il resto Gioli tendeva a non
chiudere mai dei «cicli», ossessionato da motivi iconografici che lo
hanno indotto a continue variazioni sul tema. Questo anche in quel
territorio ibrido in cui cinema e fotografia si incontrano. È il caso
degli scatti e delle riprese di un fotocineamatore trovate da un
rigattiere nei primi anni ’70 che all’epoca originarono Anonimatografo,
un lavoro di found-footage su cui poi ha ri-lavorato anni fa, creando
nuove opere come I volti dell’anonimo e un’altra serie ancora.
Tutto il cinema di Gioli è all’insegna dell’instabilità pellicolare,
dalle visioni stenopeiche a quelle ottenute attraverso fessure (i lavori
basati sul principio del fotofinish). L’immagine, colta nella sua
continua metamorfosi, è pulsante, sfarfalleggiante, stroboscopica,
dissolta e dissolvente, sdoppiata (il ricorso frequente all’immagine
speculare come in Hilarisdoppio e Traumatografo),
indecisa tra positivo e negativo, reale e virtuale, tendente alla
frammentazione, all’incorniciamento alla ripartizione in finestre,
riquadri, ma anche votata al conflitto con altre textures mediali.
Quando l’occhio trema del 1991, sembra essere quasi un film-manifesto in
questo senso: l’occhio – uno dei simboli ricorrenti dell’avanguardia
storica, da Redon a Dalì – è il dispositivo ottico che informa l’intero
cortometraggio, richiamando, attraverso il modulo del cerchio, altri
elementi circolari, altre immagini fagocitate da questo organo
intermittente e tremolante che sembra essere la continuazione di Un Chien andalou: l’occhio tagliato da Buñuel viene ricucito da Gioli.
LA FERITA DELLO SGUARDO viene sanata, ma è solo un
gioco, in realtà la frattura resta. È la frattura del cinema
sperimentale stesso, un cinema che deve lacerare lo sguardo dello
spettatore per consentirgli paradossalmente di vedere meglio, di vedere
oltre. Gioli è riuscito, da vero poeta visuale, a ricondurre la
complessità dello sguardo, il meccanismo illusorio della percezione
nell’alveo del «naturale», non semplificandolo, anzi, semmai svelandone
tutte le sfaccettature. Filmare così come fotografare è stato per lui
come respirare. Respiro, battito, scansione, emulsione: attività
corporea e creazione fotocinematografica si sviluppano di pari passo.
In questo senso Gioli non può separare la sua attività di artista da
quella di scienziato, conoscitore del mondo e delle cose che lo
circondano, attento osservatore e ricreatore di fenomeni. La figura
umana, nel senso rinascimentale del termine, oltre a essere, comunque,
al centro di ogni sua immagine rappresenta la misura di tutte le cose,
trait d’union tra figurazione e astrazione e soprattutto tra terra e
cosmo.
Qualche mese fa Gioli, con la sua solita irriverenza ed ironia, aveva
dettato al suo amico Michele Sambin (artista anche lui) il suo
epitaffio: «Paolo Gioli è morto, che spreco!».
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