Una pecorella smarrita e un lupo emarginato, un cacciatore e un
pastore innamorati in una casa nel bosco: si alternano saltando e
rompendo gli schemi classici a cui pure si ispirano le provocatorie e
delicate storie di Ugo Cornia. Le Favole da riformatorio
(Feltrinelli, pp. 118, euro 13) dello scrittore modenese prendono
spunto, nell’ispirazione, dalla favola classica sviluppandosi in uno
scenario stralunato e tutto padano in cui la disoccupazione colpisce la
strega cattiva e al contadino in pensione non resta che immaginare un
giardino con animali di gesso, ma veri e messi in posa dopo un lungo
apprendistato, compreso un incorreggibile e sempre affamato lupo.
CORNIA utilizza così la favola per stigmatizzare il nostro tempo, quasi dei racconti morali acidi, capaci di far riflettere con la semplice qualità di una letteratura tutt’altro che improvvisata. Cornia è sì comico ma nel novero dei grandi novellieri italiani; ci si diverte a leggere il libro, ritrovandosi immersi in una lettura sapiente nel senso più ampio, capace di consegnare orizzonte e sguardo – alla parola come al discorso. In un’epoca vergata da un eccesso autoreferenziale e patetico del sé, nell’esagerazione favolistica l’autore riferisce la misura delle cose, svelando la piccineria dell’umano e la sua banalità esistenziale fatta tutta vuoti conformismi, di professioni, di ruoli, di autorevolezze presunte e piccoli poteri da sottoscala.
Non ha bisogno di fustigare o condannare, a Cornia basta il
disincanto di una letteratura che prende avvio dalla tradizione italiana
e diventa narrazione: quella che fa della scrittura un racconto
stupefatto delle cose. Un racconto collettivo in cui il comico è il
collante di disgrazie e ridicole avventure, ma anche di sconforti e
tradimenti. Favole da riformatorio sotto l’aspetto classico da «storia
semplice» restituisce un’idea di società ben precisa, un luogo inclusivo
e delicato in cui le condanne anche le più tremende hanno una qualche
sfumatura dolce. La morale sta tutta nella libertà di vedere e di
permettersi di osservare, Cornia getta uno sguardo audace e divertito
sulle colpe e inadeguatezze dei suoi sventurati protagonisti non
dimenticando mai però che proprio perché sono colpe e inadeguatezze
restano prive di reale peso, cose assolutamente di poca importanza.
LA CRITICA SOCIALE delle favole non diventa così mai feroce, si limita all’evidenza di ciò che è, strappa un sorriso – a volte agrodolce oppure tenero – perché nonostante i grandi discorsi quotidiani che vedono ogni volta l’umano al centro che sia per la salvezza come per la distruzione del mondo, in tutto appare la nostra piccolezza. È infatti ben evidente che rispetto all’enormità delle cose ogni nostro possibile indaffarato agire non ha altro – nella migliore delle ipotesi – che la forma di un buffo inciampo. Corrodendo piano piano l’apparenza, come nell’ultima favola, in cui i personaggi fanno i conti con una improbabile storia noir; Cornia riporta il lettore a casa, davanti alle sue invincibili paure, ma anche di fronte alla tenerezza fatta di affetti e relazioni necessarie che quel limite porta con sé.
CORNIA utilizza così la favola per stigmatizzare il nostro tempo, quasi dei racconti morali acidi, capaci di far riflettere con la semplice qualità di una letteratura tutt’altro che improvvisata. Cornia è sì comico ma nel novero dei grandi novellieri italiani; ci si diverte a leggere il libro, ritrovandosi immersi in una lettura sapiente nel senso più ampio, capace di consegnare orizzonte e sguardo – alla parola come al discorso. In un’epoca vergata da un eccesso autoreferenziale e patetico del sé, nell’esagerazione favolistica l’autore riferisce la misura delle cose, svelando la piccineria dell’umano e la sua banalità esistenziale fatta tutta vuoti conformismi, di professioni, di ruoli, di autorevolezze presunte e piccoli poteri da sottoscala.
LA CRITICA SOCIALE delle favole non diventa così mai feroce, si limita all’evidenza di ciò che è, strappa un sorriso – a volte agrodolce oppure tenero – perché nonostante i grandi discorsi quotidiani che vedono ogni volta l’umano al centro che sia per la salvezza come per la distruzione del mondo, in tutto appare la nostra piccolezza. È infatti ben evidente che rispetto all’enormità delle cose ogni nostro possibile indaffarato agire non ha altro – nella migliore delle ipotesi – che la forma di un buffo inciampo. Corrodendo piano piano l’apparenza, come nell’ultima favola, in cui i personaggi fanno i conti con una improbabile storia noir; Cornia riporta il lettore a casa, davanti alle sue invincibili paure, ma anche di fronte alla tenerezza fatta di affetti e relazioni necessarie che quel limite porta con sé.
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