A differenza di molti paesi europei – scriveva Toni Morrison,
quando forse era ancora lecita questa illusione – gli Stati uniti
considerano la bianchezza una forza unificante. Qui, per molti, la
definizione di ‘americanità’, è il colore».
ERA NOVEMBRE DEL 2016 e l’elezione di Donald Trump aveva traumatizzato profondamente l’America pensante. In un saggio per il New Yorker, Morrison, prima e ancora unica donna afroamericana insignita del premio Nobel, stilava parole intrise di disgusto e sarcasmo. «Per riportare la bianchezza al precedente lustro come marcatore di identità, molti americani bianchi stanno facendo sacrifici personali», affermava. I «sacrifici» comprendevano l’abbandono della dignità e la vigliaccheria, fino all’incendio di chiese e gli attentati ai fedeli. Le parole, riferite alla strage perpetrata qualche mese prima da Dylann Roof alla Emanuel Ame church di Charleston, sono ancora più pesanti lette due anni – e una mezza dozzina di attentati suprematisti – dopo.
IL CATTIVO PRESAGIO di Morrison era – ed è – condiviso da molti afroamericani e intellettuali che leggono gli Stati Uniti trumpisti come un’ineluttabile restaurazione di antichi mefitici equilibri – il tentativo di ripristinare il segregazionismo da cui per secoli il popolo afroamericano ha tentato di emanciparsi.
Tanto più doloroso era per lei, inarrivabile poetessa dei fantasmi che dalle paludi e dalle piantagioni sudiste tormentano ancora la psiche e gli incubi della nazione. Come ha detto ieri Joyce Carol Oates, «spezza semplicemente il cuore che non abbia potuto sopravvivere all’oscurantismo del razzista» nella Casa bianca.
PER MORRISON e altri luminari letterari che hanno articolato lo sguardo afroamericano sul destino tortuoso del proprio popolo, il presente equivale a una tragedia nazionale e, al contempo, il prosieguo naturale di una epopea tragica. Come ha scritto Ta-Nehisi Coates, la stagione che dopo mezzo secolo di progressi sui diritti civili si ritorce su se stessa in un’implosione di razzismo e suprematismo istituzionale riproduce la reazione seguita alla breve emancipazione degli schiavi, attinge a un torbido rigurgito. E allo stesso humus in cui Morrison radicava le sue storie oniriche e animiste di fatali destini.
Toni Morrison aveva coniato per Bill Clinton la definizione di first black president, «il primo presidente nero» in virtù di un’affinità «culturale» di sudista figlio di madre single cresciuto in povertà nell’Arkansas. È giunta a contemplare nell’autunno della vita, il «first white president» (citazione sempre di Coates): il primo presidente eletto specificamente per ristabilire gli equilibri dopo «l’ingiuria» di Obama.
PRIMA, L’ACCELERAZIONE storica di questi ultimi anni l’aveva portata ad assistere all’insediamento proprio di Barack Obama. Aveva dichiarato allora di essersi per la prima volta sentita «americana» e «potentemente patriottica…come una bambina». Da lui avrebbe anche avuto la medal of freedom (assieme a Bob Dylan e Cesar Chavez), onorificenza dovuta di una nazione che fatica tutt’ora a riconoscere i contributi delle «minoranze». «Alcuni (dei premiati) forse non conosceranno mai del tutto la propria influenza o il contributo che hanno dato – aveva detto allora il presidente – è nostro dovere trasmettergli il senso dell’impatto che hanno avuto sulle nostre vite». E ieri Obama ha unito la propria voce al coro dei ricordi: «La sua scrittura era una meravigliosa ed eloquente sfida alla nostra coscienza e alla nostra immaginazione morale. Che dono poter respirare, almeno per un tempo, la stessa aria».
La scrittrice aveva sostenuto di voler dare alla letteratura nera la stessa complessità «del jazz o della pallacanestro». «Poet laureate» dei fantasmi schiavisti – e del peccato originale americano – non conosceva compromessi. A chi invocava l’archiviazione della dolorosa storia aveva replicato: «Quando un poliziotto sparerà alla schiena di un adolescente bianco disarmato, quando un uomo bianco verrà condannato per lo stupro di una donna nera, allora sarò d’accordo con voi».
SOPRA A TUTTO, c’era l’amore del linguaggio, un senso di meraviglia per la potenza della parola. In The Pieces I Am, il documentario a lei dedicato con la partecipazione di Angela Davis, Fran Lebowitz, Walter Mosley e Russell Banks, presentato al Sundance scorso, Morrison ricordava come il nonno si vantasse sempre con lei di aver «letto la bibbia» – negli anni in cui agli afroamericani era ancora vietato leggere – e di aver imparato da lui a concepire la parola e la letteratura come atto rivoluzionario. Un atto cui ha dedicato tutta la sua vita.
[Luca Celada 07/08/2019]
ERA NOVEMBRE DEL 2016 e l’elezione di Donald Trump aveva traumatizzato profondamente l’America pensante. In un saggio per il New Yorker, Morrison, prima e ancora unica donna afroamericana insignita del premio Nobel, stilava parole intrise di disgusto e sarcasmo. «Per riportare la bianchezza al precedente lustro come marcatore di identità, molti americani bianchi stanno facendo sacrifici personali», affermava. I «sacrifici» comprendevano l’abbandono della dignità e la vigliaccheria, fino all’incendio di chiese e gli attentati ai fedeli. Le parole, riferite alla strage perpetrata qualche mese prima da Dylann Roof alla Emanuel Ame church di Charleston, sono ancora più pesanti lette due anni – e una mezza dozzina di attentati suprematisti – dopo.
IL CATTIVO PRESAGIO di Morrison era – ed è – condiviso da molti afroamericani e intellettuali che leggono gli Stati Uniti trumpisti come un’ineluttabile restaurazione di antichi mefitici equilibri – il tentativo di ripristinare il segregazionismo da cui per secoli il popolo afroamericano ha tentato di emanciparsi.
Tanto più doloroso era per lei, inarrivabile poetessa dei fantasmi che dalle paludi e dalle piantagioni sudiste tormentano ancora la psiche e gli incubi della nazione. Come ha detto ieri Joyce Carol Oates, «spezza semplicemente il cuore che non abbia potuto sopravvivere all’oscurantismo del razzista» nella Casa bianca.
PER MORRISON e altri luminari letterari che hanno articolato lo sguardo afroamericano sul destino tortuoso del proprio popolo, il presente equivale a una tragedia nazionale e, al contempo, il prosieguo naturale di una epopea tragica. Come ha scritto Ta-Nehisi Coates, la stagione che dopo mezzo secolo di progressi sui diritti civili si ritorce su se stessa in un’implosione di razzismo e suprematismo istituzionale riproduce la reazione seguita alla breve emancipazione degli schiavi, attinge a un torbido rigurgito. E allo stesso humus in cui Morrison radicava le sue storie oniriche e animiste di fatali destini.
Toni Morrison aveva coniato per Bill Clinton la definizione di first black president, «il primo presidente nero» in virtù di un’affinità «culturale» di sudista figlio di madre single cresciuto in povertà nell’Arkansas. È giunta a contemplare nell’autunno della vita, il «first white president» (citazione sempre di Coates): il primo presidente eletto specificamente per ristabilire gli equilibri dopo «l’ingiuria» di Obama.
PRIMA, L’ACCELERAZIONE storica di questi ultimi anni l’aveva portata ad assistere all’insediamento proprio di Barack Obama. Aveva dichiarato allora di essersi per la prima volta sentita «americana» e «potentemente patriottica…come una bambina». Da lui avrebbe anche avuto la medal of freedom (assieme a Bob Dylan e Cesar Chavez), onorificenza dovuta di una nazione che fatica tutt’ora a riconoscere i contributi delle «minoranze». «Alcuni (dei premiati) forse non conosceranno mai del tutto la propria influenza o il contributo che hanno dato – aveva detto allora il presidente – è nostro dovere trasmettergli il senso dell’impatto che hanno avuto sulle nostre vite». E ieri Obama ha unito la propria voce al coro dei ricordi: «La sua scrittura era una meravigliosa ed eloquente sfida alla nostra coscienza e alla nostra immaginazione morale. Che dono poter respirare, almeno per un tempo, la stessa aria».
La scrittrice aveva sostenuto di voler dare alla letteratura nera la stessa complessità «del jazz o della pallacanestro». «Poet laureate» dei fantasmi schiavisti – e del peccato originale americano – non conosceva compromessi. A chi invocava l’archiviazione della dolorosa storia aveva replicato: «Quando un poliziotto sparerà alla schiena di un adolescente bianco disarmato, quando un uomo bianco verrà condannato per lo stupro di una donna nera, allora sarò d’accordo con voi».
SOPRA A TUTTO, c’era l’amore del linguaggio, un senso di meraviglia per la potenza della parola. In The Pieces I Am, il documentario a lei dedicato con la partecipazione di Angela Davis, Fran Lebowitz, Walter Mosley e Russell Banks, presentato al Sundance scorso, Morrison ricordava come il nonno si vantasse sempre con lei di aver «letto la bibbia» – negli anni in cui agli afroamericani era ancora vietato leggere – e di aver imparato da lui a concepire la parola e la letteratura come atto rivoluzionario. Un atto cui ha dedicato tutta la sua vita.
[Luca Celada 07/08/2019]
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