Caseggiati popolari degradati, clochard che barcollano tra
l’immondizia e gli appartamenti degli spacciatori in quello che sembra
«un grande mare grigio di scorie»: per Sophia e Otto Bentwood, una
coppia di borghesi esuli da Manhattan, la vita a Brooklyn all’inizio
degli anni Settanta offre un punto di vista privilegiato sui cambiamenti
che stanno trasformando la città. Agenti immobiliari e speculatori
hanno iniziato a cacciare i vecchi abitanti, e sono mondi diversi quelli
che si fissano dalle finestre a pochi metri di distanza.
Pubblicato per la prima volta nel 1970, Quello che rimane (traduzione di Alessandro Cogolo, Fazi, pp. 206, euro16,50) era passato inosservato, e non è sorprendente: la scrittura di Fox è meticolosa nella ricostruzione di ambienti e sonda l’interiorità dei personaggi con un’intensità e un rigore lontani dalla leggerezza ironica della narrativa postmoderna, che in quegli anni conosceva una delle sue fasi più entusiasmanti.
Quello che rimane descrive, il weekend in cui il matrimonio tra Sophia e Otto viene messo a dura prova da un evento in apparenza minimo: il morso di un gatto randagio accarezzato in modo incauto dalla donna. Segue lo sbandamento innescato dalla scoperta di un’imprevista fragilità, la rabbia per l’ingiustizia, il timore del contagio, il sospetto di non essere in fondo innocenti quanto si vorrebbe: le emozioni espresse e quelle ignorate si intrecciano in un crescendo di tensione che scava un abisso tra i coniugi. La stessa tensione contrappone Sophia e Otto, insieme questa volta, al mondo che cambia intorno a loro. I figli dei loro amici sono diventati hippies, vestono e parlano in modi che loro non capiscono, così che, da compiaciuti esponenti della cultura progressista liberal del dopoguerra – Sophie ha lavorato come traduttrice, Otto è avvocato – i due scoprono a cinquant’anni di impersonare una generazione in stallo, incapace di abbracciare i nuovi ideali e senza direzione.
I Bentwood sono coetaenei della loro autrice: Paula Fox, nata nel 1923, negli anni Settanta era nota soprattutto come autrice di libri per l’infanzia; tutto cambiò quando venne salutata come maestra del romanzo americano da due degli scrittori più influenti di fine Novecento: Jonathan Franzen, che in occasione della ristampa americana del romanzo, lo descrisse come «superiore» a qualsiasi opera di Philip Roth o Saul Bellow. E da David Foster Wallace, che lo inserì come lettura obbligatoria nei suoi corsi, lodando la serietà e l’ostinazione con cui Paula Fox ha ritratto le torsioni dell’interiorità.
[Valeria Gennero 18/02/2018]
Pubblicato per la prima volta nel 1970, Quello che rimane (traduzione di Alessandro Cogolo, Fazi, pp. 206, euro16,50) era passato inosservato, e non è sorprendente: la scrittura di Fox è meticolosa nella ricostruzione di ambienti e sonda l’interiorità dei personaggi con un’intensità e un rigore lontani dalla leggerezza ironica della narrativa postmoderna, che in quegli anni conosceva una delle sue fasi più entusiasmanti.
Quello che rimane descrive, il weekend in cui il matrimonio tra Sophia e Otto viene messo a dura prova da un evento in apparenza minimo: il morso di un gatto randagio accarezzato in modo incauto dalla donna. Segue lo sbandamento innescato dalla scoperta di un’imprevista fragilità, la rabbia per l’ingiustizia, il timore del contagio, il sospetto di non essere in fondo innocenti quanto si vorrebbe: le emozioni espresse e quelle ignorate si intrecciano in un crescendo di tensione che scava un abisso tra i coniugi. La stessa tensione contrappone Sophia e Otto, insieme questa volta, al mondo che cambia intorno a loro. I figli dei loro amici sono diventati hippies, vestono e parlano in modi che loro non capiscono, così che, da compiaciuti esponenti della cultura progressista liberal del dopoguerra – Sophie ha lavorato come traduttrice, Otto è avvocato – i due scoprono a cinquant’anni di impersonare una generazione in stallo, incapace di abbracciare i nuovi ideali e senza direzione.
I Bentwood sono coetaenei della loro autrice: Paula Fox, nata nel 1923, negli anni Settanta era nota soprattutto come autrice di libri per l’infanzia; tutto cambiò quando venne salutata come maestra del romanzo americano da due degli scrittori più influenti di fine Novecento: Jonathan Franzen, che in occasione della ristampa americana del romanzo, lo descrisse come «superiore» a qualsiasi opera di Philip Roth o Saul Bellow. E da David Foster Wallace, che lo inserì come lettura obbligatoria nei suoi corsi, lodando la serietà e l’ostinazione con cui Paula Fox ha ritratto le torsioni dell’interiorità.
[Valeria Gennero 18/02/2018]
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