lunedì 24 ottobre 2016

Lo schiavista, Paul Beatty

Nato nel 1962, coetaneo di David Foster Wallace e di Jennifer Egan, poeta prestato alla narrativa – cui aveva già regalato tre libri di notevole livello (uno solo dei quali tradotto in italiano) – Paul Beatty è andato sempre più consolidandosi, nel corso degli anni e insieme a Colson Whitehead e John Edgar Wideman, come una delle voci più originali e convincenti della letteratura afroamericana contemporanea. Con il suo quarto romanzo, Lo schiavista, proposto – come già Slumberland – da Fazi (pp. 370, euro 18,50 euro), nella traduzione davvero eccellente di Silvia Castoldi, ha ottenuto una vera e propria consacrazione, conseguendo il National Book Critics Circle Award e entrando con autorevolezza nella rosa dei finalisti del Man Booker Prize.
Chi aveva ancora dubbi sui meriti dell’autore ha dovuto ricredersi: Beatty rappresenta l’esempio forse più luminoso della strada che la letteratura afroamericana ha saputo percorrere negli ultimi anni, liberandosi dall’obbligo del realismo e della denuncia sociale, che ne aveva fortemente limitato lo spettro d’azione, senza peraltro rinunciare a parlare – in modo forse ancor più forte e convincente, e ricorrendo alle armi della satira, del gioco linguistico, del pastiche, e di un umorismo sfrenato – delle questioni razziali e più in generale delle disuguaglianze che attanagliano un’America sempre più lontana dal suo sogno.
Se in Slumberland buona parte della trama si svolgeva in Europa, per la precisione a Berlino negli anni della caduta del muro, il setting dello schiavista è Dickens: una minuscola cittadina della Los Angeles Area fondata nel secondo ottocento come comunità agricola, per poi trasformarsi in un ghetto per neri e finire cancellata dalla gentrification. Ed è proprio per ribellarsi contro l’obliterazione della città in cui è nato che il protagonista, Bonbon Me – già segnato dall’uccisione del padre sociologo da parte della polizia – comincia la sua personale guerra contro il governo degli Stati Uniti: prima ridisegnando i confini di Dickens con la vernice bianca; poi cercando di reintrodurre la segregazione razziale – in fondo, non c’è niente di meglio dell’apartheid per restaurare un senso di comunità tra gli afroamericani – e ficcandosi così nel gigantesco pasticcio che lo porterà davanti alla Corte Suprema degli Stati Uniti (dove lo troviamo nel lungo, esilarante prologo del romanzo).
BonBon Me è un personaggio sui generis: se tenta di farsi strada nella vita non è nel nome di un desiderio di autoaffermazione razziale, ma tutt’al più assecondando la «frenesia edipica di compiacere il padre». Il suo rapporto con l’identità afroamericana viene formulato con la massima chiarezza in uno dei primi capitoli dello Schiavista: «Ora, se dipendesse solo da me, non potrebbe importarmene di meno di essere nero. A tutt’oggi quando mi arriva per posta il modulo dell’anagrafe, sotto la voce «Razza» barro la casella «Altro» e nello spazio accanto scrivo orgogliosamente «californiano».
Naturalmente due mesi dopo un impiegato dell’anagrafe si presenta a casa mia, mi dà un’occhiata e dice: «Razza di sporco negro. In quanto nero, cos’hai da dire a tua discolpa?». E in quanto nero, non ho mai niente da dire a mia discolpa. Quindi ho bisogno di un motto: se lo avessimo, alzerei il pugno, lo griderei forte e sbatterei la porta in faccia al governo. Ma non ce l’abbiamo. Perciò borbotto: «Mi scusi», e scarabocchio le mie iniziali accanto alla casella con la scritta “Nero, afroamericano, vigliacco”». Questo improbabile antieroe si fa portatore di un progetto paradossale, una sorta di antiutopia che, pure, ha una sua ragione profonda. Nel decimo capitolo dello Schiavista, BonBon mette in scena, sull’autobus guidato dall’ex amore della sua vita, Marpessa, la versione invertita di «quel giorno d’inverno nello Stato segregazionista dell’Alabama», in cui Rosa Parks si rifiutò di cedere il posto sull’autobus a un bianco. Incolla sotto i finestrini cartelli a caratteri bianchi e azzurri: «Posti riservati agli anziani, ai disabili e ai bianchi».
Passati in rassegna i mille episodi che, nel corso del Novecento, hanno fatto di Los Angeles l’epitome del razzismo americano (dall’internamento di massa dei nippoamericani, evocato recentemente da James Ellroy in Perfidia, agli urban riots del 1992, seguiti al brutale pestaggio di Rodney King da parte della polizia), BonBon chiarisce la sua visione della storia degli Stati Uniti: l’integrazione etnica – come del resto quella sociale – si è rivelata un autentico fallimento, e agli afroamericani non resta che l’autoghettizzazione come scelta e paradossale diritto.
In un paese sconvolto dalla recrudescenza del conflitto razziale già in corso quando Lo schiavista è stato scritto, e che diventa ogni giorno più evidente, Beatty torna a sfruttare, con maturità ormai piena, le armi e le tecniche di racconto a lui più congeniali: fonde la tradizione umoristica afroamericana e quella satirica che da Twain passa per Vonnegut e approda a Saunders. E costruisce un edificio narrativo denso di riferimenti storici e culturali, a volte quasi sovraccarico, ma che sa illuminare, con le1eggerezza profonda, i contrasti e gli abissi di una società in declino.
[Luca Briasco 23/ 10/2016]

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Commenti

il 12/08 SR ha commentato Non credo che D'Avenia possa far parte del nostro blog. Certo i suoi libri sono best-sellers tra gli adolescenti, e probabilmente hanno il merito di avviare qualche giovane alla lettura, ma la banalità delle situazioni e del linguaggio non permettono di considerare questi testi letteratura. Diciamo che sono testi "di servizio", nella migliore delle ipotesi. su Prossimamente
il 14/05 SR ha commentato Purtroppo J.K.J. non sembra più funzionare con le ultime generazioni: un tentativo di leggere a scuola Three Men In a Boat è finito miseramente in noia. I ragazzi non capivano cosa c'era da ridere e io non capivo perché non capivano. Tristissimo. Jerome per me è finito in quell'armadio dove tengo gli autori speciali che voglio proteggere dagli studenti... su Jerome K. Jerome, fare ridere l’uomo moderno, spaventato
il 29/02 Ida ha commentato A proposito di classifiche: "Oggi se vai al cinema devi entrare a un’ora fissa, quando il film incomincia, e appena incomincia qualcuno ti prende per così dire per mano e ti dice cosa succede. Ai miei tempi si poteva entrare al cinema a ogni momento, voglio dire anche a metà dello spettacolo, si arrivava mentre stavano succedendo alcune cose e si cercava di capire che cosa era accaduto prima (poi, quando il film ricominciava dall’inizio, si vedeva se si era capito tutto bene - a parte il fatto che se il film ci era piaciuto si poteva restare e rivedere anche quello che si era già visto). Ecco, la vita è come un film dei tempi miei. Noi entriamo nella vita quando molte cose sono già successe, da centinaia di migliaia di anni, ed è importante apprendere quello che è accaduto prima che noi nascessimo; serve per capire meglio perché oggi succedono molte cose nuove." Anch'io,come U.ECO sono andata al cinema nel modo ricordato e quindi io amo ricordare e vorrei tanto poter fare liste di su Chi siamo
il 28/02 Ida ha commentato Grazie Roberta per aver riaperto il blog.Trovo che è un modo per uscire dalla solitudine delle letture personali.Scrivere e leggere accanto, trovo che è un bel modo per parlarci e parlarmi. su Chi siamo