Sulle colonne di Ultrasuoni Franco Bergoglio ha recensito con
cura, in agosto, l’ultimo saggio del musicologo Stefano Zenni: “Che
razza di musica. Jazz, blues, soul e le trappole del colore” (Edt, euro
11,50). Nelle 180 pagine del testo si affrontano temi di particolare
importanza e attualità e – in questo senso – il libro ha una sua
dimensione “politica” perché mette in discussione (e spesso abbatte) una
serie di luoghi “comuni” e “miti” che circondano e attraversano la
black music. Temi che riguardano l’identità degli afroamericani nella
sua complessità e attraverso il mutarsi della legislazione statunitense,
fenomeni come il “passing” o il “colorism” (in Italia poco noti e meno
dibattuti), l’importanza della componente italoamericana e “jewish”
nella musica nera e nel suo mondo (fatto di editori, produttori
discografici, manager, gestori di club…) vengono messi a fuoco con ampi
riferimenti alla più aggiornata saggistica internazionale. Gli ultimi
anni hanno visto negli Usa una recrudescenza della violenza poliziesca
(quindi statale) contro i neroamericani, con la nascita del movimento
Black Lives Matter; Stefano Zenni, tra l’altro, afferma che <<gli
statunitensi bianchi, letteralmente, non vedono le sistematiche
politiche di privilegio: credono invece che le disparità di welfare
siano il risultato dell’incapacità o delle difficoltà intrinseche alla
comunità nera, che deve risolvere i problemi al suo interno>>
(p.162, “Conclusione. Di che colore è la musica nera?”). In definitiva
“Che razza di musica” ha il pregio di far discutere ed instillare il
dubbio. E’ così accaduto che dal confronto di opinioni con altri critici
musicali del nostro giornale siano scaturiti due articoli-lettera che
trattano del testo di Stefano Zenni: uno di Flavio Massarutto, che ne
mette in luce gli aspetti dialettici e “positivi”, e l’altro di Marcello
Lorrai che introduce in modo ragionato elementi critici. A questo punto
ci è sembrato opportuno pubblicarli, magari per avviare un dibattito
che non può che essere positivo e propositivo. Buona lettura.
Luigi Onori
Quando il bianco e il nero si confondono
Musica e razzismo in un nuovo saggio che smonta certezze e fa discutere.
Flavio Massarutto
Parlare dell’argomento razziale è sempre delicato perché va a smuovere complesse questioni identitarie generatrici di un intricato quanto profondo grumo di verità incontestabili, sospetti, pregiudizi. Scegliendo di occuparsene e di farlo con dichiarato spirito revisionista Stefano Zenni decide di scoperchiare una pentola in ebollizione.
Il musicologo nel breve saggio Che razza di musica (EDT, pagine 181, euro 11,50) prende di petto il problema e non lesina affermazioni che non mancheranno di suscitare scalpore. Come l’arruolamento del poeta, critico e militante nero Amiri Baraka nell’ambito dell’antisemitismo nero che per il lettore di sinistra suonerà come una sassata. Conoscendo Zenni non si tratta di una citazione a cuor leggero. Molto dell’impianto teorico del libro si basa infatti sulla convinzione che per la comprensione delle musiche afroamericane ( jazz, soul, blues ) e per un loro corretto inquadramento storico bisogna rovesciare alcune convinzioni consolidate. Ecco la ragione dell’attacco non solo alle posizioni tradizionalmente conservatrici (facile il bersaglio Wynton Marsalis) ma anche ad alcuni capisaldi progressisti smascherandone le contraddizioni. Di questo atteggiamento ne è testimonianza ad esempio la bella lezione su jazz e politica tenuta al Festival Udin & Jazz del giugno scorso nella quale ha accusato di opportunismo la Liberation Music Orchestra ovvero uno delle esperienze collocate ben al centro della mitologia del jazz di sinistra. Zenni insomma indossa i panni del polemista ma lo fa con rigore e onestà intellettuale e coglie nel segno.
La prima parte del volume passa in rassegna i limiti delle concezioni razziali analizzando tre comunità fondamentali per la nascita e lo sviluppo del jazz: africani americani, ebrei e italiani. Una quantità di dati, esempi e considerazioni condensati in poche pagine di coerente lucidità che incrociano musicologia, antropologia, storia e molto altro ancora. Nella seconda parte si prendono in esame veri e propri abbagli causati dall’irrigidimento delle categorie che non consentono di cogliere la fluidità e gli interscambi creativi che nutrono il jazz e lo fanno una musica così vitale utilizzando categorie quasi sconosciute nel nostro Paese come il passing ( lo scivolamento attivo tra razze a seconda delle convenienze).
Nella lettura stratificata del minstrelismo nelle sue componenti razziali, economiche, sociali e psicologiche risiede molto del nucleo centrale del ragionamento. Quanto questo sia attuale lo dimostra il successo di operazioni culturali di riscoperta e aggiornamento dei repertori. Il repertorio dello straordinario gruppo african american Carolina Chocolate Drops recupera questo meticciato originario di ritmi e melodie irlandesi, proto country, blues, ballate. Musiche fino a ieri, con la lettura essenzialista, separate da una artificiosa linea del colore. Una operazione impensabile senza gli strumenti culturali attuali.
Tornando al testo di Zenni un altro spunto di rilievo è la polemica con la BAM (Black American Music) etichetta autodefinita di una serie di musicisti neri con il trombettista Nicholas Payton tra i capofila. Etichetta di discutibile protezionismo che l’autore affianca al conservatorismo di Marsalis e Stanley Crouch e che alla quale è stato dato credito con solerzia anche in Italia dedicandole ampio spazio nella rivista <<Musica Jazz>>. Nulla di più di un operazione di marketing spacciata per operazione culturale.
In conclusione l’autore propone di guardare con maggior interesse a quanto si muove nel campo dei jazzisti asiatico americani (Jong Jang e lo scomparso Fred Ho) e soprattutto in Europa dove la lezione dell’inclusione, anche se drammaticamente contraddetta dalla cronaca politica, ha almeno nel jazz piena cittadinanza. Proprio il giudizio sull’attualità o quantomeno sugli ultimi decenni è quello che occhieggiando nelle ultime pagine rivela il cuore della prospettiva da cui muove il ragionamento dell’autore. E che interessa maggiormente nel dibattito odierno. È indubbio infatti il disagio di certa critica e lo spaesamento di una parte del pubblico storico nei confronti della moltiplicazione stilistica e nella frammentazione delle musiche che stanno sotto quell’ombrello chiamato jazz. Con il risultato di non vedere invece la ricchezza e la produttività che la musica afroamericana ha prodotto e continua a produrre sotto i nostri occhi. Solo che oggi il collegamento con la realtà viva segue altre dinamiche. Pensiamo solo al tema del rapporto tra identità e territorio indagato a fondo, in una dimensione di apertura e trasformazione, da un musicista come Pino Minafra. Declinando in modo originale il pensiero “meridiano”del sociologo Franco Cassano, il trombettista pugliese ha infatti creato una personale sintesi delle musiche dei Sud del mondo dove convergono le tradizioni bandistiche del meridione, il jazz sudafricano dell’esilio, la musica improvvisata europea. Oppure la musica “aliena” di un Henry Theadgill che muovendo dall’esperienza della AACM ha nel corso del tempo maturato una musica globale di difficile definizione secondo le categorie del bianco e del nero. Oppure ancora l’azione convergente delle iniziative di John Zorn con la riscoperta delle musiche ebraiche e il ruolo dei musicisti mediorientali sempre più presenti e attivi nel jazz.
Questo volume propone in definitiva uno sguardo acuto e libero da pregiudizi che, anche quando si può legittimamente essere in disaccordo, ha il merito di suscitare un dibattito su questioni essenziali. Chi segue con partecipazione la vicenda del jazz insomma non ha nessuna convenienza a erigere barriere identitarie ma semmai deve coltivare la relazione, la dialettica, la mutevolezza perché lì sta la sua particolare natura. E la sua forza.
Quattro dischi non essenzialisti da ascoltare
Carolina Chocolate Drops Leaving Eden (Nonesuch)
Se pensavate che bluegrass, country, musiche irlandesi fossero roba per bianchi conservatori dopo aver ascoltato questo disco di tre giovani afroamericani (una di questi è la nuova stella Rhiannon Giddens) cambierete idea. Old Time Music e nuove composizioni di neofolk irresistibili.
Fred Ho and The Green Monster Big Band Celestial Green Monster ( Mutablemusic)
Il jazz delle Big Band, le derive pop-culture di Spiderman, l’urlo del free. Tutto questo e molto di più in questo disco del baritonista asian american Fred Ho. Figura singolare di musicista e intellettuale militante. Basterebbe la copertina dove Ho è dipinto di verde: novello Hulk, l’eroe fumettistico simbolo della diversità per eccellenza.
Abraham Inc. Tweet Tweet (Label bleu)
David Krakauer ,uno dei migliori esponenti del rinascimento musicale ebraico incontra il il funk di Fred Wesley e l’hip hop di Socalled. La lezione della Radical Jewish Music: la consapevolezza e l’orgoglio ebraico abbracciano l’estetica e l’universo delle musiche african american. Prima di infilare il dischetto nel lettore ricordatevi di mettere scarpe comode: impossibile restare fermi!
Daniele D’Agaro Chicago Overtones (Hatology)
Il sassofonista e clarinettista Daniele D’Agaro suona il jazz come se fosse stato alle elementari con Pee Wee Russel, alle medie con Misha Mengelberg e al liceo con Sun Ra. Qui è in trasferta a Chicago con due campioni della scena free, Jeb Bishop e Kent Kessler, e il mitico batterista dell’Arkestra Robert Barry. Ed è sempre un passo avanti.
Zenni, che razza di musica
Marcello Lorrai
Jazz nero e jazz bianco: è in questi termini che tradizionalmente siamo stati abituati a vedere le “componenti” della storia del jazz negli Stati Uniti. Nella lettura di questa storia uno spartiacque è stato costituito nel ’63 da Il popolo del blues di Amiri Baraka, che proprio introducendo una decisiva novità di approccio ha però corroborato quella visione in nero e bianco. Per Baraka la vicenda del jazz trova la sua chiave interpretativa nelle tappe, e nell’autonomia, dell’esperienza afroamericana all’interno di una società bianca: esperienza che Baraka individua come il motore essenziale dello snodarsi di quella vicenda. Se questo è il contributo cruciale, e per noi di permanente validità, di Blues People, il libro non è però privo di limiti nell’impianto generale e in valutazioni specifiche: Baraka mette in scena una dialettica nero/bianco in cui se sono regolarmente afroamericani i protagonisti della vicenda del jazz decisivi nell’indirizzarne il corso – fatto questo in effetti difficilmente oppugnabile – i bianchi appaiono invece in una posizione di reazione, di inseguimento/recupero, di neutralizzazione dell’iniziativa nera, e il loro apporto è oggetto di una complessiva svalutazione. Uno dei limiti più seri di questa impostazione è l’indistinzione nella rappresentazione della componente “bianca”: con cui Baraka si priva di un elemento utile a riconoscere nella componente non afroamericana del jazz, perlomeno nelle sue espressioni migliori, anziché una insidiosa, subdola appropriazione di idee afroamericane, una legittima condivisione e declinazione di un’egemonia afroamericana da parte di altre minoranze.
Perché se si guarda alla configurazione che il jazz oltre Atlantico ha avuto storicamente, quello che è sotto gli occhi di tutti ma che si continua abbondantemente a non esplicitare e tematizzare è che il jazz è stato eminentemente una musica di minoranze: se dal carciofo del jazz negli Usa si tolgono le foglie afroamericane, ebreoamericane, italoamericane o riconducibili ad altre minoranze (polacchi cattolici, irlandesi eccetera), non rimane quasi niente. In altre parole, il peso della componente wasp nella vicenda della musica americana per eccellenza è, pur con diverse personalità non trascurabili, complessivamente del tutto secondaria.
Ben vengano quindi i due capitoli che nel suo Che razza di musica Stefano Zenni dedica all’apporto degli ebreoamericani e degli italoamericani alla vicenda del jazz. “Una delle conseguenze più nefaste del razzismo fondato sul colore – scrive Zenni – risiede nel farci assumere come naturali i concetti stessi di ‘nero’ e ‘bianco’, come se fossero due categorie che non solo rispondono a realtà, ma che rimangono sempre distinte e fisse”. Mettendo in risalto il peso della partecipazione di musicisti di origine ebraica e italiana al jazz, Zenni si muove nel senso di una destrutturazione del concetto di “bianco” nel jazz. Meno persuasivo appare il tentativo di destrutturare il concetto di “nero”. Zenni segnala una serie di casi di origini complesse e di colore della pelle non precisamente “nero”. Ma il problema non è quello di quale esattamente fosse l’epidermide del lentigginoso Charley Patton, né quello della non straordinaria simpatia del creolo Jelly Roll Morton per i neri: quello che è rilevante è se si è data una autonomia e una specificità culturale e di sensibilità che nell’insieme, con tutte le varianti individuali, le contraddizioni e i paradossi, il mondo afroamericano ha espresso, e che ha fatto la differenza di una musica come il jazz. “Il jazz è stato creato dai musicisti africano americani”, scrive Zenni, “ma pensare che abbia preso forma in un vuoto culturale e sociale è quanto meno una ingenuità. (…) Il jazz ha preso gradualmente forma da un intreccio di forze e influssi che, guidato dagli africano americani, ha coinvolto persone, comunità e culture diverse, compresi anglosassoni, francesi, ispanici, italiani, ebrei, creoli. Da quel momento, il jazz è diventato una musica di tutti. (…) In molti momenti della storia, gli africano americani sono stati protagonisti di innovazioni fondamentali, in altri momenti idee fresche sono giunte da artisti dal colore della pelle diverso”. Se teniamo ben ferma la disparità che corre fra “innovazioni fondamentali” e “idee fresche”, non si può che essere d’accordo. “E negli ultimi quarant’anni”, aggiunge subito dopo, “il jazz si è trasformato con il contributo di artisti creativi di mezzo mondo”. Per inciso, una riflessione intorno a quest’ultima affermazione: quando ci interroghiamo sulla natura della vicenda del jazz, sui suoi caratteri, sulle componenti che vi hanno contribuito, possiamo continuare indefinitamente a stirare la sua storia più che secolare, oppure dobbiamo cominciare a pensare (cosa ben diversa dal dire che il jazz “è morto”) che da alcuni decenni quella storia si è conclusa, e che siamo entrati in un’altra epoca, quella di musiche “di matrice jazzistica”, solo alcune delle quali più legate alle valenze profonde, al senso, del jazz “storico”?
Dopo l’affermazione citata Zenni insiste sull’importanza per il jazz, e come ispirazione per gli stessi suoi protagonisti afroamericani, di contributi non neri, e cita Gershwin, la Original Dixieland Jazz Band, Beiderbecke, Goodman, e arriva a stilare una lista con una ventina di altri esempi, andando da un Gene Krupa a un Jan Garbarek, lista che non fa semmai che confermare in negativo che i responsabili dei passaggi e delle novità più importanti nel jazz sono stati fondamentalmente degli afroamericani e che afroamericana è stata una gran parte dei suoi protagonisti di maggiore rilievo.
Ma perché questa ansia di sottolineare il contributo bianco? E di polemizzare con chi sminuisce il contributo non nero, e ritiene i neri i depositari della “verità” di questa musica? Chi sono gli obiettivi? Wynton Marsalis? Ma Marsalis, con la sua idea che siano solo i neri ad essere pienamente legittimati nel jazz, può avere un rilievo all’interno di dinamiche americane, ma scarsissimo qui. Il bersaglio è chi è rimasto legato ad una lettura del jazz, in particolare anni sessanta, del free jazz, in cui il jazz nero è visto come l’incarnazione di una certa valenza politica ? Un essenzialismo per cui i neri risultano gli eredi di una autenticità originaria? In Italia, secondo Zenni, “la retorica delle ‘radici’ africane e del ‘recupero della tradizione’ gode ancora oggi di ottima salute”. Ma per la verità queste sembrano delle visioni piuttosto residuali.
Forse dovrebbe preoccupare di più che tutta una serie di fattori, alcuni dolorosi o negativi, altri anche positivi, per esempio l’estinguersi delle grandi figure storiche di riferimento, la rivendicazione di legittimità dei jazzmen europei e di altre parti del mondo, il proliferare della pratica del jazz, la politica di scelte dei festival dovute anche a ragioni di budget – e si potrebbe continuare e articolare a lungo – abbiano congiurato nel diffondere nella percezione larga un’immagine del jazz di oggi (immagine che ha poi effetti concretissimi nei consumi, nei cartelloni appunto delle rassegne, nella conoscenza del jazz da parte di nuovi appassionati e giovani musicisti eccetera) in cui vale tutto e il contrario di tutto e in cui il jazz afroamericano in particolare, ma anche quello americano più in generale, con una presenza quantitativamente e qualitativamente molto ridimensionata attraverso dinamiche non del tutto neutrali, appaiono come solo una delle tante possibili specificità di questa musica.
E dovrebbe preoccupare che in questo processo il jazz inclini largamente a trasformarsi in una cassetta di arnesi, di lezioni stilistiche, di tecniche improvvisative e di interplay, a disposizione per esercizi spesso innocui e avulsi dalla realtà di oggi; e che tenda a perdere invece il legame con gli aspetti più profondi e più importanti della vicenda storica del jazz: lo stretto rapporto appunto con la realtà del suo tempo, la decisa tensione innovativa, le forti valenze politiche e utopiche, l’anticonformismo, la pronunciata “alterità” rispetto alla cultura ufficiale. Tratti che si devono al contributo di molte minoranze, e in primis a quella afroamericana. A proposito del contributo ebraico, e specialmente degli ebrei originari dell’Europa dell’est, Zenni scrive che agli afroamericani “li avvicinava l’avversione allo sfruttamento economico e sociale e alla discriminazione razziale”. Ma va ricordato anche un altro motivo di sintonia con gli afroamericani, che riguarda per esempio anche gli italiani: ebrei e italiani provenivano da realtà in cui all’epoca nella musica e nella sensibilità popolari erano ancora presenti elementi legati alla dimensione del magico che in Europa era invece stata espunta dalla musica e dalla cultura ufficiali. Il discorso porterebbe lontano, ma il jazz ha rappresentato anche una folgorante, efficace traduzione all’interno della società di gran lunga più moderna di un secolo fa del rapporto tra musica e magia, tra musica e religione. E non si tratta di richiamarsi in maniera essenzialistica a delle “radici” immutabili, ma di cogliere un dato culturale profondo, che spiega molta della differenza del jazz e in cui gli afroamericani hanno avuto un ruolo determinante: e che sta alla base anche della tensione utopica da cui la vicenda del jazz è venata, che è tensione alla liberazione non solo dalla discriminazione razziale, dall’oppressione politico-economica e dalle costrizioni sociali, ma – come dice Baraka – anche dai limiti dell’esistenza umana, dalla morte, come nella transe e nella possessione.
Il libro di Zenni ha il merito di toccare questioni poco trattate (come anche il passing) e di offrire numerosi spunti di discussione: c’è dentro molto, e forse troppo. E nelle ultime pagine Zenni si spinge a ipotizzare la musica creata dagli afroamericani come una sorta di modello politico: “la musica degli africano americani è l’eccezionale dono che gli ex schiavi hanno fatto al mondo. Il dono di una musica che è resistenza e apertura, voce individuale e inclusione collettiva, opposizione all’egemonia e mano tesa verso l’altro. Per accogliere e apprezzare quel dono, perché tutti ne usufruiscano nel migliore dei modi e costruiscano la propria libertà espressiva, è necessario fare pulizia delle incrostazioni ideologiche e mitiche (…)”. Ma in effetti quello che “politicamente” fa la differenza sono i fatti e i valori estetici. E se, per stare all’Europa, di incrostazione non si vedono in realtà grandi tracce, abbonda una generica, modesta democraticità del jazz che produce musica confermativa, consolatoria, compiacente, dunque già di per sé artisticamente scadente. Oltre che di colori della musica bisognerebbe forse cominciare a discutere anche di questo pallore estetico.
[Luigi Onori, Flavio Massarutto, Marcello Lorrai 21/09/2016]
Luigi Onori
Quando il bianco e il nero si confondono
Musica e razzismo in un nuovo saggio che smonta certezze e fa discutere.
Flavio Massarutto
Parlare dell’argomento razziale è sempre delicato perché va a smuovere complesse questioni identitarie generatrici di un intricato quanto profondo grumo di verità incontestabili, sospetti, pregiudizi. Scegliendo di occuparsene e di farlo con dichiarato spirito revisionista Stefano Zenni decide di scoperchiare una pentola in ebollizione.
Il musicologo nel breve saggio Che razza di musica (EDT, pagine 181, euro 11,50) prende di petto il problema e non lesina affermazioni che non mancheranno di suscitare scalpore. Come l’arruolamento del poeta, critico e militante nero Amiri Baraka nell’ambito dell’antisemitismo nero che per il lettore di sinistra suonerà come una sassata. Conoscendo Zenni non si tratta di una citazione a cuor leggero. Molto dell’impianto teorico del libro si basa infatti sulla convinzione che per la comprensione delle musiche afroamericane ( jazz, soul, blues ) e per un loro corretto inquadramento storico bisogna rovesciare alcune convinzioni consolidate. Ecco la ragione dell’attacco non solo alle posizioni tradizionalmente conservatrici (facile il bersaglio Wynton Marsalis) ma anche ad alcuni capisaldi progressisti smascherandone le contraddizioni. Di questo atteggiamento ne è testimonianza ad esempio la bella lezione su jazz e politica tenuta al Festival Udin & Jazz del giugno scorso nella quale ha accusato di opportunismo la Liberation Music Orchestra ovvero uno delle esperienze collocate ben al centro della mitologia del jazz di sinistra. Zenni insomma indossa i panni del polemista ma lo fa con rigore e onestà intellettuale e coglie nel segno.
La prima parte del volume passa in rassegna i limiti delle concezioni razziali analizzando tre comunità fondamentali per la nascita e lo sviluppo del jazz: africani americani, ebrei e italiani. Una quantità di dati, esempi e considerazioni condensati in poche pagine di coerente lucidità che incrociano musicologia, antropologia, storia e molto altro ancora. Nella seconda parte si prendono in esame veri e propri abbagli causati dall’irrigidimento delle categorie che non consentono di cogliere la fluidità e gli interscambi creativi che nutrono il jazz e lo fanno una musica così vitale utilizzando categorie quasi sconosciute nel nostro Paese come il passing ( lo scivolamento attivo tra razze a seconda delle convenienze).
Nella lettura stratificata del minstrelismo nelle sue componenti razziali, economiche, sociali e psicologiche risiede molto del nucleo centrale del ragionamento. Quanto questo sia attuale lo dimostra il successo di operazioni culturali di riscoperta e aggiornamento dei repertori. Il repertorio dello straordinario gruppo african american Carolina Chocolate Drops recupera questo meticciato originario di ritmi e melodie irlandesi, proto country, blues, ballate. Musiche fino a ieri, con la lettura essenzialista, separate da una artificiosa linea del colore. Una operazione impensabile senza gli strumenti culturali attuali.
Tornando al testo di Zenni un altro spunto di rilievo è la polemica con la BAM (Black American Music) etichetta autodefinita di una serie di musicisti neri con il trombettista Nicholas Payton tra i capofila. Etichetta di discutibile protezionismo che l’autore affianca al conservatorismo di Marsalis e Stanley Crouch e che alla quale è stato dato credito con solerzia anche in Italia dedicandole ampio spazio nella rivista <<Musica Jazz>>. Nulla di più di un operazione di marketing spacciata per operazione culturale.
In conclusione l’autore propone di guardare con maggior interesse a quanto si muove nel campo dei jazzisti asiatico americani (Jong Jang e lo scomparso Fred Ho) e soprattutto in Europa dove la lezione dell’inclusione, anche se drammaticamente contraddetta dalla cronaca politica, ha almeno nel jazz piena cittadinanza. Proprio il giudizio sull’attualità o quantomeno sugli ultimi decenni è quello che occhieggiando nelle ultime pagine rivela il cuore della prospettiva da cui muove il ragionamento dell’autore. E che interessa maggiormente nel dibattito odierno. È indubbio infatti il disagio di certa critica e lo spaesamento di una parte del pubblico storico nei confronti della moltiplicazione stilistica e nella frammentazione delle musiche che stanno sotto quell’ombrello chiamato jazz. Con il risultato di non vedere invece la ricchezza e la produttività che la musica afroamericana ha prodotto e continua a produrre sotto i nostri occhi. Solo che oggi il collegamento con la realtà viva segue altre dinamiche. Pensiamo solo al tema del rapporto tra identità e territorio indagato a fondo, in una dimensione di apertura e trasformazione, da un musicista come Pino Minafra. Declinando in modo originale il pensiero “meridiano”del sociologo Franco Cassano, il trombettista pugliese ha infatti creato una personale sintesi delle musiche dei Sud del mondo dove convergono le tradizioni bandistiche del meridione, il jazz sudafricano dell’esilio, la musica improvvisata europea. Oppure la musica “aliena” di un Henry Theadgill che muovendo dall’esperienza della AACM ha nel corso del tempo maturato una musica globale di difficile definizione secondo le categorie del bianco e del nero. Oppure ancora l’azione convergente delle iniziative di John Zorn con la riscoperta delle musiche ebraiche e il ruolo dei musicisti mediorientali sempre più presenti e attivi nel jazz.
Questo volume propone in definitiva uno sguardo acuto e libero da pregiudizi che, anche quando si può legittimamente essere in disaccordo, ha il merito di suscitare un dibattito su questioni essenziali. Chi segue con partecipazione la vicenda del jazz insomma non ha nessuna convenienza a erigere barriere identitarie ma semmai deve coltivare la relazione, la dialettica, la mutevolezza perché lì sta la sua particolare natura. E la sua forza.
Quattro dischi non essenzialisti da ascoltare
Carolina Chocolate Drops Leaving Eden (Nonesuch)
Se pensavate che bluegrass, country, musiche irlandesi fossero roba per bianchi conservatori dopo aver ascoltato questo disco di tre giovani afroamericani (una di questi è la nuova stella Rhiannon Giddens) cambierete idea. Old Time Music e nuove composizioni di neofolk irresistibili.
Fred Ho and The Green Monster Big Band Celestial Green Monster ( Mutablemusic)
Il jazz delle Big Band, le derive pop-culture di Spiderman, l’urlo del free. Tutto questo e molto di più in questo disco del baritonista asian american Fred Ho. Figura singolare di musicista e intellettuale militante. Basterebbe la copertina dove Ho è dipinto di verde: novello Hulk, l’eroe fumettistico simbolo della diversità per eccellenza.
Abraham Inc. Tweet Tweet (Label bleu)
David Krakauer ,uno dei migliori esponenti del rinascimento musicale ebraico incontra il il funk di Fred Wesley e l’hip hop di Socalled. La lezione della Radical Jewish Music: la consapevolezza e l’orgoglio ebraico abbracciano l’estetica e l’universo delle musiche african american. Prima di infilare il dischetto nel lettore ricordatevi di mettere scarpe comode: impossibile restare fermi!
Daniele D’Agaro Chicago Overtones (Hatology)
Il sassofonista e clarinettista Daniele D’Agaro suona il jazz come se fosse stato alle elementari con Pee Wee Russel, alle medie con Misha Mengelberg e al liceo con Sun Ra. Qui è in trasferta a Chicago con due campioni della scena free, Jeb Bishop e Kent Kessler, e il mitico batterista dell’Arkestra Robert Barry. Ed è sempre un passo avanti.
Zenni, che razza di musica
Marcello Lorrai
Jazz nero e jazz bianco: è in questi termini che tradizionalmente siamo stati abituati a vedere le “componenti” della storia del jazz negli Stati Uniti. Nella lettura di questa storia uno spartiacque è stato costituito nel ’63 da Il popolo del blues di Amiri Baraka, che proprio introducendo una decisiva novità di approccio ha però corroborato quella visione in nero e bianco. Per Baraka la vicenda del jazz trova la sua chiave interpretativa nelle tappe, e nell’autonomia, dell’esperienza afroamericana all’interno di una società bianca: esperienza che Baraka individua come il motore essenziale dello snodarsi di quella vicenda. Se questo è il contributo cruciale, e per noi di permanente validità, di Blues People, il libro non è però privo di limiti nell’impianto generale e in valutazioni specifiche: Baraka mette in scena una dialettica nero/bianco in cui se sono regolarmente afroamericani i protagonisti della vicenda del jazz decisivi nell’indirizzarne il corso – fatto questo in effetti difficilmente oppugnabile – i bianchi appaiono invece in una posizione di reazione, di inseguimento/recupero, di neutralizzazione dell’iniziativa nera, e il loro apporto è oggetto di una complessiva svalutazione. Uno dei limiti più seri di questa impostazione è l’indistinzione nella rappresentazione della componente “bianca”: con cui Baraka si priva di un elemento utile a riconoscere nella componente non afroamericana del jazz, perlomeno nelle sue espressioni migliori, anziché una insidiosa, subdola appropriazione di idee afroamericane, una legittima condivisione e declinazione di un’egemonia afroamericana da parte di altre minoranze.
Perché se si guarda alla configurazione che il jazz oltre Atlantico ha avuto storicamente, quello che è sotto gli occhi di tutti ma che si continua abbondantemente a non esplicitare e tematizzare è che il jazz è stato eminentemente una musica di minoranze: se dal carciofo del jazz negli Usa si tolgono le foglie afroamericane, ebreoamericane, italoamericane o riconducibili ad altre minoranze (polacchi cattolici, irlandesi eccetera), non rimane quasi niente. In altre parole, il peso della componente wasp nella vicenda della musica americana per eccellenza è, pur con diverse personalità non trascurabili, complessivamente del tutto secondaria.
Ben vengano quindi i due capitoli che nel suo Che razza di musica Stefano Zenni dedica all’apporto degli ebreoamericani e degli italoamericani alla vicenda del jazz. “Una delle conseguenze più nefaste del razzismo fondato sul colore – scrive Zenni – risiede nel farci assumere come naturali i concetti stessi di ‘nero’ e ‘bianco’, come se fossero due categorie che non solo rispondono a realtà, ma che rimangono sempre distinte e fisse”. Mettendo in risalto il peso della partecipazione di musicisti di origine ebraica e italiana al jazz, Zenni si muove nel senso di una destrutturazione del concetto di “bianco” nel jazz. Meno persuasivo appare il tentativo di destrutturare il concetto di “nero”. Zenni segnala una serie di casi di origini complesse e di colore della pelle non precisamente “nero”. Ma il problema non è quello di quale esattamente fosse l’epidermide del lentigginoso Charley Patton, né quello della non straordinaria simpatia del creolo Jelly Roll Morton per i neri: quello che è rilevante è se si è data una autonomia e una specificità culturale e di sensibilità che nell’insieme, con tutte le varianti individuali, le contraddizioni e i paradossi, il mondo afroamericano ha espresso, e che ha fatto la differenza di una musica come il jazz. “Il jazz è stato creato dai musicisti africano americani”, scrive Zenni, “ma pensare che abbia preso forma in un vuoto culturale e sociale è quanto meno una ingenuità. (…) Il jazz ha preso gradualmente forma da un intreccio di forze e influssi che, guidato dagli africano americani, ha coinvolto persone, comunità e culture diverse, compresi anglosassoni, francesi, ispanici, italiani, ebrei, creoli. Da quel momento, il jazz è diventato una musica di tutti. (…) In molti momenti della storia, gli africano americani sono stati protagonisti di innovazioni fondamentali, in altri momenti idee fresche sono giunte da artisti dal colore della pelle diverso”. Se teniamo ben ferma la disparità che corre fra “innovazioni fondamentali” e “idee fresche”, non si può che essere d’accordo. “E negli ultimi quarant’anni”, aggiunge subito dopo, “il jazz si è trasformato con il contributo di artisti creativi di mezzo mondo”. Per inciso, una riflessione intorno a quest’ultima affermazione: quando ci interroghiamo sulla natura della vicenda del jazz, sui suoi caratteri, sulle componenti che vi hanno contribuito, possiamo continuare indefinitamente a stirare la sua storia più che secolare, oppure dobbiamo cominciare a pensare (cosa ben diversa dal dire che il jazz “è morto”) che da alcuni decenni quella storia si è conclusa, e che siamo entrati in un’altra epoca, quella di musiche “di matrice jazzistica”, solo alcune delle quali più legate alle valenze profonde, al senso, del jazz “storico”?
Dopo l’affermazione citata Zenni insiste sull’importanza per il jazz, e come ispirazione per gli stessi suoi protagonisti afroamericani, di contributi non neri, e cita Gershwin, la Original Dixieland Jazz Band, Beiderbecke, Goodman, e arriva a stilare una lista con una ventina di altri esempi, andando da un Gene Krupa a un Jan Garbarek, lista che non fa semmai che confermare in negativo che i responsabili dei passaggi e delle novità più importanti nel jazz sono stati fondamentalmente degli afroamericani e che afroamericana è stata una gran parte dei suoi protagonisti di maggiore rilievo.
Ma perché questa ansia di sottolineare il contributo bianco? E di polemizzare con chi sminuisce il contributo non nero, e ritiene i neri i depositari della “verità” di questa musica? Chi sono gli obiettivi? Wynton Marsalis? Ma Marsalis, con la sua idea che siano solo i neri ad essere pienamente legittimati nel jazz, può avere un rilievo all’interno di dinamiche americane, ma scarsissimo qui. Il bersaglio è chi è rimasto legato ad una lettura del jazz, in particolare anni sessanta, del free jazz, in cui il jazz nero è visto come l’incarnazione di una certa valenza politica ? Un essenzialismo per cui i neri risultano gli eredi di una autenticità originaria? In Italia, secondo Zenni, “la retorica delle ‘radici’ africane e del ‘recupero della tradizione’ gode ancora oggi di ottima salute”. Ma per la verità queste sembrano delle visioni piuttosto residuali.
Forse dovrebbe preoccupare di più che tutta una serie di fattori, alcuni dolorosi o negativi, altri anche positivi, per esempio l’estinguersi delle grandi figure storiche di riferimento, la rivendicazione di legittimità dei jazzmen europei e di altre parti del mondo, il proliferare della pratica del jazz, la politica di scelte dei festival dovute anche a ragioni di budget – e si potrebbe continuare e articolare a lungo – abbiano congiurato nel diffondere nella percezione larga un’immagine del jazz di oggi (immagine che ha poi effetti concretissimi nei consumi, nei cartelloni appunto delle rassegne, nella conoscenza del jazz da parte di nuovi appassionati e giovani musicisti eccetera) in cui vale tutto e il contrario di tutto e in cui il jazz afroamericano in particolare, ma anche quello americano più in generale, con una presenza quantitativamente e qualitativamente molto ridimensionata attraverso dinamiche non del tutto neutrali, appaiono come solo una delle tante possibili specificità di questa musica.
E dovrebbe preoccupare che in questo processo il jazz inclini largamente a trasformarsi in una cassetta di arnesi, di lezioni stilistiche, di tecniche improvvisative e di interplay, a disposizione per esercizi spesso innocui e avulsi dalla realtà di oggi; e che tenda a perdere invece il legame con gli aspetti più profondi e più importanti della vicenda storica del jazz: lo stretto rapporto appunto con la realtà del suo tempo, la decisa tensione innovativa, le forti valenze politiche e utopiche, l’anticonformismo, la pronunciata “alterità” rispetto alla cultura ufficiale. Tratti che si devono al contributo di molte minoranze, e in primis a quella afroamericana. A proposito del contributo ebraico, e specialmente degli ebrei originari dell’Europa dell’est, Zenni scrive che agli afroamericani “li avvicinava l’avversione allo sfruttamento economico e sociale e alla discriminazione razziale”. Ma va ricordato anche un altro motivo di sintonia con gli afroamericani, che riguarda per esempio anche gli italiani: ebrei e italiani provenivano da realtà in cui all’epoca nella musica e nella sensibilità popolari erano ancora presenti elementi legati alla dimensione del magico che in Europa era invece stata espunta dalla musica e dalla cultura ufficiali. Il discorso porterebbe lontano, ma il jazz ha rappresentato anche una folgorante, efficace traduzione all’interno della società di gran lunga più moderna di un secolo fa del rapporto tra musica e magia, tra musica e religione. E non si tratta di richiamarsi in maniera essenzialistica a delle “radici” immutabili, ma di cogliere un dato culturale profondo, che spiega molta della differenza del jazz e in cui gli afroamericani hanno avuto un ruolo determinante: e che sta alla base anche della tensione utopica da cui la vicenda del jazz è venata, che è tensione alla liberazione non solo dalla discriminazione razziale, dall’oppressione politico-economica e dalle costrizioni sociali, ma – come dice Baraka – anche dai limiti dell’esistenza umana, dalla morte, come nella transe e nella possessione.
Il libro di Zenni ha il merito di toccare questioni poco trattate (come anche il passing) e di offrire numerosi spunti di discussione: c’è dentro molto, e forse troppo. E nelle ultime pagine Zenni si spinge a ipotizzare la musica creata dagli afroamericani come una sorta di modello politico: “la musica degli africano americani è l’eccezionale dono che gli ex schiavi hanno fatto al mondo. Il dono di una musica che è resistenza e apertura, voce individuale e inclusione collettiva, opposizione all’egemonia e mano tesa verso l’altro. Per accogliere e apprezzare quel dono, perché tutti ne usufruiscano nel migliore dei modi e costruiscano la propria libertà espressiva, è necessario fare pulizia delle incrostazioni ideologiche e mitiche (…)”. Ma in effetti quello che “politicamente” fa la differenza sono i fatti e i valori estetici. E se, per stare all’Europa, di incrostazione non si vedono in realtà grandi tracce, abbonda una generica, modesta democraticità del jazz che produce musica confermativa, consolatoria, compiacente, dunque già di per sé artisticamente scadente. Oltre che di colori della musica bisognerebbe forse cominciare a discutere anche di questo pallore estetico.
[Luigi Onori, Flavio Massarutto, Marcello Lorrai 21/09/2016]
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