Un figlio ammazzato senza ragione, più per stupidità che per
crudeltà. Un genitore che decide di farsi giustizia da solo. È uno
schema noto, quasi un archetipo: rappresenta quindi la sfida più
rischiosa. Ricalcare il modello sembra semplice. Impadronirsene
riempiendolo di un contenuto personale e inedito, capace tittavia di
reggere la forza implicita nell’archetipo stesso,è un impresa. Anche per
questo Le Lupe, il primo romanzo di Flavia Perina, giornalista
ed ex parlamentare (Baldini&Castoldi, pp. 194, euro 15) è un libro
coraggioso.
Flaminia, la protagonista, è una signora di mezza età con una vita come tante: anonima e felice. Fa l’agente immobiliare. Vive a Roma Nord, la parte ricca o ricchetta della Capitale. Ha due figli belli e contenti, il più grande diciottenne, buon giocatore di rugby, la minore ancora un’adolescente. Non sembrano aver risentito troppo del divorzio dei genitori e poi della morte del padre. Se Flaminia dovesse trarre un bilancio, sarebbe in netto attivo.
Tutto va in pezzi in un attimo per una catena di coincidenze, come spesso succede nelle morti assurde. Il ragazzo, Carlo, esce nella notte per comprare le sigarette. Pesca alla cieca un casco dalla camera della sorella e il destino vuole che sia dipinto in giallo e rosso. Intorno allo stadio ci sono appena stati scontri con i tifosi, i poliziotti hanno ancora voglia di menare le mani: quando vedono il casco coi colori della Magica fanno due più due e nel gruppo in divisa ce n’è uno che va giù troppo pesante. Carlo, che non è nemmeno tifoso, muore così.
Anche questo sembra una specie di archetipo letterario, ma questa non è narrativa: è cronaca. Carlo Livi muore nel romanzo di Flavia Perina esattamente come sono morte in questi anni troppe persone nelle strade, nei commissariati o nelle prigioni italiane. Senza intenzioni omicide. Per una botta troppo forte o per una presa troppo stretta. Per essersi dimenati troppo al momento del fermo o per aver disturbato strillando dalla cella.
Anche l’agente omicida è un figura nota: è come se l’avessimo già visto ogni volta che si sono ripetute atrocità di questo genere. Non è un sadico né un torturatore: è solo tronfio e vanesio, incapace di comprendere le conseguenze delle proprie azioni, certo non solo di restare impunito ma di avere tutto il diritto di restarlo: non si deve forse anche a lui la sicurezza di tutti? È il male esposto nel suo versante più ottuso e quotidiano, nella sua desolante stupidità.
La cronaca e la denuncia finiscono qui. Perché la tragedia non solo strazia la protagonista: la spinge a revocare in dubbio tutte le sue scelte, l’intera sua esistenza adulta. La morte del figlio apre nell’animo di Flaminia una porta segreta dalla quale rientra la se stessa del lontano passato, quella degli anni che per convenzione si dicono di piombo. Se la protagonista adulta ricorda l’autrice, in quella giovane l’aspetto autobiografico rasenta l’assoluta coincidenza. Come Flavia Perina, Flaminia è stata una militante di estrema destra. È stata in prigione per uno scontro di piazza. Ha pianto i suoi camerati uccisi e covato propositi di vendetta che nella destra di allora occupavano una postazione molto più centrale di quanto non avvenisse dall’altra parte della barricata: «La vendetta è sacra» era un atto di fede.
Flaminia vuole vendetta e sa che non avrà neppure giustizia. La pulsione che riscopre e che nega in radice tutto quel che è diventata nel corso dei decenni è barbara e ancestrale, in qualche modo strettamente femminile: la furia delle madri a cui è stato strappato il figlio. Infatti non si rivolge agli antichi camerati ma alle amiche di allora, in forza di un vincolo che va oltre la politica e forse anche oltre l’amicizia, per cercare l’arma, imparare a usarla, studiare l’appostamento. Le Lupe, già dal titolo, è una storia di donne.
C’è un momento preciso della propria vita, un bivio, che Flaminia rivede e sul quale si interroga: quello in cui, a differenza di una delle antiche amiche di cui cerca ora l’aiuto per la sua vendetta, aveva scelto di non prendere le armi. La politica non c’entra, su quel fronte Flaminia non ha rimpianti. Però ora vede il mondo, la sua vita, il matrimonio, la famiglia, con gli occhi di quell’intrusa riportata in superficie dalla tragedia, e ne scopre la futilità e il vuoto. È un mondo fatto a misura di Mascio, il poliziotto vanitoso e soddisfatto che le ha ammazzato il figlio.
Proprio perché in ballo ci sono emozioni che vengono prima e sono più profonde della politica, la specifica appartenenza della giovane Flaminia è in realtà del tutto secondaria. Forse non è determinante neanche il pur molto marcato aspetto generazionale: però sullo sfondo della tragedia privata di Flaminia campeggia il desolato fallimento della sua generazione.
[Andrea Colombo 27/09/2016]
Flaminia, la protagonista, è una signora di mezza età con una vita come tante: anonima e felice. Fa l’agente immobiliare. Vive a Roma Nord, la parte ricca o ricchetta della Capitale. Ha due figli belli e contenti, il più grande diciottenne, buon giocatore di rugby, la minore ancora un’adolescente. Non sembrano aver risentito troppo del divorzio dei genitori e poi della morte del padre. Se Flaminia dovesse trarre un bilancio, sarebbe in netto attivo.
Tutto va in pezzi in un attimo per una catena di coincidenze, come spesso succede nelle morti assurde. Il ragazzo, Carlo, esce nella notte per comprare le sigarette. Pesca alla cieca un casco dalla camera della sorella e il destino vuole che sia dipinto in giallo e rosso. Intorno allo stadio ci sono appena stati scontri con i tifosi, i poliziotti hanno ancora voglia di menare le mani: quando vedono il casco coi colori della Magica fanno due più due e nel gruppo in divisa ce n’è uno che va giù troppo pesante. Carlo, che non è nemmeno tifoso, muore così.
Anche questo sembra una specie di archetipo letterario, ma questa non è narrativa: è cronaca. Carlo Livi muore nel romanzo di Flavia Perina esattamente come sono morte in questi anni troppe persone nelle strade, nei commissariati o nelle prigioni italiane. Senza intenzioni omicide. Per una botta troppo forte o per una presa troppo stretta. Per essersi dimenati troppo al momento del fermo o per aver disturbato strillando dalla cella.
Anche l’agente omicida è un figura nota: è come se l’avessimo già visto ogni volta che si sono ripetute atrocità di questo genere. Non è un sadico né un torturatore: è solo tronfio e vanesio, incapace di comprendere le conseguenze delle proprie azioni, certo non solo di restare impunito ma di avere tutto il diritto di restarlo: non si deve forse anche a lui la sicurezza di tutti? È il male esposto nel suo versante più ottuso e quotidiano, nella sua desolante stupidità.
La cronaca e la denuncia finiscono qui. Perché la tragedia non solo strazia la protagonista: la spinge a revocare in dubbio tutte le sue scelte, l’intera sua esistenza adulta. La morte del figlio apre nell’animo di Flaminia una porta segreta dalla quale rientra la se stessa del lontano passato, quella degli anni che per convenzione si dicono di piombo. Se la protagonista adulta ricorda l’autrice, in quella giovane l’aspetto autobiografico rasenta l’assoluta coincidenza. Come Flavia Perina, Flaminia è stata una militante di estrema destra. È stata in prigione per uno scontro di piazza. Ha pianto i suoi camerati uccisi e covato propositi di vendetta che nella destra di allora occupavano una postazione molto più centrale di quanto non avvenisse dall’altra parte della barricata: «La vendetta è sacra» era un atto di fede.
Flaminia vuole vendetta e sa che non avrà neppure giustizia. La pulsione che riscopre e che nega in radice tutto quel che è diventata nel corso dei decenni è barbara e ancestrale, in qualche modo strettamente femminile: la furia delle madri a cui è stato strappato il figlio. Infatti non si rivolge agli antichi camerati ma alle amiche di allora, in forza di un vincolo che va oltre la politica e forse anche oltre l’amicizia, per cercare l’arma, imparare a usarla, studiare l’appostamento. Le Lupe, già dal titolo, è una storia di donne.
C’è un momento preciso della propria vita, un bivio, che Flaminia rivede e sul quale si interroga: quello in cui, a differenza di una delle antiche amiche di cui cerca ora l’aiuto per la sua vendetta, aveva scelto di non prendere le armi. La politica non c’entra, su quel fronte Flaminia non ha rimpianti. Però ora vede il mondo, la sua vita, il matrimonio, la famiglia, con gli occhi di quell’intrusa riportata in superficie dalla tragedia, e ne scopre la futilità e il vuoto. È un mondo fatto a misura di Mascio, il poliziotto vanitoso e soddisfatto che le ha ammazzato il figlio.
Proprio perché in ballo ci sono emozioni che vengono prima e sono più profonde della politica, la specifica appartenenza della giovane Flaminia è in realtà del tutto secondaria. Forse non è determinante neanche il pur molto marcato aspetto generazionale: però sullo sfondo della tragedia privata di Flaminia campeggia il desolato fallimento della sua generazione.
[Andrea Colombo 27/09/2016]
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