Ormai ce ne siamo fatti una ragione: in quest’Europa a scartamento sempre più ridotto, la patria di John Stuart Mill, Jeremy Bentham, Winston Churchill e Peter Pan non vuole più starci. Anche prima che l’Ue diventasse una fallita Neverland che rischia essa stessa, come i profughi che tentano disperatamente di raggiungerla ogni giorno, di essere inghiottita dal mare, l’Inghilterra – parte per un tutto, il Regno Unito, che si sta a sua volta sfaldando – vi teneva un piede dentro e uno fuori, cosa ovvia per un paese che ha sempre visto il continente con un misto di diffidenza, condiscendenza e curiosità.
Nebbia nel canale
Anzi, è diventata «Everland», l’isola (sono varie, ma per comodità useremo il singolare) che c’è perché c’è sempre stata: per se stessa, fuori e possibilmente lontano dall’idea oggi agonizzante d’Europa. Che il meno europeo dei paesi d’Europa abbia fatto questa scelta è perfettamente in linea con l’utilitarismo e il particolarismo nazionali, stigmatizzati già trecento anni fa dall’universalista Napoleone Bonaparte, che affibbiò agli inglesi l’etichetta di «nazione di bottegai» senza peraltro rendersi conto che, da Calais in su, l’epiteto suonasse come un complimento. Darwin l’evoluzionista avrebbe orgogliosamente approvato la Brexit. Nei giorni pre e post-referendum, dello splendido isolamento si è parlato a iosa, il famoso detto «nebbia nel canale» è stato citato con insistenza, come anche l’atlantismo e la special relationship con gli Usa. Ma qui non è solo la destra piccolo-grande borghese, quella che ha sempre parlato dei vicini europei come «Europeans» quasi a volersene distinguere, che gioisce.L’invenzione del privato
Un luogo che non potrebbe far parte di un tutto nemmeno volendo e che dunque ha cercato di controllarlo e dominarlo, riuscendoci per un lungo tempo della propria storia. E che, mentre l’Europa stessa prende dolorosamente atto del proprio scivolamento nella subalternità, non accetta la sentenza di declino che il terzo millennio gli pone innanzi. Piuttosto, taglia i ponti con il continente di cui è stata tiepida partner fin dalla seconda guerra mondiale per vedere se il vecchio timone imperial/istico, basato su traffici e commerci e un tempo garantito dal dominio del mare è ancora adatto a mantenere la rotta in acque terribilmente cambiate. Il paradosso è che a non sentirsi europea è in realtà una super-Europa, che meglio del resto del continente ha mantenuto i suoi privilegi, ci si è associata in un’epoca economicamente torbida (gli anni ’70) e ora toglie il disturbo.Forse basta un piccolo e semiserio tour de force per sorvolare alcune tra le peculiarità culturali e non di questa nazione che produce utopie sociali per poi sforzarsi di confermarne l’irrealizzabilità (basti pensare a Tommaso Moro, Robert Owen, William Morris). Un luogo che ha «inventato» la proprietà privata (le enclosures, nel Settecento), l’agricoltura e l’industria moderne, ha prodotto la Magna carta, per poi comodamente evitare di mettere nero su bianco le regole costituzionali; un luogo che con Enrico VIII ha privatizzato la chiesa a fini privati, e ancora oggi si porta dietro l’odioso, ridicolo e feudale gravame della monarchia, opportunamente tramutato in «azienda». Che ha considerato il mare il proprio mercato, ha conquistato continenti immensi colonizzandoli con lo stesso «buon senso» di quegli altri grandi mercanti imperialisti, i Romani. Tutto nel nome del buon senso empirico-pragmatico del commerciante, abituato a decidere su quanto il mercato gli propone al momento e dunque è antidogmatico, perché sa bene che le condizioni attuali per una transazione potrebbero cambiare.
Con l’avversario di oggi si potrebbero fare affari domani, ed è in quest’utilitarismo dei Mills e Bentham avversari di Marx che in filosofia si annida l’ostilità per le grandi narrazioni. Marx era occhiutamente tollerato nella stamberga di Soho, quando poco meno di un secolo dopo a pensatori continentali liberal-inegualitari in fuga dai totalitarismi come Hayek, Popper e Berlin si srotolavano passatoie e si spalancava Oxbridge.
Immobilità sociale in note
È forte la tentazione di leggere questa mancanza di afflato per il cambiamento, la feticizzazione statale del passato e un’ostilità fisiologica all’idea rivoluzionaria nell’evidenza empirica di un sistema che, modernizzandosi industrialmente ben prima del resto d’Europa, ha resistito a rivoluzioni e invasioni, ha scongiurato i totalitarismi (moderni) annacquando il proprio (antico). Che non è mai stato conquistato e dove le aziende sono amate come i monumenti (la fine dei vetusti grandi magazzini Woolworths ha suscitato un’ondata di commozione, e non certo per i posti di lavoro persi).
In sostanza, un sistema che tiene per secoli, comprese due guerre mondiali si tiene: «If it ain’t broken, don’t fix it», se non è rotto non aggiustarlo, recita un detto popolare. Questo aiuta a capire paradossi politici altrimenti assurdi, come un socialismo nazionale: monarchico, imperialista, filonucleare. Forse anche per questo l’isola è sempre stata una scuola gigantesca di dominio: nessun altro ha saputo eticizzare ed estetizzare altrettanto bene la diseguaglianza.
[Leonardo Clausi 14/08/2016]
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