ADDII. Scompare una scrittrice che aveva fatto del giardino
e del colloquio con la natura le sue sponde, letterarie ed
esistenziali. Giardiniera lei stessa, ha reso il tratto di campagna
lucchese dove abitava da 15 anni, un angolo di ineguagliabile bellezza.
Il suo ultimo romanzo, pubblicato per Ponte alle grazie, è «Al giardino
ancora non l'ho detto»
Se le grandi cose si acquattano
dentro, non dette, sono invece quelle piccole a mostrarsi dicibili.
Preziose e parlanti, spesso rimandano al senso pensante di un disarmo
quotidiano a cui non solo si è esposti ma che si sceglie. Così, la
condizione umana marcata inestricabilmente dalla finitudine, la prova di
una malattia da cui non si può tornare indietro, raccontano la
scomparsa di una scintillante scrittrice come Pia Pera, morta all’età di
60 anni che ha consegnato parole stupefacenti sul senso di affollamento
silenzioso di un cosmo magnifico. Il proprio singolare stare
all’interno è invece il disarmo, il significato di una contrattazione
generosa che va interrogata ogni giorno.
Emerge questo, e molto altro,
nella rappresentazione del corpo e del suo orientamento, fra le pagine
del suo ultimo romanzo, Al giardino ancora non l’ho detto (recensito da Emanuele Trevi su Alias). Da
Vita Sackville-West a Gilles Clément, da Etty Hillesum a Cristina
Campo, sono molte le vette e gli accostamenti da segnalare, non solo in
questa ultima composizione di Pia Pera a cui, tra gli altri,
va il
merito di aver tradotto Puskin e Lermontov, di aver dato voce nel Diario di Lo (1995) alla protagonista del romanzo di Nabokov. E poi ancora La bellezza dell’asino (1992),
L’orto di un perdigiorno (2003) e Il giardino che vorrei (2015).
Tuttavia, la mappa che fino a poco tempo
fa raccontava la prodigalità della fioritura, la dedizione e la cura di
quello straordinario scorcio della campagna lucchese alle pendici del
Monte Pisano dove aveva deciso di vivere da 15 anni a questa parte,
percorre ancora una volta la grazia per segnare questa volta il dritto e
il rovescio. Cosa ne sarà di quel giardino così amato, di quella parola
di cura a tratti insostenibile, tanta la bellezza che la abita? Di luce
aurorale era dotata Pia Pera, non solo nel sorriso ma nell’aver
individuato nel giardino il luogo elettivo di espansione soggettiva,
della propria scrittura, riuscendo nell’impresa di tessere tumulti di
foglie, petali, rami, steli e amore per la libertà sia per sé che per la
natura con cui colloquiava; un dialogo raro, nella lingua della
pratolina di Emily Dickinson udibile e codificabile da poche creature di
questo mondo. È proprio nell’intercettare quella «umile Massaia in
mezzo all’erba», strappata dal verde, che la devozione della scrittrice è
stata massima, semplice e acuminata.
E se è vero che le cose grandi si
acquattano in quelle piccole, è allora in questo modo che una dispensa
colma, dedicata alla gioia dell’abbondanza, ribaltata un giorno nel suo
contrario, non può che essere ragione di ulteriori nascondigli di
ristoro e chiarore. E di fiori che vengono in dono, come quelli di
rosselliana memoria, per poi dilatarsi. Arriviamo così a conoscenza che
«la leggerezza interiore nasce forse dal sentirmi libera dalla zavorra
terribile del futuro, indifferente al cruccio del passato. Immersa
nell’attimo presente, come prima mai era accaduto, faccio finalmente
parte del giardino, di quel mondo fluttuante di trasformazioni
continue». E quando il corpo diviene traccia di peregrinazioni così
lucide, mai si trova il senso di una solitudine senza scampo. La
saggezza della terra sappia abbracciare chi l’ha cantata da regina.
[Alessandra Pigliaru 28/07/2016]
[Alessandra Pigliaru 28/07/2016]
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