Sull'ultimo numero dell'Espresso
c'è una bella intervista alla poetessa svizzero tedesca Mariella
Mehr in occasione della pubblicazione nella collana bianca dell'Einaudi
di una antologia delle sue poesie. Quasi
nello stesso periodo la città di Berna le ha concesso un vitalizio "per
permetterle di continuare a scrivere" ( la Mehr è oggi considerata una
delle voci più alte della poesia tedesca degli ultimi cent'anni).
Al di là della scoperta di una
nuova autrice la cosa è interessante perché la Mehr è una zingara Rom.
Una Rom che venne strappata
bambina alla sua famiglia e affidata ad
una famiglia svizzera che la educasse al "decoro" locale. ( carini
gli Svizzeri non pasticcioni e corrotti come noi ).
La sua poesia non tratta però di
questi temi su cui lei ha scritto una autobiografia (edita in Italia da
Effigie). Parla in modo, per così dire,
assoluto del dolore e della morte ( e curiosamente della paura dei lupi)
tanto da essere stata paragonata a Paul Celan e a Sylvia Plath.
Peraltro - lei spiega
nell'intervista - il suo legame particolare con Celan risale
all'adolescenza ed è dovuto sia al fatto
che è anche lei, in parte, di origine ebraica sia dalla lettura
adolescenziale del poeta ebreo tedesco , consigliatole dal suo compagno di
allora (di trent'anni più vecchio di lei),
che era a sua volta ebreo e reduce da Dachau. Insomma una che non si è
fatta mancar niente. La raccolta si intitola "Ognuno incatenato alla sua
ora".
Mariella dice molte cose
interessanti nell'intervista e ricorda il fatto che i Rom hanno portato in
Europa gran parte della cultura indiana. La musica dei Rom, ad esempio, viene dall'India.
Già la musica.
Nel numero di Musica jazz di
novembre, in occasione della pubblicazione di un cofanetto di 10 CD con
l'integrale delle incisioni in studio, c'è un lungo saggio su uno dei grandi
musicisti del '900: il chitarrista belga e zingaro sinti Django Rehinardt.
L'artista che ha rivoluzionato, anche prima degli americani, l'improvvisazione
chitarristica e ha per primo indicato
una sorta di "via europea" al Jazz. E Django, anche se magari non lo
sapete, lo conoscete tutti. Sia lui che il cosiddetto jazz manouche (assai di
moda anche a Rovigo) sono imprescindibili per qualunque colonna sonora che voglia evocare la Parigi
degli anni tra il 30 e il 40. Anche se, secondo qualcuno, Django è, ancor di
più, il perfetto evocatore della Roma liberata dai fascisti (mica vero, come
stiamo imparando in questi giorni e come da tempo hanno imparato, tra gli
altri, propri gli zingari di Roma) e festante del 1949.
Se, a forza di sentirmene blaterare, vi è venuta una qualche curiosità
per il Jazz vi consiglio un bel libro che:
a) potrebbe essere una buona
guida ad una prima discografia di base (ma anche a qualche ascolto su you
tube);
b) è, comunque, divertente e
bello da vedere e da leggere perché tra un jazz e l'altro parla anche di tutto un po'.
Si tratta di "Ritratti in jazz" di Murakami
Haruki. Il libro è composto da
cinquantacinque schede che, a partire dal ritratto di un musicista dipinto
dall'artista Wada Makoto, commentano un disco storico. Ogni scheda, nelle mani
di Murakami, diventa un piccolo racconto, un frammento di memoria
autobiografica o il fulmineo ritratto di un artista, di un'epoca.
La cosa buffa è che Wada Makoto
ha scoperto il jazz da adolescente nello stesso modo in cui l'ho scoperto io,
vedendo il film "Venere e il professore" di Howard Hawks con, ahime,
Danny Kaye ma anche con Louis Armstrong,
Benny Goodman, Lionel Hampton ecc. ecc. E, inoltre, io ho fatto anche il giro
al contrario. Ho scoperto Murakami (e naturalmente Makoto che è un grande
disegnatore) leggendo il libro in questione.
In ogni caso uno dei ritratti più
belli del libro è proprio quello di Django di cui viene ricordata una incisione
dal vivo, con il violinista Stephane
Grappelli, fatta da un amatore in un club di Roma nel 1949. E questo, questo
swing è, per il giapponese Murakami, la
colonna sonora dell'Europa felice e piena di aspettative del dopoguerra. Il CD
è intitolato "Djangology".
Restiamo in una Europa ancora più
felice, quella degli anni prima della crisi del '29, anzi precisamente del 1928
, prima a Berlino, in un kabarett, dove appare Ute Lemper travestita da Marlene
Dietrich, poi in Costa Azzurra accompagnati da "Do you something to me
" di Cole Porter. Parlo del già ricordato "Magic in the
Moonlight" ultimo film di Woody Allen che è quasi impalpabile ma molto,
molto carino. Sembra di vedere una nuvola.
Peraltro per Woody, che ha
scritto le note di copertina di una delle sue tante antologie, Django è stato il chitarrista più grande di tutti i
tempi. E gli ha pure dedicato, anche se indirettamente , uno dei suoi film più
belli degli anni '90 "Accordi e disaccordi".
Django divenne famoso con un
gruppo, le Quintet dell'hot club de France, di soli strumenti a corda a Parigi
negli anni '30 ma, come dicevo, era un sinti nato in Belgio.
Jazz e Belgio, quindi? Ma naturalmente.
La settimana scorsa su Il
Manifesto è uscito un lungo articolo accompagnato da una altrettanto lunga
intervista al cantante belga David Linx che recensiva un CD dell'anno scorso
intitolato "A Different Porgy & Another Bess" . Si tratta di una
rilettura per due voci e orchestra jazz dell'immortale opera di George e Ira
Gershwin "Porgy and Bess".
Sarebbe tutto molto lungo da
spiegare. Mi limito a dire che l'opera - uno dei vertici del teatro musicale
del '900 - al di là del valore musicale indiscutibile è sempre stata,
giustamente, accusata, pur avendo un cast tutto di neri, di razzismo, per la quantità di cliché, a
partire dall'americano messo loro in bocca (tipo "badrone" per
capirci), con cui i neri sono raccontati.
La cosa interessante è che,
nonostante questo, è stata fatta, in qualche modo propria anche dagli artisti
di colore e dai jazzisti. Cito per tutte le versioni degli anni '50, quella di Miles Davis e Gil Evans (solo strumentale)
e quella, anche cantata, di Louis Armstrong e Ella Fitzgerald.
L'operazione che fa David Linx è
quella di un aggiornamento dei testi delle canzoni, riportate ad un americano
corretto, una accentuazione della drammaticità della storia, anche attraverso
l’interpretazione vocale e un nuovo arrangiamento della parte musicale con l'inserimento di
ritmiche moderne, a tratti funky in
alcuni passaggi, e l'uso di strumenti anche elettrici. L'operazione è
pienamente riuscita, l'opera ci appare
come rinfrescata.
Ma la cosa che più mi ha colpito è
la storia di Linx che racconta
nell’intervista la sua
"legittimazione" ad intervenire.
Linx è figlio di un operaio belga
ed è nato in una famiglia assai modesta
piena di fratelli e sorelle. Un bel momento che fa, però, il padre?
Pianta il lavoro e fonda la Maison du Jazz belga e il piccolo David cresce
sulle ginocchia del fior fiore dei jazzisti afroamericani di passaggio per
Bruxelles. A ciò va aggiunto che a 18
anni va a vivere a Parigi, fino alla morte di lui, con il grande scrittore afroamerciano espatriato (comunista e
omosessuale) James Baldwin anche lui un fecondo grumo di contraddizioni,
conoscitore finissimo della cultura, soprattutto poetica, bianca americana e
non solo.
Proprio dalle discussioni con
Baldwin e Miles Davis gli nasce l’idea di una rilettura “corretta” di “Porgy and
Bess”
David Linx è belga e fa Porgy. E
Bess? La interpreta una cantante portoghese, una delle grandi voci del jazz di oggi, Maria Joao. L'orchestra è la
Brussels Jazz Orchestra. La globalizzazione, ogni tanto, mi piace molto.
Last but non least la copertina
del CD, che è bellissima. Devo dire che,
anche riportata in bianco e nero sul giornale, è la prima cosa che mi ha
attratto. Eccola qui, a colori
Ci sono, credo per tutti, delle affinità elettive, delle passioni
immediate e indiscutibili e non spiegabili, delle sintonie misteriose. Io, se ho
incominciato ad apprezzare la fotografia, a studiarla e un po' anche a farla è
per l'ammirazione incondizionata, la sintonia immediata, con le immagini (a
cui, sia chiaro non mi sono mai nemmeno una volta anche lontanamente
avvicinato) di uno dei grandi fotografi del '900 che conobbi, assolutamente per
caso, per merito di una piccola e
perfetta mostra organizzata ai tempi del (mio) liceo dall'Accademia dei
Concordi.
Parlo di Werner Bischof, l’autore
della foto del CD, fotografo svizzero
nato nel 1916 e morto in un incidente automobilistico sulle Ande nel 1954.
Bischof che aveva iniziato, ed era già famoso, come fotografo di moda e
pubblicità in Svizzera, subito dopo la II guerra mondiale, sconvolto dalle
immagini fotografiche della guerra, si
dedicò integralmente al reportage giornalistico per Life illustrando il
dopoguerra in Europa: Francia,
Germania, Italia, Polonia, Ungheria,
Inghilterra. Subito dopo la
decolonizzazione in India , in Cina, in Corea, nel Sud Est asiatico. Poi il
Giappone e, dopo una lunga preparazione, intraprese un viaggio nelle Americhe. A Nord,
New York, la foto che sto commentando è stata fatta a New York nel 1953 e si
intitola “Canyon stradale”, Chicago, San Francisco e poi a Sud, Messico e Perù dove ebbe l'incidente.
Non c'è lo spazio per parlarne
più a lungo ma, insomma, diciamo che quello che mi colpì allora e ha sempre
continuato a colpirmi è l'estrema pulizia ed eleganza delle immagini, la
mancanza di ogni effettismo, unite ad un evidente amore per l'uomo (a tutte le
età. Sono straordinari i suoi ritratti di bambini di tutti i paesi che ha
visitato), ad una immediata empatia, sia
nei momenti più tragici che in quelli più sereni. Unita ad una passione per il paesaggio, sia naturale
che urbano, anch'esso in qualche modo sempre visto in una sorta di armonia con
l'umanità. Un grande umanista e, lo capiamo meglio oggi, un grande utopista.
Forse da quest'altra fotografia, fatta A Cuzco, che è la sua più famosa e una delle ultime, si riesce a capire ancora meglio quello che voglio dire
Forse da quest'altra fotografia, fatta A Cuzco, che è la sua più famosa e una delle ultime, si riesce a capire ancora meglio quello che voglio dire
La grande sorpresa, che ho
appreso indirettamente dal Cd, è che,
oltre che un maestro del bianco e nero come tutti fotografi della sua
generazione, è stato anche un grande maestro del colore. Mantenendo anche a
colori le stesse caratteristiche di eleganza e di meraviglia di fronte alla
bellezza, comunque, del mondo e della vita. E alla capacità, della bellezza, di manifestarsi – il senso dell’epifania - anche nelle situazioni più impensate.
Per chiudere un consiglio. Se vi
piacciono le fotografie andate a cercarle in rete, ad esempio nel sito
dell’Agenzia Magnum (di cui Bishop fu uno dei fondatori) dove sono riprodotte
in dimensioni più giuste.
Poi due considerazioni. Due
grandi artisti svizzeri che mi fanno venire in mente in aggiunta Paul Klee,
Giacometti, il dadismo, Hans Arp e la battuta di Orson Welles- Harry Lime sul
fatto che gli svizzeri in 500 anni di storia hanno creato solo gli orologi a
cucù. Anche i geni a volte sparano cazzate.
Seconda considerazione. Siamo
passati dalla Svizzera alla Svizzera passando per: Parigi, la Costa azzurra,
Kioto, Roma, il Belgio, Broadway, Harlem
e Lisbona. Che meraviglia, a volte, la globalizzazione, e la gente e anche
internet. In fondo questo di/vagare è la grande lezione degli Zingari.
Buona settimana.
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