lunedì 23 giugno 2025

Conferma!

 

A conferma del valore di Percival Everett, che vi ho consigliato di leggere qualche tempo fa, leggete questa intervista intelligente e divertente pubblicata su RIVISTASTUDIO. Enjoy! (E se non lo avete ancora fatto, leggete JAMES, o qualunque altro libro di Everett, non ve ne pentirete.)

Secondo Percival Everett arte e politica sono la stessa cosa

A Milano per la prima mostra dedicata ai suoi quadri, lo scrittore ci ha parlato di James, il romanzo con il quale ha vinto il Pulitzer, della prosa di Mark Twain e del perché Wittgenstein è uno stronzo.

di Francesco Gerardi

17 Giugno 2025

 

Percival Everett è un uomo paziente. Lo so con certezza perché l’intervista che state per leggere me l’ha concessa nonostante un viaggio infernale dagli Stati Uniti all’Italia. «Dovevo partire da Atlanta, ma a causa del maltempo il mio volo ha accumulato tre ore di ritardo. Sono arrivato a New York e ovviamente l’aereo che avrei dovuto prendere per Milano era partito da un pezzo». Avrebbe dovuto essere a Milano, ospite della Milanesiana, ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi, la mattina di mercoledì 11 giugno, è arrivato 48 ore dopo. Appena sceso dall’aereo è salito in macchina e ha raggiunto la Galleria Carlocinque (dove per la prima volta vengono esposti i suoi quadri, nella mostra Logica predicativa) perché aveva un’intervista da fare, l’impegno era preso e ha insistito per non rimandarlo al giorno successivo. Ha avuto anche la pazienza di stare ad ascoltarmi mentre gli descrivevo Rivista Studio. «Parliamo di tutto ciò che c’è di interessante», gli ho detto. «E allora perché sei qui a intervistare me», mi ha risposto lui.

ⓢ James (pubblicato in Italia dalla Nave di Teseo) è stato uno dei libri più discussi del 2024, dopo la vittoria del Pulitzer per la narrativa, se possibile, se ne è parlato ancora di più di prima. A che punto uno scrittore non ne può più di parlare del suo romanzo?
Beh… Io non ne posso proprio più. Non fraintendermi, sono contento che questo libro faccia parte di questo mondo, che le persone ne parlino. Però sono stanco di parlarne io, ecco. Anche perché ne parlo sempre con i giornalisti e parlare con i giornalisti è strano. Per qualche motivo, i giornalisti sono convinti che a me non piaccia parlare con loro, sai?

ⓢ E come mai ne sono convinti?
Forse perché sono il tipo di persona che nelle interviste tendenzialmente risponde alle domande con un sì o con un no.

ⓢ Questa sarà una di quelle interviste?
E che ne so io, dipende da te. Basta non fare le domande sbagliate.

ⓢ Ottimo. Che rapporto ha con i premi? Del Pulitzer abbiamo detto, ma James ha vinto anche il National Book Award ed è stato uno dei cinque finalisti dell’International Booker Prize. Ci tiene, ai premi?
No, perché sono stronzate. Voglio dire, fa piacere essere candidati, fa piacere vincere, farebbe piacere ricevere un premio alla settimana, figurati. Ma non è che il mondo diventi un posto migliore se io vinco un premio in più. Non è una cosa alla quale penso mentre scrivo, non ci ho mai pensato, neanche all’inizio della mia carriera. Non ho mai costruito neanche un vero e proprio rapporto con la fama, a essere onesto. In questo mi ha aiutato anche il fatto di non aver mai letto nessuna recensione di nessuno dei miei libri. E, più recentemente, mi ha aiutato anche il fatto di non aver mai messo piede sui social.

ⓢ Non usa i social? Perché?
Perché è un brutto quartiere e io ho imparato da piccolo che nei brutti quartieri le persone intelligenti non ci mettono piede. Anche quando ho considerato la possibilità di aprire un canale social mi sono sempre chiesto “ma cos’è che avresti da dire?” e ho lasciato perdere.

ⓢ Non crede di perdersi un pezzo del dibattito pubblico, così?
Non aprendomi un profilo Instagram? No, non lo credo. Senza offendere nessuno, diciamo che penso che le persone che passano molto tempo sui social non stiano contribuendo granché a nulla.

ⓢ E le recensioni? Davvero non le legge?
Non le leggo perché le scrivevo, quindi so come funzionano le recensioni. Mi piace leggere le stroncature, quelle davvero cattive, ma ormai nessuno sa più scrivere una stroncatura davvero cattiva. E anche chi è capace di farlo decide di non farlo per motivi che conosco benissimo perché, ripeto, anche io scrivevo recensioni. Tutti si cagano sotto.

ⓢ Lei ha detto che James non è una riscrittura di Huckleberry Finn ma una conversazione con Mark Twain. Cosa intende?
So che questo libro è stato definito come una sorta di correzione di Huck Finn. Io non ho mai avuto alcuna intenzione di correggere niente e nessuno. Con James, la mia intenzione era scrivere il romanzo che Twain non ha potuto scrivere perché non ne aveva gli strumenti. Non poteva occupare lo spazio psichico e culturale del personaggio Jim, non poteva farlo in un modo sufficiente e sufficientemente giusto da renderlo un vero personaggio. D’altronde, Twain voleva scrivere un altro libro, raccontare un altro personaggio: un ragazzino bianco, quindi libero. Non aveva mai sofferto l’oppressione, Twain. Era bianco, che oppressione avrebbe potuto subire? Ma la questione non è soltanto una di autenticità o di esperienza. Twain, che pure era un uomo colto, soprattutto per la sua epoca, perpetuava tanti degli stereotipi razzisti del periodo. Il suo Jim è un sempliciotto superstizioso perché Twain, senza nulla togliergli, è così che era stato “addestrato” a pensare i neri, è così che li vedeva. Questa rappresentazione degli schiavi persiste ancora oggi. Quello che mi sono chiesto quando ho iniziato a scrivere James è stato “è davvero possibile che gli schiavi fossero tutti così?”. Parliamo di milioni di esseri umani e quindi di una vasta gamma di pensieri ed esperienze, molte delle quali non hanno mai trovato rappresentazione. Il mio obiettivo era portare il lettore a pensare in maniera diversa agli schiavi. Cosa il lettore abbia poi effettivamente pensato non è un problema, io sono uno di quelli convinti che se uno legge davvero un libro non può produrne un’interpretazione sbagliata, al massimo una troppo personale. Ma anche la mia è un’interpretazione personale. Forse troppo.

ⓢ Le è mai sembrato che Huck Finn fosse offensivo? Per un afroamericano, soprattutto.
No, mai. Basta sapere in che anno è stato pubblicato e offendersi diventa impossibile.

ⓢ Ha mai pensato di provare la stessa operazione fatta con il Jim di Twain con un altro personaggio di un altro romanzo?
No, per carità. Tra l’altro, la mia operazione non ha tanto a che vedere con un personaggio ma con una questione, quella della razza, da sempre e per sempre centrale nella cultura, nella società, nella storia americana. Solo il Jim di Twain mi dava la possibilità di trattare questa questione in questa maniera, perché è stato il primo romanzo americano a raccontare la schiavitù non come un problema giuridico né come una lotta politica, ma come una condizione che migliaia di persone vivevano e affrontavano quotidianamente.

ⓢ Negli ultimi anni anche la classe è tornata centrale nel dibattito politico americano, però.
Negli Stati Uniti razza e classe sono la stessa questione.

ⓢ Torno un attimo a quello che diceva prima, sui lettori e l’interpretazione che danno dei libri. È per questo che sostiene, come ha detto in diverse interviste, che la lettura sia l’atto più sovversivo che un essere umano possa compiere? Per questa capacità di produrre “personalità”?
Assolutamente. La lettura è l’unico spazio davvero inviolabile che possediamo. Io e te possiamo metterci adesso, qui, a leggere le stesse parole, nello stesso momento. Quelle parole avranno su di me un effetto e su di te un altro, e nessuno di noi due avrà davvero mai modo di accedere allo spazio che la lettura ha creato nell’altro. Più che di produrre personalità, credo che la lettura, quindi per estensione la letteratura, ci aiuti a definirci come individui. Che è la ragione per la quale i fascisti, non appena arrivano al potere, una delle prime cose che fanno è vietare o bruciare i libri. Controllare un individuo è troppo difficile, un regime non può permettersi che la persona, attraverso la lettura, che è apprendimento, arrivi a essere un individuo. Altrimenti non riuscirà mai a controllarlo e il regime, semplicemente, non potrà mai costituirsi davvero. Per i fascismi non possono esistere spazi inviolabili, né fuori né soprattutto dentro la persona.

ⓢ È vera la storia secondo la quale lei ha letto e riletto Huck Finn quindici volte prima di iniziare a scrivere James? Perché lo ha fatto, a cosa le è servito?
Sì, certo che è vera. L’ho fatto perché volevo occupare quel mondo senza pensare alla prosa di Twain. È difficile da spiegare perché sono abbastanza sicuro che tu non abbia mai letto lo stesso libro per quindici volte di fila, per tua fortuna. Sai cosa succede quando leggi lo stesso testo così tante volte? Il mondo che racconta, è come se sfumasse, mi spiego? Ma non scompare, rimane lì, scompaiono tutti quei dettagli portati dalla prosa, dal linguaggio, ma restano le forme grezze, quelle sfumature, appunto, o strutture, se preferisci, che comunemente chiamiamo storia e personaggi. Io volevo arrivare proprio a questo punto, in modo tale da ritrovarmi nello stesso mondo di Twain, a raccontare la stessa storia, con gli stessi personaggi, ma libero dalla sua prosa, avendo io la possibilità di restituire a quelle sfumature una forma di nuovo definita, attraverso la mia prosa, il mio linguaggio. Certo, non ti nego che a un certo punto quel libro mi dava il voltastomaco, sono passati quasi tre anni e non l’ho mai più sfiorato.

ⓢ Ma perché era così importante liberarsi della prosa di Twain?
Perché il linguaggio può essere un elastico ma può essere anche un cappio.

ⓢ Visto che stiamo parlando di linguaggio, ne approfitto per farle la domanda su Wittgenstein. È vero che per lei la logica fu la passione giovanile? E che Wittgenstein era il suo idolo? E che studiare logica le ha insegnato a scrivere scene, come ha detto in passato?
Dunque. Nelle interviste io dico un sacco di cose e questa della logica che mi ha insegnato a scrivere per scene non me la ricordo. Però mi sembra una cosa intelligente, la userò da ora in poi, grazie per avermela ricordata. Per quanto riguarda la logica, sì, è stata una delle mie prime passioni, d’altronde all’inizio della mia carriera universitaria avevo deciso di studiare filosofia. La logica è stata probabilmente la prima disciplina alla quale mi sono dedicato con piglio accademico, almeno fino a quando ho letto il Tractatus logico-philosophicus. Libro incredibile, non fraintendermi. Ma leggendolo mi sono chiesto “ma chi mai leggerebbe una cosa del genere?” e ho capito che volevo scrivere cose che gli altri avrebbero letto, così mi sono convinto che il romanzo fosse il mezzo giusto per me. Per quanto riguarda la mia idolatria nei confronti di Wittgenstein, qui voglio essere molto chiaro: penso fosse un genio ma penso fosse soprattutto uno stronzo. Lo sai che trattava malissimo Bertrand Russell? Ecco, semmai, Russell è un mio idolo, e il modo in cui lo bullizzava è un’altra ragione per pensare che Wittgenstein fosse uno stronzo.

ⓢ Dopo aver deciso di fare lo scrittore, ha continuato a coltivare questa passione per la logica, per la filosofia?
Quando ho potuto, sì. Ho letto i classici e gli antichi, ovviamente. La logica, poi, per me ha quasi a che vedere con l’infanzia. Quando ero piccolo, mio padre mi leggeva la Logica simbolica di Lewis Carroll come storia della buonanotte, per farmi addormentare.

ⓢ Davvero? Suo padre le leggeva la Logica simbolica per farla addormentare da bambino?
Sì.

ⓢ E funzionava?
No.

ⓢ Bene. A proposito di bambini, lei ha detto che Huck Finn è la personificazione dell’innocenza americana. Cosa voleva dire con questa definizione, innocenza americana?
Ripensandoci adesso, forse avrei dovuto dire ingenuità americana, innocenza è una parola con una connotazione troppo morale. Quello che volevo dire è che Huck Finn rappresenta ciò che l’America crede, desidera essere quando si confronta con i dilemmi morali. Quando incontra Jim, Huck sa che Jim è proprietà privata di qualcun altro e che aiutarlo a scappare costituisce una violazione della legge, di ciò che è consentito. Ma Huck sa anche che Jim è un essere umano – e il lettore vede che quello schiavo è l’unica figura paterna che questo ragazzino abbandonato da tutti ha mai avuto – e che nessun essere umano dovrebbe subire quello che sta subendo Jim, perché questa è una violazione della giustizia, di ciò che è giusto. Per Huck è molto, molto difficile sciogliere questo nodo, così come lo è per gli americani, ancora oggi, distinguere tra ciò che è consentito e ciò che è giusto.

ⓢ Secondo lei questa innocenza, o ingenuità, se preferisce, esiste ancora nella cultura, nella morale americana contemporanea?
No. Credo la cultura americana sia ormai troppo improntata al profitto per perdere tempo con le questioni morali. Affrontare le questioni morali significa studiare, per studiare ci vuole tempo, fatica, e non c’è nessuna garanzia di ottenere soddisfazione. In più, studiare non è mai stata una via, sicuramente non è mai stata la via più breve, verso l’arricchimento. E un percorso esistenziale che non preveda l’arricchimento come fine ultimo e unico è oggi inaccettabile nella cultura americana. In parte, è anche così che si spiega la politica anti-intellettuale di Donald Trump, gli attacchi alle università e agli studenti. L’istruzione, lo studio in America non sono più visti come obiettivi, come cose da desiderare per i propri figli, come cose buone in sé e per sé, capisci? Oggi studiare in America ha senso al solo scopo di permetterti l’accesso a una carriera remunerativa nel futuro. Sembra retorica, lo so, ma l’istruzione ha dato i suoi frutti migliori quando era essa stessa il suo fine, non il mezzo attraverso il quale raggiungerne un altro. I libri vanno letti per le idee e le parole che contengono, e basta. Si impara per imparare, e basta.

ⓢ È per questo desiderio di imparare che lei ha fatto così tante cose diverse nella vita? Per 14 anni ha fatto il cowboy, poi ha imparato a coltivare le rose, dopodiché ha deciso di mettersi a suonare la chitarra e poi, guardando dei tutorial su YouTube, ha imparato a costruirsi la sua stessa chitarra.
Non la farei così complicata. Sono solo un tizio a cui piace fare le cose con le mani. E mi piace avere scuse per procrastinare il lavoro.

ⓢ Un’ultima domanda: visto tutto quello che mi ha detto, pur sapendo che, come tutti gli scrittori, lei detesta etichette e categorie, se la sente ancora di rifiutare quella di scrittore politico?
Ma figurati, io non mi definisco neanche scrittore, sono abbastanza presuntuoso per pensare di meritare la dicitura di artista. Ma, ecco, se c’è una cosa che ho sempre saputo è questa: arte e politica sono la stessa cosa.

lunedì 26 maggio 2025

Appunti dall'ultimo incontro: LE SETTE LUNE DI MAALI ALMEIDA, DI Shehan Karunatilaka

 Se cercavate un libro in cui l’autore vi prende per mano e vi aiuta gentilmente a esplorare il prodotto della sua immaginazione, allora questo libro non fa per voi. Karunatilaka ti abbandona subito nel caos e nei conflitti dello Sri Lanka e dei suoi morti. Se preferite un libro di cui alla fine siete sicuri di avere capito tutto, ancora, questo libro non fa per voi. Dovete essere pronti alla sorpresa e all’imprevedibile, ma una volta che avete assunto l’atteggiamento giusto, la storia vi prenderà e non vi mollerà più. Quindi, mi scuso con il gruppo se a qualcuno non è piaciuto, ma se l’avete abbandonato dopo un po’, vi consiglio di dare al romanzo almeno un’altra possibilità.

Una degli aspetti spiazzanti di questo romanzo è che si tratta di un Cross-genre novel, cioè un testo che mescola vari generi, romanzo storico, realismo magico, ghost story e whodunnit: infatti comincia come una specie di giallo, con il protagonista, morto da poco, che ha sette giorni di tempo per scoprire chi l’ha ucciso, come e perché. Ma la collocazione storica lo rende un romanzo profondamente politico: siamo alla fine degli anni ‘80, e la guerra civile in Sri Lanka va avanti almeno dall’83 e continuerà -ufficialmente- fino al 2009. I contendenti principali sono il governo Sinhala (Cingalese) e i ribelli separatisti Tamil (le Tigri), ma ci sono vari gruppi e varie posizioni politiche coinvolte.

Un elemento fondamentale è l’origine etnica: in Sri Lanka l’etnia più numerosa è quella Sinhala, poi ci sono i Tamil e i Burgher. Se le differenze fisiche non sono sempre evidenti, le etnie si classificano facilmente in base ai nomi, perché Sinhala e Tamil sono lingue molto diverse:il Sinhala è una lingua che appartiene al ceppo Indo-Ariano, anche se si è evoluto diversamente dall’Indù e dal Bengali per ragioni geografiche, mentre il Tamil appartiene al ceppo Dravidico. I Sinhala hanno dei cognomi riconoscibili, mentre i Tamil non hanno veri e propri nomi di famiglia, ma usano di solito il nome del padre come cognome. E poi ci sono i Burgher, un piccolo gruppo euroasiatico che discende dai colonizzatori, soprattutto Portoghesi (i primi ad arrivare all’inizio del ‘500 e a sposare donne Sinhala o Tamil)ed Ebrei Portoghesi, ma anche Olandesi e poi Britannici. Sotto il governo coloniale Britannico, i Burghers avevano una posizione importante nella vita sociale ed economica del paese, proprio per la loro componente europea.

Il protagonista incarna questa complicata situazione, partendo dal suo nome: lui usa Almeida, nome burgher portoghese di sua madre, che è mezza Tamil, ma il suo nome ufficiale è Kalabana, quello Sinhala del padre con cui non ha avuto contatti dall’adolescenza.In questo caso, la sua scelta è personale, non politica, ma le varie discussioni sul suo nome durante la storia lo sono eccome!

Maali stesso ribadisce più volte di essere Srilanchese e che tutti dovrebbero ritenersi tali, lasciando stare gli assurdi scontri etnici che, insieme alle differenze politiche, hanno rovinato il paese.(E qui si sente con precisione la voce dell’autore).

L’essenza politica di Maali è dichiarata da due elementi principali

1.       Karunatilaka si è ispirato per il suo personaggio alla figura storica di Richard de Zoysa, ucciso nel 1990. Era un attivista di Colombo, apparteneva alla borghesia, parlava inglese, era un gay non dichiarato e il suo omicidio non è mai stato risolto. Anche altri personaggi, sia dell’aldilà che del mondo dei vivi, sono riferimenti a persone reali, sia vittime che carnefici.

2.        Questa figura di partenza di de Zoysa si è poi evoluta in quella di un fotoreporter di guerra che lavora per le diverse fazioni: le Tigri Tamil, il governo, i marxisti JVP, ecc. In questo modo l’autore può presentare i vari aspetti della situazione politica del suo paese e allo stesso tempo fornire molti sospetti per l’omicidio di Maali Almeida.(Trattare la morte di un reporter è particolarmente significativa anche da questa parte del mondo in questo periodo, dalla Politokvskaja alla Roshchyna in Russia agli oltre 200 lavoratori dell’informazione morti a Gaza dall’inizio dell’invasione israeliana)

I take photos. I bear witness to crimes that no one else sees. I am needed.

Maali non vuole dimenticare nè essere dimenticato: soprattutto non vuole che il suo lavoro vada dimenticato, perché se dimentichi, niente cambia. Le sue foto sono il suo contributo di testimonianza per il suo paese, e non vuole che vada perduto, le sue sono foto “che possono far cadere il governo”. Per questo non vuole andare nella tranquillità della luce senza prima combattere per risolvere il mistero che lo riguarda personalmente, e per rendere pubblico il proprio lavoro come difesa contro l’amnesia collettiva.

L’aldilà è popolato da diverse tipologie di fantasmi: ribelli in cerca di vendetta, suicidi che continuano a ripetere il loro ultimo atto, turisti morti in un attentato che continuano la loro vacanza... poi ci sono gli Aiutanti/Facilitatori che cercano di aiutare i nuovi arrivati a orizzontarsi nella loro condizione di morti in Between. Molti si lasciano convincere ad andare verso la luce e l’oblio, ma molti altri resistono: durante le sue sette lune, Maali parla con una varia umanità di fantasmi di argomenti diversi, dalla politica alla religione -varie religioni-, dalla famiglia all’ingiustizia, alla guerra e a quello che davvero importa nella vita.

Ci sono riferimenti al colonialismo (e la divertente riappropriazione di Arthur Clarke come scrittore srilankese -the Empire strikes back di rushdiana memoria) e al ruolo negativo delle forze ONU indiane. Riassumendo, Maali è deluso e disilluso da tutte le fazioni politiche attive nel suo paese. Ha lavorato per tutti e di tutti ha visto gli errori e i crimini.

Da ateo, Maali dice una cosa molto importante sul Male: (p.20)

Evil is not what we should fear. Creatures with power acting in their own interest: that is      what should make you shudder.

Quello che ci deve far rabbrividire è l’esistenza di creature di potere che agiscono  per il proprio interesse. Una delle poche cose che suo padre gli ha insegnato è che il male vince perché è meglio organizzato...

La sessualità di Maali, oltre a essere un riferimento a de Zoysa, può essere semplicemente un dettaglio della caratterizzazione, un aiuto allo sviluppo della trama, ma sicuramente è anche un elemento politico: gli omosessuali in Sri Lanka portavano -e portano ancora- uno stigma pesante.

Tutte queste idee importanti, e pesanti, sono però trattate con un linguaggio semplice e chiaro e con un grande senso dell’umorismo. Il Black Humour o Dark Gallows Humour è l’unica cosa che rende sopportabile la situazione descritta nel romanzo.

Dal punto di vista tecnico, la prima cosa che noti quando cominci a leggere è l’uso insolito della seconda persona. Probabilmente questo è uno dei modi che l’autore adopera per distanziarsi dal suo protagonista e allo stesso tempo per fornigli la necessaria oggettività e lucidità per capire quello che succede. Maali stesso ha bisogno di prendere le distanze dalla propria vicenda per comprendere gli eventi.

La scelta dell’ambientazione nell’oltre tomba è stata spiegata molto bene dall’autore in un’intervista dopo la vittoria al Booker Prize.

What was your starting point for Seven Moons?

The end of the civil war, in 2009. For an entire lifetime, that’s all we’d known. We thought the war would continue forever. But there was debate over what happened, in the final stages, to the 40,000 civilians who were killed. I thought, let the dead speak because the living doesn’t have a clue. That was my starting point.

(La fine della guerra civile, nel 2009. Per un’intera vita era stata l’unica cosa che avevamo conosciuto. Pensavamo che la guerra sarebbe andata avanti per sempre. Ma c’era il dibattito su su quello che era successo, nelle fasi finali, ai 40.000 civili che erano stati uccisi. Ho pensato, lasciamo parlare i morti, perché i vivi non hanno nessuna idea in proposito. Quello è stato il mio punto di partenza)

Il plot è complesso ma gestito benissimo. Se devo fare una critica: il finale è un po’ diluito e un po’ troppo “felice”. Però credo che questa sia proprio una cosa voluta dall’autore, anche se secondo me indebolisce il libro.Rispondendo a una domanda sul futuro significato del suo romanzo, Karunatikala ha dichiarato che spera che fra vent’anni Le Sette Lune potrà stare sugli scaffali del fantasy, vicino al Signore degli Anelli e a Harry Potter.

I’m writing magical books with ghosts and demons, and people are saying, “Yeah, that’s exactly what Sri Lanka’s like right now.”  (Scrivo libri di magia con fantasmi e demoni e la gente dice:” Sì, questo è esattamente lo Sri Lanka adesso!”)

Tra le cose che ho trovato affascinanti in questo libro c’è anche la mitologia dello Sri Lanka, simile e diversa da quella indiana, con una complicatissima gerarchia di demoni stranissimi e fantasiosi, spaventosa e affascinante.

INFLUENZE
Tra gli autori di cui Karunatilaka riconosce l’influenza sono evidenti Salman Rushdie per il realismo magico, Michael Ondaatje (ANIL’S GHOST è l’unico altro romanzo che tratta della guerra civile in Sri Lanka, per quanto ne so io), Neil Gaiman (fantasy) Kurt Vonnegut e Douglas Adams (fantascienza/fantasy/humour) ma anche Agatha Christie e Stephen King per l’aspetto crime. Qualche critico ha fatto riferimento agli autori russi, in particolare a Gogol e Bulgakov, ma questo non è proprio il mio campo.


venerdì 18 aprile 2025

CONSIGLI AMERICANI

 Quella parte di America che amiamo c'è ancora, e vive nella letteratura. In questo momento di generale fastidio per gli ex amici d'oltreoceano, vi consiglio un paio di libri usciti già da un po' anche in italiano su cui vale sicuramente la pena di soffermarsi. Entrambi parlano del presente ispirandosi ai grandi del passato.

Il primo è DEMON COPPERHEAD, di Barbara Kingsolver, un titolo che rimanda apertamente a Dickens. E' un libro costruito su vari livelli diversi: è un classico Bildungsroman, è un libro di avventura con tratti epici; è un romanzo politico che mischia tragedia e commedia, realismo contemporaneo e realismo Vittoriano, visione morale e humour. Quindi, certamente Dickensiano. Per questo, come ha scritto qualcuno -sorry, non ricordo chi- è un emotional punch, un pugno emotivo nello stomaco. Sono assolutamente d'accordo.

E' incredibile vedere quanto poco è cambiato dalla società Vittoriana di DAVID COPPERFIELD  agli USA del giorno d'oggi, almeno in alcune aree (quelle tristi, quelle pericolose per l'equilibrio di tutto il mondo): quello che descrive Kingsolver, la povertà, la crisi degli oppioidi, il fallimento delle istituzioni, non è molto diverso dal mondo descritto da Dickens. Questo romanzo può aiutare a capire quello che è successo alle ultime elezioni americane, ma può anche aiutare a trovare una chiave per cercare di risolvere il problema. In questo contesto puoi diventare una vittima, un vice-presidente degli Stati Uniti, oppure Demon Copperhead. Il protagonista è un personaggio meraviglioso che il lettore ama dalla prima all'ultima pagina, con tutti i suoi difetti e le sue virtù. Anche gli altri personaggi sono molto interessanti e ben costruiti, completi e soddisfacenti. La prosa è brillante e il plot è impeccabile.

Un libro che non si dimentica.

L'altro romanzo importante, veramente importante, che vi voglio segnalare è JAMES, di Perceval Everett, un autore che già abbiamo letto insieme in passato. Un autore che è un vero gigante, un genio della letteratura contemporanea, e non solo. Non credo che ci sia nessun autore americano vivente alla sua altezza in questo momento. Tutto in questo romanzo è ai massimi livelli, l'invenzione, l'affondo psicologico, l'ironia, l'uso della lingua, davvero tutto. Anche qui la capacità Dickensiana di mescolare la tragedia con la commedia e persino la farsa, la risata e le lacrime. 

Everett ha trattato il tema del razzismo americano con grande acume e sottigliezza in tutti i suoi libri, e qui conferma questa sua abilità creando un'ucronia, una storia alternativa che però non ha avuto sbocchi positivi. Il punto di partenza è molto semplice: la riscrittura di LE AVVENTURE DI HUCKLEBERRY FINN dal punto di vista dello schiavo nero: tutto il resto è un fuoco d'artificio di invenzione, ironia, sarcasmo, sofferenza e divertimento.

 Mark Twain sarebbe orgoglioso dell'uso che che Everett ha fatto del suo lavoro.


lunedì 10 febbraio 2025

Richard Osman, Il Club dei Delitti del Giovedì, eccetera, eccetera...

 Adoro i gialli, di ogni tipo (meno quelli stupidi e quelli "rosa"). Sono rilassanti e stimolanti allo stesso tempo, cancellano i brutti pensieri e ripuliscono la mente. Ti costringono a pensare senza fare troppa fatica. Ne tengo sempre una bella riserva per i momenti difficili.

Le crime stories di Osman sono davvero piacevoli e divertenti. Sono tipici light crime, gialli leggeri, costruiti con un miscuglio di sotto-generi della crime story Britannica classica. C'è la detective story con l'investigatore/gli investigatori privati che indagano, Il procedural, con i poliziotti che fanno il loro lavoro più o meno secondo le regole, la spy story con interventi di MI5 eMI6 e un po' di KGB a complicare le vicende.

Il tutto condito con un po' di Agatha Christie (gli investigatori "maturi"), John Le Carrè (lo spionaggio serio) e anche tanto humour (e qui il riferimento contemporaneo è sicuramente il grande Mick Herron e le sue spie fuori di sesto della serie di Slough House -vivamente consigliato).

Ingrediente fondamentale è la Britishness della situazione, dai personaggi all'understatement: Joyce, la seconda voce narrante, è lo stereotipo della vecchietta inglese middle-class, tè e torte comprese, che accetta le più assurde situazioni con la massima calma -ma questo vale anche per gli altri personaggi- e divertendosi come una pazza.

E poi c'è la lingua: una vera goduria, soprattutto se leggete in inglese: un inglese un può fuori moda, diverso per età e classe sociale, con modi di dire adorabili che si trovano sempre più raramente. Ecco, forse questo tradisce la mia età, pericolosamente vicina a quella dei componenti del Club del Giovedì...

lunedì 6 gennaio 2025

Un consiglio: Locus Desperatus di Michele Mari

Non è un libro per tutte le stagioni. Non leggetelo in un momento di depressione, o di super lavoro o se pensate che lo stress stia giocando con la vostra memoria. In tutti gli altri casi, è un libro molto interessante.

All'inizio la lettura è un po' faticosa: il gioco linguistico sembra un po' pedante, poi si decolla (non arrendetevi!) in un viaggio kafkiano (ancora Kafka, sempre Kafka...) dentro una mente che si sta disintegrando. Il protagonista è un personaggio eccentrico, isolato, senza relazioni umane di nessun tipo. un accumulatore seriale di libri e di oggetti di qualsiasi tipo, sia preziosi che di nessun valore materiale. Le pagine sui libri sono molte belle, stimolanti, eccitanti, perfino. Ma il destino dei libri è strettamente collegato al destino del protagonista.

Un tuffo nella follia di un sistema incomprensibile che ti mangia i ricordi, letteralmente e concretamente. 

Non possiamo non dirci kafkiani...

 Sul finire dell'anno dedicato all'autore, ci siamo trovate (dove sono gli uomini quando servono?!) per discutere di Franz Kafka.

 Partiamo dall'aggettivo kafkiano: sicuramente non tutti hanno letto Kafka, ma sicuramente moltissima gente usa l'aggettivo kafkiano. e, infatti, sta nel vocabolario. La Treccani dice: che richiama l'atmosfera tipica dei racconti di Kafka, e quindi, inquieto, angoscioso, desolante o paradossale, allucinante, assurdo; che colpisce per la spaventosa assurdità dei suoi risvolti; incredibile, inverosimile, spaventoso.

Termine equivalente potrebbe essere perturbante nell'accezione freudiana ... con riferimento a qualcosa che è estraneo e familiare a un tempo, e risuona proprio per questa sua ineliminabile e spiazzante ambiguità.

Il Processo mi è sempre sembrato il testo che meglio rappresenta queste caratteristiche di straniamento, soprattutto usando i luoghi come chiave per esplorarle: la prima udienza si tiene in una soffitta di periferia a cui si accede tramite una cucina; la casa del pittore non ha finestre ma una seconda porta che misteriosamente si apre sulle cancellerie del tribunale; il duomo sembra cambiare forma man mano che K. lo percorre e discute la sua posizione (è questo il suo processo? Dopo tutto, poco dopo c'è l'esecuzione).

Niente ha senso, tanto meno l'esecuzione passiva, senza una sentenza ufficiale. E' tutta un'allucinazione? K. sta impazzendo? Certo il romanzo è il viaggio in una mente che corre verso la follia, ma anche in una società che non ha più punti fermi:

 ...le nostre autorità...non cercano già la colpa nella popolazione ma, come dice la legge, sono attirate dalla colpa e devono mandare noi a fare i custodi. Questa è la legge. Come potrebbe darsi un errore?

Si rese soltanto conto dell'inutilità di opporre resistenza...Era ancora possibile ricevere aiuto? C'erano obiezioni dimenticate? Certo che ce n'erano. La logica è bensì incrollabile, ma non resiste a un uomo che vuol vivere. Dov'era il giudice che egli non aveva mai visto? Dove il supremo tribunale fino al quale non era mai arrivato? Alzò le mani e allargò le dita.

E' una resa totale. Malgrado muoia interrogandosi legittimamente sulla sua vicenda, K. è esausto per la lotta incomprensibile che ha dovuto sostenere e si lascia sgozzare come un animale al macello, ultimo sentimento la vergogna. Nel Processo vediamo la disgregazione quasi improvvisa della sicurezza e del senso di superiorità del personaggio K., che perde le sue certezze, non ha più punti di riferimento, si trova immerso in una realtà destrutturata ed evanescente (e lo stesso si può dire di Gregor Samsa o dell'agrimensore nel Castello). Il protagonista è smarrito, non è più in grado di svolgere il suo lavoro e non riesce più a controllare le proprie emozioni e i rapporti con le persone che lo circondano. L'assurdità della situazione lo sfinisce e l'alienazione è totale e tragica.

Come K. nel romanzo, anche noi lettori continuiamo a porci domande sull'autore a cui è molto difficile rispondere. Come interpretare la sua simbologia, così densa e complessa da decifrare? La burocrazia impossibile rappresenta la decadenza dell'Impero Austro-Ungarico o l'ombra dei nascenti totalitarismi? E' possibile una lettura freudiana dell'opera di Kafka? E' possibile una resa cinematografica che allarghi la platea di chi riflette sul nostro? (Ricordo solo un tentativo, per me riuscito, di Orson Welles).

Dopo più di un secolo ci stiamo ancora interrogando. Una cosa è certa: della grande generazione del Modernismo, Kafka sembra l'autore che più si è concentrato non solo sul rapporto dell'uomo moderno con se stesso e la propria mente, ma anche, e soprattutto, sul suo rapporto con la società del '900. Ed è l'autore di quella generazione che più ha influenzato il pensiero, se non la tecnica letteraria, di un vastissimo pubblico di lettori, di scrittori, ma anche di tante persone che di letteratura non sanno niente. Situazione kafkiana.

venerdì 13 dicembre 2024

martedì 2 luglio 2024

Scompartimento n. 6 di Rosa LIKSOM

 Carissime/i

con Rossella saliremo su un treno che avanza verso il circolo artico.

Due estranei condividono un viaggio che cambierà il loro punto di vista sulla vita. 

Il film è stato premiato al Festival di Cannes, ha ottenuto 1 candidatura a Golden Globes, ha ottenuto 3 candidature agli European Film Awards, ha ottenuto 1 candidatura a Cesar, ha ottenuto 1 candidatura a Satellite Awards, ha ottenuto 1 candidatura a British Independent, ha ottenuto 1 candidatura a Spirit Awards, In Italia al Box Office Scompartimento n.6 ha incassato 486 mila euro . 


Quando nel 2011 Rosa Liksom, scrittrice finlandese già affermata in patria, pubblicò  Scompartimento N.6, l’editore giudicò l’opera troppo anomala per arrivare a un grande successo. Il linguaggio aspro, scabro, sebbene poetico, ma soprattutto l’ambientazione – l’Unione Sovietica degli anni ’80, una potenza sull’orlo della dissoluzione – lo avrebbero probabilmente reso indigesto ai finlandesi, memori delle tensioni della Guerra fredda.

L’omonimo film, liberamente ispirato al romanzo, valso al regista finlandese Juho Kuosmanen il Gran premio della Giuria all’ultimo Festival di Cannes, ha acceso nuovamente i riflettori sul piccolo capolavoro che la Liksom ha saputo generare.

Un romanzo denso di immagini, odori, giochi di luce e paesaggi sconfinati che ci ha fornito l’ispirazione per approfondire una terra inesplorata.

Scompartimento N.6 di Rosa Liksom: la trama del libro

Due sconosciuti si trovano, loro malgrado, a condividere l’angusto scompartimento n°6 del leggendario treno che percorre la tratta Transiberiana da Mosca a Ulan Bator, capitale della Mongolia. Lei, finlandese studentessa di archeologia, timida e introversa; lui, metalmeccanico russo, plasmato secondo la forma mentis della grande macchina sovietica. La convivenza, che inizialmente appare impossibile, lungo il viaggio diviene più tollerabile, e, fermata dopo fermata, le teorie scioviniste e maschiliste del russo Vadim, lasciano il posto alla disperazione di un amore, quello per la Madre Russia, inesorabilmente fallito e annegato nella vodka.

“Si allontana l’Unione Sovietica, una terra stanca, sporca, e il treno s’immerge nella natura, avanza pulsando attraverso un paese sabbioso, deserto. Tutto è in movimento: la neve, l’acqua, l’aria, gli alberi, le nubi, il vento, le città, i villaggi, gli uomini e i pensieri.”

Un romanzo più che attuale a trent’anni dalla caduta del Regime Sovietico

Scompartimento n°6 è soprattutto un viaggio nelle città siberiane dai nomi ostici e dall’edilizia distopica, nel respiro immenso e gelido della natura boreale, nelle tradizioni di un mondo rurale e di un’epoca per molti ancora poco nota. Le atmosfere tossiche della colonizzazione industriale targata URSS, le dinamiche di un sistema politico oppressivo e indifferente, e gli impeti di orgoglio e autodistruzione del popolo russo, fanno da cornice a un racconto costellato da una miriade di citazioni e riferimenti popolari.

Come la cucina – i pirozhki, fagottini ripieni di carne simili alle nostre focaccine, o il kvass, una sorta di birra prodotta in casa e ottenuta dalla fermentazione del pane – o gli oggetti comuni dell’epoca; come le pesanti sigarette Belomorkanal che i metalmeccanici russi consumavano in grande quantità, o gli abiti popolari che Vadim indossa identificando immediatamente il suo ceto sociale.

Scompartimento N.6: un esperimento semantico ricco di interconnessioni artistiche

A trent’anni dalla caduta del regime sovietico, il romanzo della Liksom risulta ancor più attuale per la capacità di connettersi ad altri progetti artistici che evocano gli stessi luoghi. Leggendolo ci è sembrato inevitabile ripensare alle immagini e alle riflessioni del fotografo russo Sergej Ponomarev, incaricato da Apple di realizzare un fotoreportage dei sette gioni di viaggio in treno lungo la transiberiana, armato unicamente del proprio smartphone.

I casolari in fiamme, che talora illuminano la taiga all’orizzonte, ricordano Motherland, ambizioso progetto di Fotografia Europea 2018 Non ci stupirebbe poi di trovare Vadim il russo in Transnistria, tra i criminali di Educazione Siberiana, il romanzo di Nicolai Lilin da cui è tratto l’omonimo film di Gabriel Salvadores. E tra i passeggeri in viaggio ci avrebbe sorpreso David Bowie, immortala in alcuni scatti memorabi nel 1973, quando attraversò in segreto l'Unione Sovieticamdi ritorno da una tourée in Giappone.

“Scompartimento n°6” è un racconto che ben presto esce dallo spazio claustrofobico del vagone del treno per connettersi al mondo che attraversa, come una finestra temporale che consente al lettore un’incursione in un passato ancora così attuale.

“Quando si passa così tanto tempo all’interno di un treno, si raggiunge uno stato d’animo strano… Non si è più a casa. Ma non si è ancora arrivati da nessuna parte. Tutto è uguale, ma al contempo tutto cambia: il paesaggio, la gente… Anche il tempo assume un aspetto incostante.” (Sergej Ponomarev).

[Silvia Ognibene e Natale Vazzana]

 

domenica 19 maggio 2024

FERROVIE DEL MESSICO: CONTRORECENSIONE

 GIAN MARCO GRIFFI

FERROVIE DEL MESSICO

 La recensione che ha inserito Roberta non mi è piaciuta, l'ho trovata un po' pigra e piuttosto snob, per cui aggiungo la mia presentazione. Non mi interessa chi sia Griffi, cosa faccia nella vita quando scrive. Quello che importa è che non si tratta della solita storia familiare/autofiction/giro attorno all'ombelico, scritta possibilmente in una lingua piatta e con un plot senza complicazioni.

Care compagne e cari compagni di lettura, immagino che, vedendo il libro per la prima volta, vi sarete chiesti perché vi ho imposto questo tour de force, soprattutto per i vostri polsi. La risposta è: perché finalmente ho trovato un romanzo italiano vero! E devo dire che la cosa mi ha molto emozionata.

Mi è sembrato di tornare indietro nel tempo, a studiare le origini del romanzo, immersa in Fielding, Sterne, Cervantes, Scarron, il romanzo picaresco, il comico-epico, l’anti-romanzo, la ricerca del Santo Graal, tutto insieme. 

So che non tutti amano le digressioni, ma Griffi in realtà non perde mai il filo della storia, o delle storie. Se leggiamo l’incipit, una delle cose più importanti e difficili per un narratore, vediamo che contiene già tutte le linee narrative: il generale e il particolare, la Storia e le storie individuali, la repubblica sociale e la Resistenza, l’odontoiatria e gli amici, l’epica e la guerra. Forse qui manca solo l’amore, ma quando arriva, sappiamo che arriva alla grande.

Dal punto di vista tecnico, Griffi non usa solo le digressioni (che rimandano soprattutto al romanzo inglese del ‘700), ma anche l’alternanza dei punti di vista, l’alternanza della prima e terza persona, il flusso di coscienza (p.162), l’alternanza dei piani temporali, per cui ci troviamo davanti un racconto a spirale che va avanti e indietro nel tempo e tra i personaggi, fornendoci sempre nuovi elementi per la comprensione della storia. 

Poi ci sono moltissimi riferimenti e citazioni di altri autori:

STRUTTURA

² Sterne (digressioni, comico, punteggiatura p.150-51)

² Fielding (comic epic in prose)

² Borges  (pp.238 e 380)

² Kafka (la situazione, il punto di partenza della storia, la burocrazia, il povero Bardolf/Josef K. - agrimensore K.)

 

PERSONAGGI E SITUAZIONI

² Shakespeare (p. 386 -Hamlet ritorna più volte)

² Beckett (Waiting for Godot: i becchini = Vladimir /Estragon -p. 379 - Hamlet)

² Eliot: Prufrock (624); + Satyricon (p.769) = epigrafe della Waste Land

² Wordsworth (citato da Bardolf, p.549)

² Melville: Bardolf/Bartleby (p.559)

² E.A. Poe + Foscolo (p.668) upupa e corvo nevermore al funerale di Firmino

² Aristofane? (nuvole - p.553)

² Tutti i classici che hanno portato i loro personaggi agli Inferi (pp.539 e 545) + i diavoli danteschi e il viaggio nel niente (p.578)

² La ricerca del Graal: Cesco che cerca il libro che gli darà la risposta sulla mappa delle ferrovie del Messico.

² Se stesso: Piu segreti degli angeli sono i suicidi (p.194)

² Le architetture e le geometrie impossibili di Piranesi ed Escher (pp. 42 e 743)

² Il racconto come vita (p.296); i continui riferimenti ai poeti, suicidi e non (p.406)

E chissà quanto altro mi è sfuggito o mi è rimasto ai margini della coscienza. Intanto che leggi, ogni tanto fai un salto perché ti viene in mente qualcosa e il cervello resta sempre attivo.

Un’altra cosa importantissima in questo libro che mi ha coinvolta molto è la lingua, che non è semplificata e minimalista, ma ricca e contaminata da altre lingue, dialetti, slang e mi pare, anche qualche neologismo creato per l’occasione. La mia parola preferita è Sfilosomiato: vuol dire che una persona è talmente stanca, stravolta da perdere i connotati del viso, è quando ci si innamora e si viene travolti, quando Cesco incontra Tilde.

È una lingua viva e divertentente, stimolante sia dal punto di vista lessicale che delle immagini, ricca di similitudini e metafore.

Ci sono similitudini con la mitologia classica (come già visto all’inizio), ma la metafora portante è quella della carie ideologica:

² Buco nella bandiera (p.34)

² Carie ideologica (p.66)

² Morte di Kraas (p.669)

C’è molta politica, descritta sia in tragedia (strage nazifascista, assassinii politici) che in commedia (Hitler e la marsina, pp.203-225, Kraas e il golf (p.426-441). Poi c’è il tragicomico (Bardolf Graf e il libro).

E poi, per quanto riguarda la politica, c’è Cesco. Credo che per molti di voi il personaggio centrale sia Tilde, e dal punto di vista tecnico lo è: è lei che spiega cosè la letteratura e perché è indispensabile alla vita (p.361:essere lirici e ironici...). In un certo senso lei è la letteratura proprio perché è una donna: contiamoci... e poi non è un’incubatrice (p.302). Vedi anche: gineceo (p.301) e fotografia (p.234).

Ma secondo me la figura più importante è Francesco Magetti, e non solo perché è in scena più o meno dall’inizio alla fine, è sicuramente il protagonista. Quello che fa di Cesco un personaggio fondamentale a tutto tondo è il fatto che incarna una condizione molto diffusa nel momento storico del romanzo, ma anche -temo- molto contemporanea. Leggete quello che ha detto Griffi di lui in un’intervista:

È uno che si ritrova in un certo periodo storico e non ha la forza di volontà per migliorare il mondo intorno a sé, immerso nell'ignavia, un brodo da cui non riesce a uscire e ne rimane invischiato. Quel brodo è essere fascisti repubblichini nel '44 nel Nord Italia. La storia di Cesco è abbastanza comune. Era molto più difficile prendere la decisione contraria: quella di unirsi ai partigiani, perché comportava un forte rischio per sé e per la propria famiglia. Quella era la vera decisione da prendere. Chi non l’ha presa si è ritrovato dalla parte sbagliata della storia. Magetti ci finisce per pigrizia.

Vedi: il torpore (p.474); il dubbio (p.533); sempre a metà strada (p.711); cultura e lavoro (p.724)

Un altro pezzo dalla stessa intervista: 

Che cosa vuol dire allora "antifascismo"?

È una condizione umana. Credo che l’essere umano debba essere antifascista, a qualunque tipo di schieramento appartenga. Posso essere di destra e essere anche antifascista, anzi dovrei esserlo, perché questo significa essere umani, essere contro i soprusi e a favore di qualunque tipo di diritto. Questo è un romanzo antifascista e apolitico.

Io sono stato obiettore di coscienza. Non è un caso se Ferrovie del Messico è un romanzo antimilitarista. Sono un antimilitarista convinto. Credo che potremmo fare tranquillamente a meno delle armi, se volessimo. La verità, però, è che non lo vogliamo

A proposito di questo argomento, ho imparato, purtroppo, una cosa nuova: nella mia ignoranza storica, non avevo idea dell’esistenza di questi corpi militari fascisti più nazisti dei nazisti, tanto da adottare una denominazione tedesca.

SICHERHEITS-ABTEILUNG

P. 176: sono i più sadici di tutti

Questa formazione autonoma della RSI denominata con la dicitura tedesca di Sicherheitsabteilung (reparto per la sicurezza), era un'unità di polizia costituita da fascisti alle dirette dipendenze del Comando Tedesco nel nord Italia (162ª Divisione) e attiva nei territori dell'Oltrepò Pavese.

Commenti

il 12/08 SR ha commentato Non credo che D'Avenia possa far parte del nostro blog. Certo i suoi libri sono best-sellers tra gli adolescenti, e probabilmente hanno il merito di avviare qualche giovane alla lettura, ma la banalità delle situazioni e del linguaggio non permettono di considerare questi testi letteratura. Diciamo che sono testi "di servizio", nella migliore delle ipotesi. su Prossimamente
il 14/05 SR ha commentato Purtroppo J.K.J. non sembra più funzionare con le ultime generazioni: un tentativo di leggere a scuola Three Men In a Boat è finito miseramente in noia. I ragazzi non capivano cosa c'era da ridere e io non capivo perché non capivano. Tristissimo. Jerome per me è finito in quell'armadio dove tengo gli autori speciali che voglio proteggere dagli studenti... su Jerome K. Jerome, fare ridere l’uomo moderno, spaventato
il 29/02 Ida ha commentato A proposito di classifiche: "Oggi se vai al cinema devi entrare a un’ora fissa, quando il film incomincia, e appena incomincia qualcuno ti prende per così dire per mano e ti dice cosa succede. Ai miei tempi si poteva entrare al cinema a ogni momento, voglio dire anche a metà dello spettacolo, si arrivava mentre stavano succedendo alcune cose e si cercava di capire che cosa era accaduto prima (poi, quando il film ricominciava dall’inizio, si vedeva se si era capito tutto bene - a parte il fatto che se il film ci era piaciuto si poteva restare e rivedere anche quello che si era già visto). Ecco, la vita è come un film dei tempi miei. Noi entriamo nella vita quando molte cose sono già successe, da centinaia di migliaia di anni, ed è importante apprendere quello che è accaduto prima che noi nascessimo; serve per capire meglio perché oggi succedono molte cose nuove." Anch'io,come U.ECO sono andata al cinema nel modo ricordato e quindi io amo ricordare e vorrei tanto poter fare liste di su Chi siamo
il 28/02 Ida ha commentato Grazie Roberta per aver riaperto il blog.Trovo che è un modo per uscire dalla solitudine delle letture personali.Scrivere e leggere accanto, trovo che è un bel modo per parlarci e parlarmi. su Chi siamo