Una ragazza di diciannove anni di recente si è suicidata nei bagni dell’Università. A Milano, ma avrebbe potuto essere in qualsiasi altro posto – ma che sia Milano, città della vita devoluta al lavoro, assume un senso particolare. Quella ragazza ha lasciato scritto: «Nella vita ho fallito tutto». Un fatto così é davvero il segno più lacerante di questi tempi. Non sarebbe successo, in un altro. Non che i giovani non si togliessero la vita a diciannove anni. Ma non per questi motivi, per aver “fallito tutto”, quando ancora tutto ha da iniziare; e in un’età in cui si è ancora, diversamente che in altri tempi, adolescenti.
Ho la fortuna, da insegnante di filosofia al liceo, di parlare con i giovani di questi argomenti, e tocco con mano, anno dopo anno, come sia il fallimento il loro incubo universale. Una generazione sovrastata dagli imperativi prestazionali di un mondo in cui massimamente virtuosa è la competizione, in cui ognuno deve conquistare la propria identità personale e insieme ascendere nella scala sociale grazie al proprio spirito di iniziativa, alla propria intraprendenza. Un processo, questo, evidentemente acceleratosi dagli anni Ottanta, col dilagare della rivoluzione culturale neoliberista, il cui motto sta nell’enunciato di Margaret Thatcher «la società non esiste, esistono solo gli individui».
E’ un mondo in cui tutto é disponibile, tutto é possibile, e prenderselo tocca solo a te, imprenditore di te stesso. Il tuo valore dipende solo da te: just do it. Le norme sociali ti impongono di fare, tu sei sovrainvestito di attese, di aspettative, di immagini «eccellenti» che il mondo ti propone – e il terrore è quello di non essere all’altezza di tutte queste richieste. È’ troppo. Lo apprendi in ogni istante della vita, dalla famiglia, dai media, dai social, dalla scuola (che ti propone un’immagine di te standardizzata e misurabile, col “portfolio delle competenze”). E’ troppo. E crolli. Di fronte al peso della tua inadeguatezza, dell’insufficienza. Della vergogna per non essere abbastanza. Le frustrazioni sono insopportabili per un Io che è stato sovrainvestito di attese, di aspettative. In questo consistono le patologie narcisistiche. La vergogna – una gogna, appunto – un supplizio che non si regge, e si fa fronte ad essa in tanti modi – con i disturbi del comportamento alimentare, col ritiro sociale, col panico – fino a scomparire del tutto. Quella ragazza che si é tolta la vita ha molto a che fare col fallimento: col fallimento che siamo tutti quanti noi, col fallimento che è la società che lasciamo in sorte ai giovani.
I giovani, come dicevo, hanno tutto questo molto chiaro. Uno splendido manifesto del loro disagio, e della consapevolezza di questo disagio, lo ha articolato Emma Ruzzon, rappresentante degli studenti dell’Università di Padova, all’inaugurazione dell’anno accademico: «Siamo stanchi di piangere i nostri coetanei», ha detto, «e vogliamo che tutte le forze politiche presenti si mettano a disposizione per capire, insieme a noi, come attivarsi per rispondere a questa emergenza, ma serve il coraggio di mettere in discussione l’intero sistema meritocentrico e competitivo».
Poi, sul giornale (quello con la maiuscola, dico: il Giornale) trovi un articolino di Stefano Zecchi che invece ci dice che «non ci si può sottrarre alla competizione», e che imputa la volontà di sottrarsi a essa alla «virtualità» che «porta a non confrontarsi con la vita vera», quando invece la virtualità – basterebbe che avesse letto Pietropolli Charmet – va proprio nella direzione dell’approvazione, dell’ammirazione, dello specchio narcisistico, e della correlata vergogna sociale. E dopo aver letto questo rinnovato elogio della competizione come riflessione a margine del suicidio nei bagni dell’Università, ti viene solo da pensare in che mani siamo, questi sono gli «educatori», aguzzini prestazionali che ai giovani hanno da offrire solo infelicità.
Il ribaltamento di queste logiche prestazionali maschili non può che venire da donne come Emma. E l’antitesi del becero senso comune da esempi di sottrazione alla volontà di potere e di dominio come hanno dato di recente due donne – la scozzese Nicola Sturgeon e la neozelandese Jacinda Ardern – che si sono dimesse dalla carica di premier, rinunciando alla propria “eccellenza” rivendicando il non farcela più, l’essere esauste, il rifiuto della brutalità della politica, e dicendo, ambedue: “I am human”.
* autore di “Soffro dunque siamo. Il disagio psichico nella società degli individui” (minimum fax 2023).
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